C'è un narratore nella Bibbia?

La Genesi e il modello narrativo della Bibbia ebraica

di Jean-Pierre Sonnet

 

© Y a-t-il un narrateur dans la Bible. La Genèse et le modèle narratif de la Bible hébraïque, In: Françoise Mies (éd.), Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, Ed. Lessius, Namur 1999, pp. 9-27.

(per gentile concessione dell'autore)

(traduzione dal francese di Luciano Zappella)

Come scrive Pascal Quignard, i libri «mantengono» il silenzio [P. Quignard, Petites traités I, Paris, Gallimard 1990, p. 103]. I libri non parlano, si leggono. Il paradosso della letteratura narrativa è che ci fa sentire delle voci. Ogni volta che incontriamo (almeno nelle nostre convenzioni tipografiche) il segno dei due punti e delle virgolette, il racconto fa di noi dei «recettori» di voci. «Dio disse: “Sia la luce!”» (Gen 1,3). Con l’immaginazione, convertiamo in discorso enunciato le parole che leggiamo. Imitando il discorso con il discorso [«All reported discourse is a mimesis of discourse by discourse», M. Sternberg, «How Indirect Discourse Means: Syntax, Semantic, Poetics, Pragmatics», in: R. Sell (ed.) Literacy pragmatics, London, Routledge 1991, p. 63], il racconto ci fa immaginare delle voci, le voci che mette in scena. E il racconto biblico, che si apre con la messa in scena di un Dio che parla, sembra puntare più di ogni altro sulla rappresentazione del discorso [cfr. in proposito R. Alter, «Tra narrazione e dialogo», in: Id., L’arte della narrativa biblica, Brescia, Queriniana, 1990]. È rappresentando gli atti di parola degli uni e degli altri – più spesso in discorso diretto – che il racconto presenta la storia [cfr. in proposito M. Sternberg, «Proteus in quotations-Land: Mimesis and Reported Discourse», in Poetics Today 3, 1982, 123-124; S.A. Meier, Speaking of speaking: Marking Directed Discourse in the Hebrew Bible, Leiden, Brill (coll. Supplements to Vetus Testamentum, 46), 1992]. Il fenomeno della «voce», fenomeno decisivo nella poetica narrativa ebraica, sarà l’oggetto di indagine di queste pagine. Considererò tuttavia questo fenomeno non al libello dei personaggi messi in scena, ma a livello della narrazione stessa. Bisogna immaginare una voce che proferisce il racconto della Bibbia conferendogli la determinazione e l’intenzionalità di una narrazione, nel senso attivo del termine? Un master of tale guida il racconto, un pilota o un navigatore ne mantiene la rotta, conducendo lettore in un porto? In altri termini: c’è un narratore nella Bibbia?

Si sarà capito: qui non si sta parlando dell’autore. Che dietro il racconto biblico ci siano uno o più autori, degli «autori empirici» come direbbe Umberto Eco, non fa nessun problema (anche quando la determinazione dell’identità di questi autori rimane affidata alle nostre ipotesi). Il fenomeno che mi interessa è piuttosto il seguente: la narrazione biblica, in quanto narrazione, ha la pretesa di derivare da questi autori empirici oppure si reclama ad un’altra istanza «emettrice»? Prendendo le cose dall’altro capo: se gli autori hanno scritto, sono loro stessi a raccontare oppure fanno raccontare qualcun altro che non sia loro?

In un prima tappa, sosterrò che esiste un vero e proprio narratore, anonimo e onnisciente, alla base della narrazione biblica. A questo narratore, gli autori empirici, celandosi nell’anonimato delle scritture e delle riscritture, hanno come delegato il compito, e affidato il privilegio, di portare avanti la narrazione. Così facendo, gli autori, redattori e editori del corpus biblico hanno messo in campo un elemento essenziale della coerenza narrativa della Bibbia e, al tempo stesso, un elemento essenziale della sua coerenza teologica. La pertinenza teologica di questo racconto è infatti debitrice del tipo di autorità di cui è investito il narratore biblico e della relazione che quest’ultimo intrattiene con il mondo del racconto, nel suo personaggio divino come nei suoi personaggi umani. In una seconda tappa, confronterò il modello biblico con quello che promuove la modernità. Al di là delle differenze essenziali, il modello narrativo della Bibbia rivelerà degli aspetti di una modernità sorprendente. Infine, in una terza tappa, farò vedere come un personaggio del racconto della Genesi mette alla prova il modello che questo libro mette in campo. All’inizio del grande racconto biblico, il libro della Genesi esige per il suo progetto un certo modello, il modello della narrazione onnisciente; questo stesso libro termina con l’entrata in scena di un personaggio – Giuseppe – la cui «scienza» apparentemente può compromettere la coerenza del modello in questione. Nel suo sapere da ermeneuta e nel suo saper far da regista, Giuseppe non prende forse il posto del narratore, se non di Dio stesso? La presenza della figura di Giuseppe nel cuore del racconto tradisce un’imprudenza, cioè una incoerenza, da parte degli autori oppure conferma, come un’ultima controprova, l'affidabilità del modello della Bibbia?

