La Bibbia e la letteratura dell'Occidente.

Lingua madre, legge del padre e discendenza letteraria

di Jean-Pierre Sonnet

 

© Lumen Vitae, Bible et sciences humaines, n°4, 2001, pp. 375-388

(per gentile concessione dell'autore; traduzione di Luciano Zappella)

All’inizio di un’opera apparsa in italiano nel 1992, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia ad oggi, Harold Bloom, uno dei giganti della critica letteraria americana, nonché uno dei suoi enfants terribles, dice le seguenti parole:

Intorno all’anno 100 avanti l’Era Volgare, un fariseo compose ciò che la tradizione ha chiamato il Libro dei Giubilei, titolo esuberante per un modello di pessima scrittura. Quest’opera garrula è anche conosciuta come il Piccolo Genesi, fatto curioso considerando che è molto più lungo del Genesi e tratta anche l’Esodo. Non mi diverte leggere il Libro dei Giubilei, ma ne sono affascinato, non per quello che contiene per tutto ciò che esclude[1].

Ciò che il Libro dei Giubilei scarta dalla Genesi e dall’Esodo, spiega Bloom, è, a ben guardare, la loro trama narrativa[2]. L’autore del Libro dei Giubilei ha dimenticato l’essenziale: la Bibbia, prima di ogni altra cosa, racconta delle storie. E questo, aggiunge il critico americano, è ciò che fa anche Omero. 

Non si può attribuire il primato della forza narrativa all’uno piuttosto che all’altro. Possiamo soltanto dire che il Genesi e l’Esodo, l’Iliade e l’Odissea, fissano i parametri della forza letteraria ovvero del sublime, e che dopo di loro giudichiamo Dante, Chaucer, Cervantes, Shakespeare, Tolstoj e Proust secondo questi criteri[3].

Ecco una campionatura del fatto letterario a cui la coscienza culturale italofona non ci ha molto abituati. Gli anglosassoni, eredi della King James Version, conserverebbero la memoria delle genealogie letterarie che a noi sfuggono? Trattandosi della Bibbia, l’opinione di Bloom riecheggia il famoso studio del critico canadese Northrop Frye, che ha riconosciuto nella Bibbia il grande codice della letteratura occidentale[4]. In questa analisi, Frye riprende, con stupefacente perspicacia critica, la frase del poeta e pittore inglese William Blake (1757-1827): «The Old and New Testaments are the Great Code of Art». Non ci si inganni però: l’indice dell’opera di Frye rimanda a Dante e a Milton, a Goethe e a Byron, a Arthur Rimbaud e a Wallace Stevens: il fenomeno del «grande codice» va oltre il solo ambito anglofono, e l’osservazione di un altro testimone della fecondità letteraria della Bibbia, George Steiner, consentirà di rendersene conto:

La nostra poesia, il nostro teatro e la nostra narrativa sarebbero irriconoscibili se omettessimo la presenza continua della Bibbia [...].  Tale presenza va dall’immensa mole delle parafrasi bibliche alle allusioni più marginali o mascherate. Essa comprende tutte le forme di intertestualità, di fusione tra le righe. Come circoscrivere una ricaduta così costante che va dalla traduzione o parafrasi dei testi biblici nei misteri medioevali alla presenza obliqua della Bibbia in Absalom, Absalom di Faulkner? Quale voce unica può rendere conto dell’utilizzo di Acab e di Giona fatto in Moby Dick, del riuso di personaggi biblici e di lettere nella Divina Commedia di Dante, e della rinarrazione massicciamente amplificata del mondo dei Patriarchi nella tetralogia che Thomas Mann ha dedicato a Giuseppe? Se un personaggio secondario come la moglie di Lot appare già nella poesia medioevale inglese, la si ritrova in Blake o in Joyce. Ma si trova pure al centro del poema di D.H. Lawrence, «She Looks Back». La sostanza di Mosè e di Sansone occupa un posto di primo piano nel romanticismo francese con Victor Hugo e Alfred de Vigny. Proust, come noi lo conosciamo, non esisterebbe senza Sodoma e Gomorra. Non ci sarebbe neppure Kafka senza le tavole della Legge. Niente Racine senza Ester e Atalia. Gli echi biblici, i giochi di citazioni mascherate o la parodia sono indispensabili tanto al Faust di Goethe quanto ai misteriosi riflessi dell’Eden e della caduta ne La Coppa d’oro di Henry James (titolo che sembrerebbe uscito dall’Ecclesiaste) o alle mutazioni desolate e sardoniche dell’intreccio principale in Aspettando Godot di Beckett. L’enumerazione sarebbe assurda[5].