 

 

I. IN PRINCIPIO: LA VOCE DEL NARRATORE

 

È una sorpresa? Il racconto biblico pone il problema del narratore fin dalle sue prime parole: «Nel principio Dio creò i cieli e la terra» (Gen 1,1). Da quale fonte può provenire una simile affermazione? Quale osservatore umano, quale autore empirico potrebbe divulgare ciò che ha preceduto la creazione dell’uomo (e quindi di ogni possibile testimonianza)? Chi era lì a registrare la prima parola divina: «Sia luce!» (Gen 1,3) [questa domanda posta dal racconto trova un’eco piena di ironia nella domanda di Dio a Giobbe: «Cingiti i fianchi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!  Dov'eri tu quando io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza.  Chi ne fissò le dimensioni, se lo sai, o chi tirò sopra di essa la corda da misurare? » (Gb 38,3-5)]. La voce che racconta l’opera della creazione in Gen 1 si pone fin da subito come voce che trascende la scienza umana. Essa rende il lettore testimone di ciò a cui nessun uomo ha assistito. Tale voce narratrice gode inoltre del privilegio di entrare nell’interiorità divina: « Dio vide che ciò era buono» (Gen 1, passim). La prerogativa del narratore di rivelare al lettore i sentimenti di Dio e i suoi disegni segreti si manifesta in molti modi nelle prime pagine della Genesi. Così, all’inizio del racconto del diluvio: «Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E il Signore disse [= si disse o pensò]: “Io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato: dall’uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti”.» (Gen 6,6-7). O ancora, alla fine dell’episodio: «Il Signore disse in cuor suo: “Io non maledirò più la terra a motivo dell’uomo…”» (Gen 8,21). Dandoci accesso a ciò che sfugge ad ogni percezione, ad ogni «scienza» umana, il racconto mette in campo un narratore che la critica letteraria definisce onnisciente [cfr. M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative, Bloomington, Indiana University Press, 1985, pp. 12-13, 32-35, 58-128]. Anonimo e senza volto, senza mai mettersi in scena, senza apparire mai con un «io», questo narratore regge con la sua autorità il racconto nel quale il lettore procede.

Il modello della narrazione onnisciente rappresenta la forma standard della narrazione biblica; lo si ritrova nel blocco che va dal libro della Genesi al libro dei Re e in opere come il libro di Giobbe, di Giona e di Ester. Nel racconto storiografico della Bibbia ebraica, il libro di Nehemia rappresenta un’eccezione, dal momento che il narratore vi si esprime in prima persona: «Nel mese di Chisleu del ventesimo anno, mentre mi trovavo nel castello di Susa…» (Nem 1,1; cfr. anche Esd. 7,27-9.15). In un altro registro, quello delle confessioni sapienziali, anche il libro di Qohelet mostra quest’altra convenzione narrativa: «Io, Qohelet, sono stato re d'Israele a Gerusalemme» (Qo 1,12). Tra i deuterocanonici, il libro di Tobia mostra il passaggio da una narrazione in «io» (Tob 1,3-3,6) a quella di un narratore anonimo e onnisciente (Tob 3,7-14,15). Mentre i racconti evangelici di Matteo e Marco prolungano il modello classico della Bibbia ebraica, i racconti di Luca e di Giovanni applicano un modello diverso. L’«io» del narratore appare esplicitamente in Lc 1,3 e in At 1,1, e gli appelli al destinatario della narrazione in Gv 19,35 e 20,30-31 implicano un narratore personale, che il colophon finale presenta come il discepolo prediletto (Gv 21,24-25). In entrambi i casi, si tratta di «testimonianze»; ma mentre il narratore giovanneo si presenta come testimone diretto (Gv 19,325: «colui che lo ha visto, ne ha reso testimonianza»), il racconto di Luca si presenta come una testimonianza di seconda mano (Lc 1,2-3). Ciò detto, la narrazione propriamente detta è condotta da un parte e dall’altra in terza persona e come una narrazione onnisciente. Il narratore lucano conduce anche il lettore, senza menzionare le sue fonti, all’interno dello scambio tra Maria e l’angelo (Lc 1,26-38) e, ancor più, fa sentire la preghiera di Gesù sul monte degli ulivi, preghiera che non ebbe testimoni (dal momento che i discepoli erano addormentati, cfr. Lc 22,45). Analogamente, il narratore giovanneo riproduce il dialogo privato tra Gesù e Pilato (Gv 18,33-38) e fa accedere all’interiorità di Gesù (cfr. Gv 11,33; 13,21). La testimonianza evangelica appare quindi come sui generis, dal momento che pone il testimone al centro dell’evento Gesù.

L’onniscienza del narratore biblico, di questa voce off che racconta in terza persona, si coglie anche al di fuori della sua relazione con il personaggio di Dio. Se il narratore ha accesso all’interiorità divina, come potrebbe non avere accesso anche a quella dei personaggi umani? Conosce infatti persino i pensieri più segreti dei protagonisti dell’azione: «Abraamo… disse in cuor suo: “Nascerà un figlio a un uomo di cent'anni?”» (Gen 17,17); «Esaù… disse in cuor suo: “I giorni del lutto di mio padre si avvicinano, allora ucciderò mio fratello Giacobbe”» (Gen 27,41). In Gen 18, al momento dell’apparizione divina alle querce di Mamre, il narratore descrive al lettore quella che si nasconde, Sara, e gli comunica ciò che ella dice a se stessa, ridendo «dentro di sé» (Gen 18,12). Di fatto, tra la sfera pubblica e la sfera privata, nello spazio come nel tempo, questo narratore dà prova di una estrema mobilità. Ci può narrare ciò che avviene contemporaneamente in due luoghi. Così, la storia di Giuseppe in Egitto (Gen 37-50) è interrotta da quella di Giuda e Tamar in Gen 38, che si svolge nello stesso momento ma in terra di Cannan. Analoga mobilità si osserva sul piano temporale: il narratore può operare dei flashback, passi che noi rendiamo con il trapassato prossimo: «Infatti, il Signore aveva reso sterile l'intera casa di Abimelec, a causa di Sara, moglie di Abraamo» (Gen 20,18). Lo stesso narratore può anche anticipare ciò che nella storia verrà dopo. Così in Gen 22,1: «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abraamo». Dio non ha ancora detto e fatto nulla e già il narratore previene il suo lettore: ciò che segue sarà, né piè né meno, una messa alla prova.

L’onniscienza del narratore è ciò che lo allinea all’onniscienza del personaggio di Dio. Come Dio si china e capisce lo stato morale dell’universo con un solo sguardo – «Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta» (Gen 6,12a) –, il narratore può aggiungere nella stessa frase: «poiché tutti erano diventati corrotti sulla terra» (Gen 6,12b). Come Dio «vede il cuore» (1Sam 16,7), il narratore conosce il «tutto» di un personaggio nella sua qualità morale. Così nel ritratto iniziale di Noè: «Noè fu uomo giusto, integro, ai suoi tempi» (Gen 6,9). Il narratore quindi conosce le cose e gli esseri come li consce Dio. Comunica al lettore, quando serve, l’apprezzamento morale da parte di Dio della condotta umana: «Il Signore guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta» (Gen 4,4-5); «Ciò che egli [Onan] faceva dispiacque al Signore» (Gen 38,10). Pur senza essere Dio (che è uno dei personaggi della storia), il narratore partecipa della scienza di Dio il quale, per primo, è onnisciente. D’altro canto, ed è un punto importante sul quale ritorneremo, egli è lungi dall’esibire in ogni caso questa onniscienza. È invece con un estremo riserbo che ne fa partecipi. Fa sapere al lettore soltanto ciò che è necessario al suo atto di lettura, né più né meno, quando serve e quel tanto che serve.

Il narratore, si badi, non è affatto un’istanza terza che sovrasta Dio e il mondo degli uomini. Egli reca in sé un limite essenziale in cui si dice il suo status di narratore. Se racconta la storia con la libertà di un artista che crea delle prospettive, che ordina la presentazione delle cose, che imprime loro ritmo nei momenti della narrazione, non è però in grado di far avvenire qualsiasi cosa sulla scena della storia. Il personaggio di Dio è al tempo stesso omniscens e omnipotens (anche se tale onnipotenza prende delle strade che sconcertano sempre). Dio crea il mondo e modifica il corso della storia. Fa piovere per quaranta giorni e quaranta notti sulla terra (Gen 7,4), una pioggia di zolfo e fuoco su Sodomia e Gomorra (Gen 19,24); chiude o apre il grembo delle donne, rendendole sterili o feconde (Gen 20,18; 29,31; 30,22). La Genesi, certamente, introduce progressivamente il lettore ad una causalità divina nella storia sempre più discreta e indiretta (ma anche sempre efficace). Se Dio, nei primi capitoli del libro, può fare irruzione sulla scena, interrogare Adamo sul far della sera (Gen 3,8-9) e Caino dopo il suo gesto fratricida (Gen 4,9) o ancora chiudere le porte dell’arca dietro Noè (Gen 6,16), questo stesso Dio, nella storia di Giuseppe, interviene soltanto con le modalità dell’assistenza e della benedizione: «Il Signore era con Giuseppe: a lui riusciva bene ogni cosa» (Gen 39,2; cfr. 39,21-23); «Il Signore benedisse la casa dell'Egiziano per amore di Giuseppe; la benedizione del Signore si posò su tutto ciò che egli possedeva, in casa e in campagna» (Gen 39,5). Resta il fatto che, di fronte alla potenza del padrone divino della storia, l’«impotenza» del narratore è manifesta. Narrando una storia a posteriori in cui non può cambiare niente, il narratore, d’ufficio, non può che narrare.