Qui si trova qui il fenomeno indagato da queste pagine. Come ha potuto la Bibbia essere all’inizio di una tale tradizione in letteratura? Probabilmente, a motivo della sua autorità, morale e spirituale, ma anche, contemporaneamente, e in un modo che spesso sfugge al credente, a motivo della sua intima qualità letteraria. «La Bibbia è almeno una letteratura e il Dio di Israele è se non altro il più grande personaggio letterario dei tempi», scrive Erri de Luca, fine lettore della Bibbia pur senza essere credente[6]. Quale relazione osservare tra questa doppia autorità, religiosa e letteraria, della Bibbia e la fecondità che essa ha avuto nelle letterature? Saranno qui analizzati due aspetti del fenomeno. Da una parte, la Bibbia, rispetto alla letteratura occidentale, ha svolto il ruolo di matrice; oltre ai classici greci, è stata la Bibbia a fornire il repertorio di figure e di intrecci che popolano la cultura occidentale. Dall’altra, la Bibbia,  in tale parto, ha ricevuto anche un ruolo paterno: la letteratura occidentale ha intrattenuto con il libro un rapporto in forma di lotta con l’angelo, analogo alla lotta di Giacobbe in Gen 32. Il pensiero letterario si è misurato con le Scritture nello stesso modo in cui ci si misura con l’autorità paterna e con la legge del padre. In questo quadro di famiglia, il corrispettivo greco della Bibbia, l’opera di Omero, ha svolto un ruolo altrettanto fondatore, sebbene diverso — e avremo modo di osservare interessanti incroci nei due lignaggi. Al termine della nostra ricerca si imporrà una domanda: in questa inattesa discendenza, e specialmente negli ultimi di questi rampolli letterari, dai tratti quantomeno inattesi (come la Gerusalemme di Isaia, la Bibbia potrebbe esclamare davanti a loro: «questi, chi me li ha generati?» [Is 49,21]), la Bibbia si perde o si salva?

 

I. L’arte del racconto biblico

Per cogliere meglio la fecondità delle Scritture bibliche nella scrittura letteraria dell’Occidente, bisogna individuare la peculiarità dell’arte letteraria della Bibbia. Nella sua opera L’arte della narrativa biblica, Robert Alter, specialista di letteratura comparata, ha felicemente messo in luce l’arte biblica della narrazione[7]. L’insieme del suo studio è sostenuto da una tesi audace: la rivoluzione monoteistica tipica della fede di Israele è accompagnata da una rivoluzione letteraria. Lo sappiamo: la Bibbia ebraica riprende parecchi dei suoi materiali dalle culture religione — soprattutto mesopotamiche — che la circondano (si pensi al racconto della creazione e a quello del diluvio). La Bibbia ebraica si è però anche smarcata dall’universo mitico delle letterature del Vicino Oriente grazie ad un’arte narrativa sui generis, in sintonia con quel nuovo fattore che è il monoteismo etico di Israele.

Sul fronte mesopotamico e egizio, i racconti fondatori mettono in scena dei pantheon che sono il centro di intrighi autonomi capaci di interferire sul mondo degli esseri umani. Ciò che capita agli uomini sono, in una buona parte, le ricadute degli intrighi interni al mondo degli dèi  —  e ciò fin dalla creazione, che il racconto mesopotamico di Enuma Elish presenta come un combattimento tra gli dèi. Il racconto biblico, invece, mette in scena un Dio unico che, nel misterioso disegno della sua volontà, affronta interamente la libertà dei figli di Adamo. Qual è il medium letterario preferito nel Vicino Oriente antico? L’epopea in versi, che si ritrova tanto nell’Enuma Elish e nell’Atrahasis quanto nell’epopea di Gilgamesh, e che Alter definisce un medium totalizzante, dalla progressione inesorabile, adatto ad una visione chiusa della storia e del rapporto tra essere umano e divinità. La Bibbia, ed è un fatto unico nel Vicino Oriente antico, fa ricorso ad un altro medium letterario — quella della prosa narrativa. Perché questo ricorso al racconto e alle risorse di storie in prosa per dire la storia e i fondamenti della storia? Per il fatto che solo la prosa narrativa, con il suo gioco complesso e aperto, consente la rappresentazione del sottile rapporto tra la libertà divina e quella umana che si confrontano nella storia. Sulla scena del racconto, nella semplicità e nella complessità dell’intreccio, nello spazio e nel tempo della interazione tra i personaggi, assistiamo anche a ciò che sfugge alla rappresentazione del discorso in versi dell’epopea e al discorso speculativo — all’incontro tra il progetto di Dio e la libertà degli esseri umani[8]. L’intenzione teologica è qui interamente «calata» nella articolazione narrativa e, come sottolinea Alter, vi è «una interfusione completa fra arte letteraria e visione teologica, morale e storico-filosofica, in cui la percezione più piena della seconda dipende dalla più completa comprensione della prima»[9].