Un’ultima caratteristica del narratore biblico deve essere esplicitata: anonimo e onnisciente, questo narratore si presenta anche come assolutamente affidabile. Ad alcuni narratori piace ingannare il lettore («Ciò che è appena stato raccontato è solo un sogno»); altri attribuiscono al loro intervento un coefficiente di relatività («Questa è solo una delle versioni delle cose»; «Ricostruzione approssimativa di…»; «In tema di creazione, i Sumeri o gli Egizi racconteranno un’altra storia»). O ancora, per citare un esempio famoso, il narratore del romanzo di W. Faulkner Il rumore e il furore è solo un sempliciotto la cui modalità di narrazione riecheggia la definizione di vita che si legge nel Macbeth: «È una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa niente» (Atto V, sc. 5). Il narratore biblico, invece, si pone nei confronti del proprio racconto come un’istanza degna di una fiducia assoluta – dal momento che egli è in sintonia con la scienza divina [cfr., su questo punto, gli sviluppi di Auerbach, in un confronto tra il progetto narrativo dell’Odissea e quello della Genesi, «La cicatrice di Ulisse», in Mimesis. La rappresentazione realistica nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino]. Quando parla, dice il vero (nell’economia della storia narrata), proprio come fa Dio nei suoi interventi verbali. Non capita così a parecchi personaggi umani sulla scena della storia (anche i profeti e Mosè hanno le loro debolezze in fatto di affidabilità). Gli interventi di Dio e del narratore forniscono così il metro di misura sul quale possono essere misurate tutte le altre versioni dei fatti. Quando Sara si lamenta di Agar con Abramo («da quando si è accorta d'essere incinta, mi guarda con disprezzo»: Gen 16,5), il lettore potrebbe chiedersi se non stia escogitando un pretesto per allontanare una rivale più seducente del previsto. Ma il testo, proprio poco prima, si preoccupa di presentare questi stessi propositi enunciati in terza persona dal narratore stesso: «quando si accorse di essere incinta, guardò la sua padrona con disprezzo» (Gen. 16,4). Probabilmente Sara è dura, ma si basa sulla verità.

Messo di fronte fin dai primi versetti della Genesi alla pretesa straordinaria della voce narrante, il lettore è sollecitato ad acconsentire (o a rifiutarsi di acconsentire) all’autorità di questa voce. La lettura in sequenza dei due racconti della creazione in Gen 1-2,4 e 2,4-3,24 appare, a questo riguardo, la prova decisiva. Il lettore (qualunque cosa sappia sull’origine distinta di questi testi), pronto a accogliere questi due sviluppi come provenienti da stessa voce narrativa, disposto a intendere il racconto di Gen 2-3 come (per esempio) un flashback drammatico sulla creazione dell’«umano» evocata nel poema di Gen 1, questo lettore potrà fidarsi delle affermazioni del narratore nel prosequio del racconto. Fin dai primi versetti della Genesi, una scelta pro o contro il narratore condiziona dunque l’intelleggibilità della poetica teologica complessiva del macroracconto.

 

 

II. IN MEDIAS RES: IL PUNTO DI VISTA DEL PERSONAGGIO

 

Nell’accondiscendenza all’autorità del narratore biblico c’è di che indispettire la coscienza moderna. Usato dalla letteratura antica e classica (fino a Stendhal, Balzac e Zola), il modello della narrazione onnisciente si è trovato come rifiutato dalla narrazione moderna. Quest’ultima è contrassegnata da una svolta che si potrebbe definire al tempo stesso kantiana e fenomenologia, inaugurata da Gustave Flaubert e radicalizzata da Henry James, Marcel Proust, James Joyce e Virginia Woolf. Alla narrazione onnisciente, questo progetto letterario preferisce la «narrazione limitata», i cui limiti sono quelli della soggettività umana. Il punto di vista – limitato – del o dei personaggi messi in scena diventa il filtro obbligato di ogni accesso al mondo. Questa sistematizzazione del punto di vista del personaggio si verifica non solo nel caso della narrazione in «io», in cui si adotta necessariamente il punto di vista limitato della voce narrante («Dopo la sua malattia, penso a mamma come a una bambina», H. Bauchau, Lo strappo, incipit), ma anche nel caso della narrazione in terza persona. Questa modalità narrativa, in modo nuovo, adotta anche la prospettiva di uno o più personaggi. È la tecnica del personaggio «riflettore», usato in particolare da Henry James: un personaggio viene scelto come centro di percezione e funziona come il «riflettore» o la «testa registrante» della narrazione. Il romanzo di James Gli ambasciatori (1903) si apre con la frase caratteristica: «La prima preoccupazione di Strether, arrivando all’hotel, fu di informarsi del suo amico». Legandosi alla percezione limitata dell’uno o dell’altro personaggio, il narratore percepisce ormai ciò che il personaggio percepisce e sa ciò che egli sa, né più né meno. Esce di scena quindi il narratore onnisciente, la sua pretesa di verità, a vantaggio di un narratore che, come scrive Erich Auerbach in Mimesis, «dubita, interroga e cerca, come se non conoscesse la verità dei suoi personaggi meglio dei suoi stessi personaggi o meglio del lettore». La finzione narrativa riconduce allora, attraverso mille percorsi, al timore della vita come «un alone luminoso, un involucro semitrasparente in cui siamo rinchiusi dalla nascita della nostra coscienza fino alla morte» (V. Woolf).