Vi è, nella prosa narrativa della Bibbia, una modalità narrativa peculiare, finalizzata al progetto cui si è appena accennato, modalità che Erich Auerbach ha messo in luce nel 1946 nello studio Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale[10]. Per far cogliere questa modalità specifica, Auerbach mette in campo un confronto tra la Bibbia e l’Odissea di Omero[11]. Lo specifico di Omero, spiega Auerbach, è di collocare tutto nel primo piano della narrazione, sotto una luce uniforme e senza una vera e propria tensione — la fisionomia dei personaggi come pure i loro pensieri e sentimenti, le grandi linee come i dettagli dell’azione. Il narratore biblico, invece, si limita a primi piani più sobri — tanto sobri in quanto significativi — e in questo modo conferisce alla sua narrazione degli sfondi drammatici.

Non è facile immaginare contrasti stilistici maggiori tra questi testi ugualmente antichi ed epici. Da una parte [nell’Odissea] fenomeni a tutto tondo, ugualmente illuminati, delimitati nel tempo e nello spazio, collegati tra loro senza lacune, in primo piano, pensieri e sentimenti espressi, avvenimenti che si compiono con agio e senza eccessiva tensione. Dall’altra parte [nella Genesi], dei fenomeni viene manifestato solo quel tanto che importa ai fini dell’azione, il resto rimane nel buio; vengono accentuati soltanto i punti culminanti e decisivi dell’azione; le cose interposte non acquistano esistenza; luogo e tempo sono indefiniti e bisognosi di chiarimento; i pensieri e i sentimenti restano inespressi, vengono suggeriti soltanto dal tacere e dal frammentario discorso; l’insieme, diretto con la massima e ininterrotta tensione a uno scopo, e perciò molto più unitario, rimane enigmatico e nello sfondo[12].

Se è onnisciente, e condivide come per ispirazione l’onniscienza di Dio, il narratore biblico si affida alla propria onniscienza con una drastica selezione[13]. Gli capita, occasionalmente, di farci sapere ciò che Dio sa di un personaggio o di una azione ma, di regola, attraverso l’oscurità che ci guida, «attraverso diverse forme di oscurità illuminate da fasci di luce intensi ma ridotti, da barlumi spettrali, da improvvisi bagliori intermittenti»[14] (a differenza del narratore omerico il quale rende sempre i suoi personaggi luminosi, anche quando sono in gioco, come nell’Iliade, le pulsioni più irrazionali del loro cuore). In particolare, il narratore biblico è estremamente discreto per ciò che attiene alle motivazioni dei personaggi. Non sappiamo niente, per esempio, dei sentimenti di Abramo nel famoso episodio di Gen 22; abbiamo diritto solo alla descrizione di alcune azioni, essenziali ma determinanti (Abramo prende la legna per il fuoco in un determinato punto del racconto; prende il coltello in un altro punto) e alla trascrizione di alcune parole da lui pronunciate («eccomi», o ancora [ai servi da cui prende congedo] «[Isacco e io] torneremo»). Per sondare le profondità del travaglio che anima Abramo al cospetto del suo Dio, siamo obbligati a interpretare. Perché Abramo prende la legna per il fuoco solo alla fine (v. 3)? Perché annuncia ai servi «ritorneremo» (v. 5)? È per non metterli in allarme (non sia mai che lo distolgano dal suo percorso di obbedienza)? Dipende dal fatto che spera, nonostante tutto, in un esito felice della vicenda? Avremo accesso alla vita interiore di Abramo solo dopo il rovesciamento dell’episodio, nella rivelazione che ne fa l’angelo di YHWH: «Ora so che temi Dio» (v. 12). Scopriamo, retrospettivamente, che era questo il solo sentimento che importava, che indirizzava Abramo, nella sua obbedienza e nella sua speranza contro ogni speranza. Ma quali profondità, psicologiche e spirituali, non avremo sondato nel frattempo? Commenta Alter: «Lo sfondo della narrativa biblica (…) implica in qualche modo uno sfondo più ampio, denso di possibilità d’interpretazione».[15]

L’ellissi narrativa è probabilmente il procedimento più significativo di questa modalità narrativa. Quando Daniele è sceso nella fossa dei leoni e il re pone i sigilli sulla pietra che ricopre questa fossa, il narratore non ci dice niente di ciò che avviene nel recinto della fossa, tra Daniele e le belve; preferisce seguire il re nei suoi appartamenti e e nella sua insonnia, e farci tornare con lui di primo mattino «di fretta» alla fossa (Dn 6,18-20). Nell’episodio dell’adulterio di Davide con Betzabea (2 Sam 11), il marito di costei sapeva o non sapeva che sua moglie lo ingannava con Davide? Alcuni indizi lo lasciano credere, altri no[16].  Che metta in chiaro le cose a posteriori (in Dn 6) oppure no (in 2 Sm 11), il narratore obbliga il lettore ad avanzare delle ipotesi e a verificarle continuamente nel corso della lettura. Scrive Alter: «Siamo costretti ad arrivare al personaggio e al motivo — come in scrittori impressionisti quali Conrad e Ford Madox Ford — tramite un processo di inferenza, a partire da dati frammentari, spesso con momenti cruciali dell’esposizione narrativa strategicamente sottaciuti per essere proposti più avanti nella trama, e ciò conduce a prospettive molteplici e talvolta persino oscillanti sui personaggi. C’è in altre parole un mistero presente nel personaggio così come lo concepiscono gli scrittori biblici, un mistero che essi esprimono attraverso i loro tipici metodi di presentazione»[17]. Questa estrema concisione del narratore determina un’arte di leggere appropriata: «Forse per la prima volta nella narrativa, il senso viene concepito come un processo, che esige  una revisione continua […], una continua sospensione del giudizio, il soppesare le molteplici possibilità, una riflessione costante sui vuoti lasciati dalle informazioni fornite»[18]. Ci resta da vedere come la letteratura occidentale abbia ampiamente messo a profitto questa peculiarità del testo matrice.

 

2. La Bibbia come matrice letteraria

Della letteratura occidentale si può dire che si sia ampiamente adoperata per riempire gli «spazi bianchi» della Scrittura. Il corpus letterario dell’Occidente assomiglia infatti a un palinsesto; esso è nato da un infinito processo di riscrittura degli intrecci ripresi dalla Bibbia (senza dimenticare ovviamente la matrice greca) — intrecci in cui si enunciavano, in nodo per così dire invalicabile, l’inizio, la fine e la peripezia centrale della storia. Questo processo ha avuto una natura essenzialmente suppletiva — bisognava sopperire alle indeterminatezze generate dalle ellissi del racconto. Si tratta di un processo innescato dalla tradizione ebraica antica, nella sua grande opera di traduzione (la Settanta e il Targum) e di interpretazione (il Midrash). Da sempre, la tradizione rabbinica ha puntato sugli «spazi bianchi» della Scrittura. A proposito dell’evento del Sinai, il Midrash dice così: «E la scrittura di Dio sulle tavole era ‘fuoco nero su fuoco bianco’» — fuoco nero delle lettere su fuoco bianco dello spazio «interletterale» e interlineare[19]. Questa sottolineatura del bianco del testo ha a che fare con le caratteristiche della lingua ebraica, che David Banon, nella sua bella introduzione alla lettura del Midrash, definisce una «lingua interstiziale»[20].  In ebraico, solo le consonanti sono decisive e nel testo sacro soltanto esse sono considerate ispirate; le vocali sono affidate all’interpretazione (per questo motivo si possono, in certi casi, «vocalizzare» significati diversi in una stessa parola consonantica). Ma ha a che fare anche con la poetica narrativa della Bibbia, la quale, come si è visto, moltiplica intenzionalmente le ellissi, i silenzi e le omissioni. Perché, per esempio, l’offerta di Caino, a differenza di quella di Abele, non è gradita a Dio? Il narratore sceglie di non rivelare il motivo della scelta divina: «Il Signore guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta» (Gen 4,4-5). Vi è dunque un’ellissi nel testo, l’omissione di un «per il fatto che…», che la tradizione interpretativa, nella Settanta, nel Targum e nel Midrash, si è ingegnata di completare[21].

La letteratura ha fatto lo stesso gioco[22]. Anch’essa, secondo la propria natura, ha amplificato il dato così conciso della Bibbia: i personaggi hanno dovuto pensare o parlare più di quanto il narratore abbia voluto riferire; hanno dovuto avere dei motivi per parlare e per agire al di là di ciò che il narratore biblico ha deciso di dirci. Nel libro di Giobbe, la moglie del saggio viene menzionata una sola volta, al cap. 2: «Ancora stai saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori» — «Tu parli da donna insensata», le risponde Giobbe (Gb 2,9-10). Nel suo romanzo breve, La moglie di Giobbe, Andrée Chedid ha dato voce e colto a questo personaggio che spunta bruscamente sul proscenio e poi sparisce:

Alors la femme parle, elle parle haut, elle parle bas. Arpentant ce qui reste de leur demeure, allant et venant sur le sentier des vignes détruites, de la rivière à sec, la femme parle. Elle parle avec et contre l’Histoire, avec et contre les humains, qui ont bonté et violence dans leurs os  La femme parle avec tout ce qui surgit des entrailles et s’élève vers on ne sait où. Elle parle, pour elle seule et pour chacun. Elle cherche à boucler sa pensée, à fixer ses sentiments, à saisir les raisons de ce saccage. Elle glane des mots d’ici, de là, espérant, à travers cette moisson déréglée, découvrir la parole qui soulagera Job et qui les soutiendrait[23].