Senza lasciare la Genesi, si può illustrare questa svolta del progetto narrativo con una pagina del capolavoro di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943). Riscrivendo la storia di Giuseppe (Gen 37-50), Mann inserisce nella sua vasta saga una parte del ciclo di Abramo: la sua conversione al Dio unico. Nella versione biblica, in Gen 12, tale esperienza deriva da una rivelazione perlomeno improvvisa: «Il Signore disse ad Abramo: “Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò […]”; Abramo partì, come il Signore gli aveva detto» (Gen 12,1-4).

Stando al narratore della Genesi, Dio fa irruzione nella vita di Abramo nella frontalità di un invito e tramite la perentorietà di un imperativo. L’esperienza iniziale è quindi quella dell’esteriorità, radicale, di una parola. Il lettore viene collocato, a posteriori, in prima fila. Egli legge le stesse parole che Abramo ha sentito; le legge senza poter dubitare della loro origine: sono le parole di Adonai, e viene assicurato sul fatto che Abramo ha capito queste parole al punto di adeguarsi: « Abramo partì, come il Signore gli aveva detto».

Nel racconto di Thomas Mann, l’esperienza iniziale di Abramo prende un’altra direzione, esistenziale e letteraria. Tale esperienza, riportata sottoforma di un racconto nel racconto, viene riferita al giovane Giuseppe dal vecchio Eliezer (personaggio della finzione di Mann):

 

Si diceva di Eliezer che assomigliasse ad Abramo. In effetti, non se ne sapeva niente, dal momento che nessuno aveva visto il Caldeo e i secoli non ne avevano trasmesso nessuna immagine, nessuno termine di paragone che si riferisse a lui. Riferendo questa somiglianza, fu necessario invece invertire le proporzioni, perché p probabile che fossero i tratti di Eliezer ad aiutare le persone a rappresentarsi l’immigrato di Ur, l’amico di Dio. (Giuseppe e i suo fratelli. II. Il giovane Giuseppe)

 

Dell’antenato somigliante, quindi di Abramo, Eliezer racconta al giovane Giuseppe, che «se ne compiaceva», «molte cose, piuttosto diverse»; «talvolta Caldeo era l’uomo che aveva scoperto Dio». E sarà attraverso l’ascolto di Giuseppe che il lettore viene a sapere di questa favolosa scoperta:

 

Proprio all’inizio, ad Abramo venne un’idea; si disse che solo la Madre Terra meritasse di essere adorata e servita, lei che porta i frutti fecondi della vita. Ma si accorse che la terra aveva bisogno della pioggia del cielo. Posando il suo sguardo sul firmamento, vide il sole nella sua magnificenza, forza dispensatrice di benedizioni e di mali, e rischiò di decidersi in suo favore; ma il sole tramontò […]. È così che Abramo aveva scoperto Dio nel suo slancio verso la potenza suprema […]. Abramo aveva raccolto le diverse potenze in un solo fascio e lo aveva chiamato Dio (Ibid.)

 

Nella versione che ne dà Thomas Mann, l’esperienza iniziale del Dio unico è quindi tutta riflessa nella coscienza di Abramo; ancora prima è riflessa nel racconto che ne fa Eliezer (e si tratta di un racconto che corrisponde a uno del suoi modi di parlare), racconto sorpreso nell’ascolto che ne fa il giovane Giuseppe. Ecco usato il credo, e il genio, della narrazione moderna: la sua arte di moltiplicare i punti di vista, tutti limitati, come altrettanti accessi all’enigma del reale.

Per quanto sia legato a un modello classico di narrazione, il racconto biblico mostra una modernità sorprendente in alcuni suoi aspetti. Capace di un punto di vista assoluto sulle cose – quello del giudizio di Dio –, il narratore eccelle nella capacità di rendere la contingenza umana e i limiti del sapere umano. Il narratore biblico, scrive il critico letterario Robert Alter ne L’arte della narrativa biblica, «mostra la sua onniscienza con una drastica selettività». Se dà al suo lettore dei punti di riferimento, delimitando di tanto in tanto il percorso di lettura, fa in modo che il lettore, come i personaggi sulla scena, sia messo di fronte all’ambiguità dei fenomeni, all’enigma del reale e alle modalità di Dio. È così in Gen 22, nel racconto del cosiddetto sacrificio di Isacco. L’episodio si apre con una notizia che appartiene all’onniscienza del narratore e che conferisce al lettore un giro di vantaggio sul personaggio di Abramo: «Dopo questi fatti, Dio mise alla prova Abramo» (Gen 22,1). Il lettore sa ciò che il patriarca ancora non sa, e cioè che quanto segue non è nient’altro che un test, una prova. Ma per il resto, il lettore ne sa tanto quanto Abramo e viene rimandato come il padre di Isacco a ciò che ha di ambiguo l’ordine dato da Dio. Come i personaggi sulla scena alle prese con l’enigma della volontà divina, il lettore viene spinto a operare delle supposizioni sulla base di dati frammentari, a formulare delle ipotesi che deve continuamente aggiornare. Leggere il racconto biblico è quindi anche essere esposti ai limiti del sapere umano, essere ricondotti ai limiti del punto di vista di ciascuno.