Il libro più breve della Bibbia, il libro di Giona, ha suscitato, proprio a motivo della sua concisione, una grande quantità di riscritture. I poeti, i romanzieri, i saggisti, gli psicanalisti (Ch. Baudelaire, I. Calvino, J. Chessex, J.-P. de Dadelsen, R. Frost, J. Grosjean, F. Kafka, H. Melville, D. Sibony, Ph. Sollers, M. Tournier) hanno letto tra le righe, tra le parole del racconto biblico, quasi fossero sfidati dall’ellissi iniziale, che governa l’insieme dell’intreccio: per quale motivo Giona, inviato da Dio verso est, se ne fugge all’ovest? «È in questo momento che ho capito», spiega il Giona di J. Chessex, «che da sempre sognavo un ventre in cui ritornare, in cui rifugiarmi, in cui abitare per l’eternità»[24].

In materia di riscrittura suppletiva, la palma spetta ovviamente a Thomas Mann che ha fatto della storia di Giuseppe e dei suoi fratelli — tredici capitoli nella Genesi — un romanzo di milleseicento pagine in quattro volumi. In uno studio intitolato «Giuseppe e la moglie di Potifar —  Dalla Genesi alla riscrittura di Thomas Mann»[25], André Wénin si è soffermato sul tentativo di stupro di Giuseppe da parte della moglie di Potifar, il padrone della casa di cui Giuseppe era diventato il maggiordomo (Gen 39,7-20). Pochi versetti biblici, quattordici per la precisione, danno luogo in Mann a un lungo racconto di duecentoventi pagine. Così, a proposito dell’invito della donna a Giuseppe — «Unisciti a me» (Gen 39,7) —, Mann scrive, non senza ironia nei confronti del narratore biblico che ha riportato soltanto queste tre parole:

A dire il vero, siano presi da terrore al cospetto della troncata brevità di un resoconto che tiene così poco conto delle sventure imponderabili della vita, e poche volte cone in questo momento avvertiamo il pregiudizio inflitto alla verità da una concisione e una laconicità estreme[26].

È per questo che Mann, negli spazi vuoti del testo biblico e sfruttando i dati del Targum e del Midrash, «svolge un lungo racconto per tentare di mettere in luce, con la massima finezza possibile, il volto nascosto della concatenazione reciproca dei sentimenti e delle azioni, come pure l’infinita complessità delle relazioni umane alle prese con la sofferenza. È così che un testo di mezza pagina diventa un racconto di duecentoventi pagine rigogliose e raffinate che lui stesso definisce come la ‘parte più romanzesca’ dell’opera»[27].

 

3. La lotta con il padre

Alla prospettiva suppletiva appena menzionata, bisogna aggiungerne un’altra, più drammatica. La Bibbia è anche ciò con cui la letteratura occidentale si è misurata. È forse sorprendente, vista l’autorità, per così dire paterna, di cui sono investite le sacre Scritture? La storia della letteratura, spiega il critico letterario John Hollander, può essere concepita come una dialettica fatta di domande e risposte: «Un poema tratta un poema precedente come se ponesse una domanda e gli risponde, o lo interpreta, ne fa una glossa, lo corregge, in tutti i modi in cui un poema può dire: “In altre parole…”. In questo senso, tutta la storia della poesia può essere considerata come una catena di risposte ai primi testi — Omero e la Genesi —, risposte che sono diventate loro stesse delle domande per le generazioni successive, incaricate a loro volta di rispondere»[28]. Quanto a Harold Bloom, egli interpreta questa dialettica secondo una modalità genealogica: si è sempre figli di un «padre» letterario, discepoli di un maestro, di un precursore o di un profeta. Basti ricordare la frase di Victor Hugo — «Voglio essere Chateaubriand o niente» —, e aggiungere che il primo Rimbaud cercò di scrivere alla maniera di Hugo. In quanto genealogica, questa relazione ha anche a che fare con complesso di Edipo[29]. Bloom ama riferirsi a Freud (che cita lui stesso il Faust di Goethe): «Ciò che hai ereditato dai padri tuoi, sforzati di farlo tuo»[30]. Nella sua opera The Anxiety of Influence, Bloom mette in evidenza le figure (nel senso di figure retoriche) di questa genealogia letteraria[31]. Nella maggior parte dei casi esse assumono la forma degli antagonismi, dal momento che l’erede può cercare di correggere o completare il suo precursore, sopprimerne la memoria, appropriarsi del suo «Io», fare in modo che l’opera più caratteristica del padre sia scritta dal figlio, ecc.[32] Questi rapporti di filiazione letteraria sono tanto più drammatici quanto più l’autorità del padre è potente. La Bibbia, Shakespeare, Freud — ecco, secondo Bloom, «the most powerful texts», all’origine delle genealogie tormentate della modernità letteraria[33].