La Bibbia ebraica fa un uso notevole della tecnica del punto di vista. In certi punti del racconto, il narratore adotta il punto di vista (limitato) del personaggio, facendo percepire ciò che percepisce, capire ciò che capisce. Di fatto, il lettore si trova associato ai tentennamenti, agli interrogativi, al dramma soggettivo della dramatis personae. La particella ebraica wehinnēh, «ed ecco», spesso usato dopo i verbi di percezione, indica generalmente un cambiamento di focalizzazione che introduce il lettore nella percezione del personaggio. È ciò che capita nell’episodio della visita divina alle querce di Mamre (Gen 18). Fin dall’inizio del racconto il lettore beneficia di un sapere che il personaggio non possiede (ancora): conosce l’identità del visitatore («Il Signore apparve ad Abraamo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della sua tenda nell'ora più calda del giorno» (Gen 18,1). Nel versetto seguente, il narratore fa vivere al suo lettore un significativo cambiamento di prospettiva, dal momento che gli fa vedere in diretta cosa vede Abramo: «Abraamo alzò gli occhi e ecco (wehinnēh) vide che tre uomini stavano davanti a lui» (Gen 18,2). In un bel gioco di ironia drammatica, il lettore assiste al viavai di una visita divina in incognito. Il cambiamento del punto di vista vi verifica specialmente nei momenti più drammatici della storia narrata. Quando Giacobbe si decide a tornare nel suo paese dopo gli anni trascorsi a Aram, sa perfettamente che dovrà affrontare Esaù, il fratello gemello che ha giurato la sua morte (Gen 27,41). La narrazione adotta la percezione visiva di Giacobbe nel momento in cui incontra colui che più teme di incontrare: «Giacobbe alzò gli occhi, guardò, ed ecco (wehinnēh) Esaù che veniva avendo con sé quattrocento uomini» (Gen 33,1). La tecnica del punto di vista, dagli sviluppi così decisivi nella letterature moderna, è quindi parte integrante dell’arte del narratore biblico.

In grado di vedere la storia a partire da Dio, nel suo disegno provvidenziale, il narratore è molto abile anche nel rendere la contingenza della storia umana nel gioco delle circostanze, e specialmente delle circostanze negative, e nell’interazione positiva o negativa, e specialmente negativa, delle libertà individuali. La trama è regolarmente complicata da «imprevisti» in cui spicca l’umano, molto umano. «Scoppiò una lite fra i pastori del bestiame d'Abramo e i pastori del bestiame di Lot» (Gen 13,7); «Quando la gente del luogo gli faceva delle domande intorno a sua moglie, egli rispondeva: “È mia sorella”, perché aveva paura di dire: “È mia moglie”. “Non vorrei”, egli pensava, “che la gente del luogo mi uccida, a causa di Rebecca”. Infatti lei era di bell'aspetto» (Gen 26,7); «Esaù odiava Giacobbe, a causa della benedizione datagli da suo padre» (Gen 27,41). In questo modo di combinare onniscienza divina e rappresentazione della contingenza e della finitudine umane si manifesta la vetta teologica della poetica narrativa biblica. Commentando l’opera di Robert Alter, L’arte della narrativa biblica, Paul Ricoeur scrive: «Ciò che ha colpito Alter, nelle parti più drammatiche di questi racconti, è il fatto che il testo mira a comunicare la convinzione che il progetto divino, sebbene ineluttabile, si realizza soltanto per il tramite di ciò che si definisce l’ostinazione umana […]. Considerando il problema dall’altro versante, si potrebbe dire che una teologia che pone di fronte l’inevitabilità del progetto divino all’ostinazione delle azioni e delle passioni umane è una teologia che genera il narrativo, o meglio, una teologia che designa la modalità narrativa come la sua principale modalità ermeneutica» (Paul Ricoeur, «Le récit interprétatif. Exégèse et théologie dans les récits de la Passion», in Recherches de science religieuse, 73, 1985, pp. 18-19). È quindi tipico di questo racconto giustapporre in una sola trama due livelli che speculativamente non sono giustapponibili (se non a prezzo di distorsioni dialettiche): il livello del progetto divino, necessariamente a priori, e la contingenza delle libertà umane. Si capisce fino a che punto il modello della narrazione onnisciente sia appropriata allo scopo. Nel racconto biblico, il lettore, da una parte, è informato del progetto divino sulla creazione e sulla storia (nei commenti del narratore come pure nelle parole, divine e profetiche, che riproduce) e, dall’altra, è posto di fronte alle contingenze della storia umana nel gioco delle circostanze, dei tempi e dei luoghi, e nella interazione delle libertà. Così, in Gen 12, la rivelazione della promessa di Dio ad Abramo – «io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra»» (Gen 12,2-3) – è seguito dal più contingente degli sviluppi: «Venne una carestia nel paese e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi, perché la fame era grande nel paese» (Gen 12,10). Il lettore lo ha appreso da fonte divina: le nazioni sono chiamate a benedirsi in Abramo e nella sua discendenza. Ed ecco che Abramo, per un inghippo della storia, mette in pericolo il progetto divino, permettendo che il Faraone, principe delle nazioni, sequestri quella da cui verrà la discendenza (Gen 12,10-20). Come farà Dio a rispettare la sua promessa legandosi a simili persone, amici o nemici, vicini o stranieri, che spiccano nel mettere in scacco il suo progetto? È questo l’enigma degli enigmi che sostiene l’insieme della narrazione. Alla fine del libro della Genesi, Giuseppe, rivolgendosi ai suoi fratelli, risolverà l’enigma nel modo più felice: «Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso» (Gen 50,20).

 

 

III. IN FINE: LA «SCIENZA» DI GIUSEPPE

 

La scienza di Giuseppe non minaccia forse il bell’edificio narrativo e teologico che si è appena presentato? Tanto è facile far evolvere nel modello narrativo della Bibbia un Abramo di fronte alla figura enigmatica dei tre visitatori, un Isacco che non ci vede bene e benedice Giacobbe credendo di benedire Esaù, un Giacobbe alle prese con lo sconosciuto del guardo dello Yabboq, tanto è facile rappresentarvi le figure della perplessità umana, altrettanto pericoloso è piazzarvi una figura che ha a che fare con l’onniscienza come quella di Giuseppe. Giuseppe abbandonerebbe la sfera dei personaggi umani e del lettore per oscillare nella sfera dell’onniscienza del narratore e di Dio stesso?

Il dono della chiaroveggenza di Giuseppe è impressionante. Giuseppe è posto subito come l’uomo delle visioni, «il sognatore», come ironizzeranno i suoi fratelli (Gen 37,19). Giuseppe beneficia di sogni, ma beneficia anche dell’arte di interpretare, in modo infallibile, i sogni degli altri: i sogni benefici e malefici del capo dei coppieri, del capo dei panettieri (cfr. Gen 40,12.18.22; 41,12) e del Faraone stesso, che affronta Giuseppe con queste parole: «Ho fatto un sogno e non c'è chi lo possa interpretare. Ho udito dire di te che, quando ti raccontano un sogno, tu lo puoi interpretare» (Gen 41,15). «Poiché Dio ti ha fatto conoscere tutto questo, non c'è nessuno che sia intelligente e savio quanto te» (Gen 41,39) conclude il Faraone, una volta che viene data l’interpretazione. E il padrone dell’Egitto affida a Giuseppe la gestione economica del paese per far fronte alla carestia. «Andate da Giuseppe e fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). La chiaroveggenza di Giuseppe si manifesta in un momento decisivo della sua storia: Giuseppe riconosce i suoi fratelli  quando si presentano nella fila di coloro che vengono ad acquistare del grano (Gen 42,7.8). Riconosce i suoi fratelli senza farsi riconoscere da loro. L’ironia drammatica è come spostata di livello. È tipico del narratore che domina la scena, che sovrasta dei personaggi alle prese con i limiti del loro sapere. Ora sulla scena narrativa vi è un personaggio umano, il personaggio di Giuseppe, che sovrasta il non sapere dei fratelli. E ciò fino al culmine dell’ironia nella scena dell’interprete in cui Giuseppe non perde una parola di ciò che i fratelli bisbigliano tra loro in ebraico: «essi non sapevano che Giuseppe li capiva, perché tra lui e loro c'era un interprete» (Gen 42,23). In altri momenti, la strategia di Giuseppe implica la manifestazione della sua «scienza». Dopo la scoperta della coppa nel sacco di Beniamino, mette in guardia i fratelli: «Che azione è questa che avete fatto? Non lo sapete che un uomo come me ha il potere di indovinare?» (Gen 44,15; cfr. 44,5). Insomma, nella sua intelligenza dei sogni come nella sua intelligenza della storia, Giuseppe mostra un sapere che lo pone al di sopra del gruppo [cfr. André Wenin, Giuseppe o l’invenzione della fratellanza, EDB, Bologna 2007].