In questa lotta, è talvolta la Bibbia che esce zoppa, sciancata oppure mutilata. Così, le appropriazioni di Giobbe nella modernità, specialmente nel teatro dell’assurdo, in Ionesco, Beckett, de Obaldia, trascurano spesso l’epilogo del libro; non hanno niente a che fare con l’happy end del racconto. «La recriminazione dei personaggi di Beckett contro un Dio che non rialza ‘tutti coloro che cadono’», scrive Marc Bochet, «si collega a quella di Giobbe abbandonato sul suo letame; i reietti di Beckett sono consegnati al loro triste destino di sommersi senza che nessuna trascendenza possa soccorrerli: si ha un bel attendere Godot, non arriva [...] Anche i personaggi di Beckett, frustrati nella loro vana attesa di un salvatore, finiranno per maledire questo Dio sordo e muto, come fa Mr. Tyler in Tutti coloro che cadono: ‘Tyler è un Giobbe Job moderno’»[34]. «Non c’è epilogo» dice, dal canto suo, l’ultimo capitolo de La moglie di Giobbe di Andrée Chedid. La grandezza del Giobbe moderno è quella dell’uomo schiacciato che, una volta rialzato, mantiene «la verticalità della speranza »[35] e interpella il divino senza attendere da lui un qualunque ristabilimento.

La «violenza» fatta al testo scritturistico può andare più lontano. Nel suo studio Canon and Creativity — Modern Writing and the Authority of Scripture, Alter intitola il capitolo dedicato a Kafka «Torcere la Scrittura» («Wrenching Scripture»)[36]. Alter vi analizza le molteplici allusioni alla Genesi e all’Esodo che percorrono il primo dei tre romanzi di Kafka, America (1912, pubblicato nel 1927). Il modo in cui Kafka vi tratta la Scrittura, scrive Alter, è «al tempo stesso tradizionale e iconoclasta»[37]. Tradizionale nella tensione e nell’intensità spirituale con cui Kafka scruta il testo sacro — mettendo in atto la parola della Mishnah: «Girala [la Scrittura] e rigirala, perché in essa c’è tutto»[38] —, o ancora nell’ingegnosità midrashica con la quale arricchisce la Scrittura e la tesse narrativamente; iconoclasta nella propensione di Kafka «a imprimere al testo una rotazione di 180 gradi, ad estrarne valori e idee opposte a quelle che il testo biblico intende trasmettere, certamente contrarie in ogni caso a quelle del consenso interpretativo della tradizione. Se Kafka è un lettore midrashico della Scrittura, ciò che propone è molto spesso un midrash eretico»[39].

Se Kafka «torce» la Scrittura, che rimane per lui un testo sacro, Joyce, nel romanzo che ha segnato la modernità, Ulisse, compie a questo riguardo un passo in più[40]. Con un’erudizione e un’ironia vertiginose, Joyce coniuga la trama della Bibbia ebraica con quella dell’Odissea di Omero, al punto da allineare i due racconti fondatori in ciò che Alter definisce un «canone sinottico», ormai profano. «Joyce vede nella Bibbia e nell’Odissea i due grandi racconti dell’origine e i due grandi modelli, nella nostra tradizione, della traiettoria della vita dei mortali. Ai suoi occhi tutto deriva alla fin fine da questi due testi fondatori, e il loro primato nella rappresentazione e nella comprensione dell’esperienza umana viene preso in considerazione dalla prima pagina del romanzo — in cui un uomo che porta il nome del profeta Malachia si confronta con un uomo che porta il nome del mitico eroe greco Dedalo — fino all’ultima»[41]. L’eroe di Joyce, Leopold Bloom, è al tempo stesso greco ed ebreo; alter ego di Ulisse, in cerca dell’Itaca del suo amore, è anche, ma non senza ambiguità, una figura biblica, nuovo Mosè, nuovo Elia, precursore del messia, e nuovo messia lui stesso, per via della totale assenza di volontà di nuocere che lo contraddistingue all’interno di un mondo straziato. Nelle due opere fondatrici, Joyce ha trovato il paradigma, familiare da un lato, nazionale dall’altro, della nostra condizione di creature gettate nell’esilio dell’esistenza e animate dal desiderio di un ritorno all’unità dell’origine[42]. Ma Joyce fa svolgere questo ruolo di paradigma alla Bibbia spogliandola, attraverso la sua ironia, da ogni pretesa propriamente religiosa. «Joyce, parodiando la Bibbia in modo ripetuto e spesso prorompente, elimina tacitamente la sua pretesa a ogni autorità trascendente, affermando al contrario la sua canonicità meramente letteraria, simmetrica a quella dell’Odissea»[43].

Se la letteratura moderna giunge a amputare la Scrittura, a torcerla, o a «profanarla», le ha anche conferito una nuova risonanza, che il lettore credente sbaglierebbe a disconoscere. In diversi casi, infatti, e specialmente in quelli che sono stati menzionati, la letteratura associa il dato biblico alla propria inquietudine spirituale. «Senza la nobiltà delle scritture,» scrive Paul Beauchamp, «non ci sarebbero sacre Scritture, né un Libro ispirato se il libro, in sé, non avesse una destinazione così alta. Questo accostamento intimo, ‘famigliare’, non espone a nessun rischio di confusione tra la Bibbia e gli altri scritti: la Bibbia è fatta per essere decifrata e per risuonare all’interno di altre letterature; non bisogna temere che perda la sua specifica intonazione. Usciamo piuttosto dall’incoerenza che consiste nel prescindere, per il fatto che bisogna chiarire la Bibbia con gli antichi scritti del Vicino Oriente, dal contesto e dall’acustica non meno pertinenti che le vengono apportati, in tutt’altro modo ovviamente, dalla nostra letteratura»[44]. Se l’inquietudine di Joyce, quella di Kafka o quella del teatro dell’assurdo si scontrano con una certa comprensione della Scrittura, le conferiscono anche una inedita risonanza — che oggi è importante comprendere. Il credente può meditare senza fine sul fatto che questa inquietudine si esprima, ancora e sempre, facendo ricordo alla «lingua» della Bibbia. Ciò che si chiama la grazia ha una storia comune con l’ironia, e il trattamento spesso ironico che la letteratura moderna riserva al dato scritturistico non è privo di beneficio: l’ironia letteraria non ha uguali nel disinnescare le bombe che altri si ingegnano di collocare negli scritti sacri. Ma non bisogna fraintendere: presso la maggior parte di questi autori, poeti, romanzieri o drammaturghi, questa ironia deriva da un’inquietudine propriamente spirituale. Spetta al credente capire tale inquietudine e capirla fino in fondo. A lui anche il compito di capire questa inquietudine nella «lingua» in cui ha scelto di esprimersi — la «lingua» della Bibbia — e,  ironia per ironia, di trovare in questa Bibbia motivi per portare l’inquietudine moderna davanti a Dio.


 

[1] H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia ad oggi, trad. di Claude Beguin, Milano, Garzanti, 1992, p. 13.

[2] Bloom infatti illustra a questo punto la primitiva trama narrativa del Pentateuco, che egli chiama lo «Yahvista» o anche lo «scrittore J», con riferimento ad una teoria storico-critica oggi ampiamente contestata (cf. sullo stesso tema H. Bloom - D. Rosenberg, Il libro di J, trad. di Francesco Saba Sardi, Milano, Leonardo, 1992). Ciò non inficia la pertinenza della constatazione di Bloom secondo cui il Libro dei Giubilei è uno snaturamento del racconto biblico.

[3] Bloom, Rovinare, pp. 13-14.

[4] N. Frye, Il Grande Codice. La Bibbia e la letteratura, trad. di Giovanni Rizzoni, Torino, Einaudi, 1986.

[5] G. Steiner, Préface à la Bible hébraïque, trad. di P.– E. Dauzat, Bibliothèque Idées, Paris, Albin Michel, 2001, pp. 113-116.

[6] E. de Luca, Una nuvola come tappeto, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 9.

[7] R. Alter, L’arte della narrativa biblica, trad. di Enzo Gatti, coll. Biblioteca biblica, Brescia, Queriniana, 1990.

[8] In ordine al discorso speculativo, cf. P. Ricœur, «Le récit interprétatif. Exégèse et théologie dans les récits de la Passion», Recherches de Sciences Religieuses 73 (1985) 18-19. Un episodio della storia della chiesa ha qui il valore di una parabola. Nel 1607, il papa Paolo V pose fine alla cosiddetta controversia de auxiliis, tra i Gesuiti e i Domenicani, controversia che riguardava le reciproche relazioni tra la grazia e la libertà. Il papa vi pose fine con una sorta di non luogo a procedere, proibendo a ciascuna delle controparti di considerare l’altra come eretica. Sospendere in questo modo la disputa dei teologi, significava anche riconoscere i limiti del discorso teologico speculativo rispetto a ciò che pure costituisce la trama delle nostre storie: l’incontro tra la libertà di Dio e le nostre libertà individuali. Ciò che sfugge alla teologia speculativa è paradossalmente ciò che si può leggere, con piacere, abbondanza e precisione, nel racconto biblico, nel suo modo di rappresentare le azioni e le interazioni divine e umane.

[9] Alter, Arte, p. 32.

[10] E. Auerbach, Mimésis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern, A. Francke, 1946: Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. di A. Romagnoli e H. Hinterhäuser, Torino, Einaudi, 1956 (con un saggio introduttivo di Aurelio Roncaglia).

[11] Auerbach è fedele in ciò alla raccomandazione di Chateaubriand: «Si è tanto scritto sulla Bibbia, la si è tanto commentata, che forse il solo modo che ci resta per farne percepire la bellezza è di accostarla ai poemi di Omero» (Il genio del cristianesimo, seconda parte, libro V, cap. III).

[12] Auerbach, Mimesis, p. 13.

[13] Cf. in proposito il mio studio «Y a-t-il un narrateur dans la Bible? La Genèse et le modèle narratif de la Bible hébraïque», in Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, coll. Le livre et le rouleau 6, Bruxelles, Lessius, 1999, pp. 9-27.

[14] Alter, Arte, p. 154-155.

[15] Alter, Arte,  p. 141.

[16] Cf. M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative, Bloomington, Indiana University Press, 1985, pp. 190-222.

[17] Alter, Arte, p. 155.

[18] Alter, Arte, p.  23.

[19] Tanhuma, Bereshit, 1.

[20] David Banon, La lecture infinie. Les voies de l’interprétation midrachique, Paris, Seuil, 1987, p. 177.

[21] Cf. la rassegna raccolta in Caïn et Abel. Genèse 4, Cahiers Évangile Supplément 105 (1998).

[22] La parentela tra i due approcci è tale che R. Alter non esita a caratterizzare le riscritture propriamente letterarie come altrettante «allusioni midrashiche» (cf. The Pleasures of Reading in an Ideological Age, New York, Simon and Schuster, 1989, pp. 132-133); cf. anche a questo proposito la raccolta di studi pubblicata da G. H. Hartman e S. Budick, Midrash and Literature, New Haven, Yale University Press,  1986.

[23] A. Chedid, La femme de Job, Paris, Calmann-Lévy, 1993, pp. 27-28.

[24] J. Chessex, Jonas, Paris, Grasset, 1987, p. 25.

[25] A. Wénin, «Joseph et la femme de Putiphar. De la Genèse à la réécriture de Thomas Mann», in Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, coll. Le livre et le rouleau 6, Bruxelles, Lessius, 1999, pp. 123-167.

[26] Wénin, «Joseph»,  p. 285.

[27] Wénin, « Joseph », pp. 132-133.

[28] J. Hollander, Melodious Guile. Fictive Pattern in Poetic Language, New Haven and London, Yale University Press, 1988, p. 56 (traduzione mia).

[29] All’inizio del suo studio Canon and Creativity. Modern Writing and the Authority of Scripture, New Haven, Yale University Press, 2000, p. 3, R. Alter saluta l’impresa di Bloom prendendo le distanze proprio su questo punto. Il rapporto che R. Alter preferisce indicare con il termine «allusione midrashica» non è però esente da un rapporto conflittuale, cf. Pleasures, pp. 133-134.

[30] Bloom, Rovinare, p. 17.

[31] H. Bloom, The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry, Oxford, Oxford University Press, 1973.

[32] Cf. anche gli studi raccolti in H. Bloom, Agon. Towards a Theory of Revisionism, Oxford, Oxford University Press, 1982.

[33] H. Bloom,  Poetics of Influence, New Haven, Schwab, 1988, p. 423.

[34] M. Bochet, Job après Job. Destinée littéraire d’une figure biblique, coll. Le livre et le rouleau 9, Bruxelles, Lessius, 2000,  p. 15.

[35] Bochet, Job, p. 129.

[36] R. Alter, Canon and Creativity. Modern Writing and the Authority of Scripture, New Haven, Yale University Press, pp. 63-96.

[37] Alter, Canon, p. 66 (traduzione mia).

[38] R. Ben Bagbag, Pirqe Avot, 5, 22.

[39] Alter, Canon, p. 66. Aggiungiamo con Alter: una rotazione a 180 gradi, è proprio ciò che Kafka impone all’episodio della torre di Babele che diventa, in America, la galleria del pozzo (di miniera) di Babele!

[40] Mi rifaccio per ciò che segue al capitolo che R. Alter dedica a Joyce — «James Joyce: The Synoptic Canon» —  alla fine dello studio già citato, Canon, pp. 151-183.

[41] Alter, Canon, p. 158 (traduzione mia).

[42] Così in questa scena in cui Stephen riconosce una levatrice che cammina sulla spiaggia, cosa che lo porta (nel flusso di coscienza associativo tipo della scrittura joyciana) a rivisitare la propria nascita e le origini dell’umanità:  «Una sua consorella mi trasse urlante in vita. Creazione dal nulla. Che cos’ha nella borsa ? Un aborto con un cordone ombelicale strasciconi, soffocato in ovatta rossastra. I cordoni di tutti son legati l’uno all’altro nel passato, cavo intrecciato d’ogni carne (…) Volete essere simili a dèi? Contemplatevi l’onfalo. Pronto. Parla Kinch. Mi dia Edenville. Alef, alfa : zero, zero, uno» (J. Joyce, Ulysse, trad. di Giulio De Angelis, Milano, Mondadori, 1960, p. 52).

[43] Alter, Canon, p. 172 (traduzione mia).

[44] P. Beauchamp, L’un et l’autre Testament. 2. Accomplir les Écritures, coll. Parole de Dieu, Paris, Seuil, 1990,  pp. 97-98.

 

versione solo testo