Se Giuseppe è colui che sa, è anche colui che fa succedere le cose. Fin dal momento in cui riconosce i fratelli, Giuseppe prende in mano la trama degli eventi. È lui che organizza le partenze e i ritorni dei figli di Giacobbe, che telecomanda i colpi di teatro e le scene di riconoscimento – la scoperta del denaro nei sacchi dei dieci fratelli (Gen 42,7.35) o quella della coppa nel sacco di Beniamino (Gen 44,12). In quanto padrone del gioco, non potrebbe essere che Giuseppe prenda il posto di Dio? I fratelli, d’altronde, fraintendono. Scoprendo il denaro, «si sentirono mancare il cuore e, tremando, dicevano l'uno all'altro: “Che cos'è mai questo che Dio ci ha fatto?”» (Gen 42,28) – allorché Giuseppe ha ordito il tutto. Nell’incontro che segue, il maggiordomo di Giuseppe non esita a confermare i fratelli nel loro fraintendimento: «Datevi pace, non temete; il vostro Dio e il Dio di vostro padre ha messo un tesoro nei vostri sacchi» (Gen 43,23). Il modello narrativo messo in campo dalla Genesi non rischia di implodere se un personaggio umano concentra su di sé una scienza e un potere di azione che riguardano il divino? Avendo apparentemente tutte le chiavi in mano e tirando tutte le fila, Giuseppe fa ancora parte dei suoi padri e del suoi fratelli (e di noi, suoi lettori fraterni)?

La saga di Giuseppe rappresenta infatti una dimostrazione estrema della coerenza del modello narrativo della Genesi (e della visione teologica che mette in campo). Figura «limite» all’interno del modello, la figura di Giuseppe conferma questo modello come nessun altro. Sebbene sia investito di poteri straordinari, Giuseppe resta il fratello dei suoi fratelli e di tutte le figure umane del racconto. Pur sapendo molte cose, Giuseppe non sa tutto. Le sue dimostrazioni di sapere e di dominio sono infatti finalizzate alla spiegazione di ciò che non sa: suo padre Giacobbe e il suo giovane fratello Beniamino sono veramente in vita (come hanno sostenuto i suoi fratelli?). Su questo punto Giuseppe non può fare a meno di interrogarsi (cfr. Gen 43,27; 45,3). Ma Giuseppe fa anche della sua scienza e del suo dominio i motori di una prova nella quale inserisce i figli di Lea e delle concubine di suo padre. Riconoscendo i suoi fratelli (Gen 41,7-8), Giuseppe decide, in un battibaleno, di rendere impossibile la conoscenza reciproca così da condurre i figli di Giacobbe riuniti davanti a lui verso un’altra forma di riconoscimento – il riconoscimento della loro colpa verso di lui [la storia di Giuda e di Tamar, inserita nel ciclo di Giuseppe in Gen 38, chiarisce al lettore la comprensione dello stratagemma di Giuseppe; l’abilità di Tamar è stata di condurre Giuda a riconoscere lui stesso la sua colpa nei confronti della nuora, evitandogli così di essere condannato per il suo misfatto]. Questa psicanalisi famigliare sfocia nella confessione di Giuda (Gen 44,18-34) in cui si scioglie ciò che aveva aperto tutta la vicenda: la preferenza di Giacobbe per i figli di Rachele. Se Giuseppe si è fatto carico di agire in modo «divino», o comunque come un indovino, era dunque per confonderei suoi fratelli in una prodigiosa maieutica e per portarli a riconoscere ciò che solo Dio può fare. Alla fin dei conti, infatti, è Dio che scopre le colpe, che le giudica e le perdona. Giuda allora si sbaglia veramente quando confonde gli agenti e dice: «Dio ha trovato l'iniquità dei tuoi servi» (Gen 44,16)? Giuseppe si è incaricato di fare ciò che Dio faceva all’inizio della Genesi, quando Adonai interrogava e confondeva lui stesso i colpevoli (Gen 3,8-9; 4,9). Le iniziative di Giuseppe rispondono anche in modo opportuno al «ritirarsi» di Dio, che agisce ormai attraverso l’uomo a cui va il suo favore. Il finale della storia, tuttavia, non lascia dubbi sul gioco di Giuseppe: lungi dall’attirarsi gli sguardi su di sé come un deus ex machina, Giuseppe reindirizza questi sguardi verso colui che è il vero maestro della trama.

Ciò che, più di tutto, ci rende Giuseppe infinitamente fratello sono le sue lacrime. Per sei volte Giuseppe piange: due volte di nascosto (Gen 42,23; 43,30), tre volte davanti ai suoi fratelli (Gen 45,1-2; 45,14-15; 50,17) e una volta ritrovando suo padre (Gen 26,29). In questi momenti, Giuseppe non sovrasta più la scena; anche lui è confuso da ciò che capita, disarmato di fronte a ciò che Dio ha fatto. È nelle lacrime, e non in una chiaroveggenza olimpica, che Giuseppe decifra ogni enigma. È nelle lacrime che dice ai suoi fratelli: «Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita» (Gen 45,5). Mentre i suoi fratelli hanno un ultimo dubbio sul suo perdono, è nelle lacrime che li rinvia al primo attore della storia: «Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso» (Gen 50,19-20). In queste attestazioni di sapienza, in cui si coglie non più un sogno ma il disegno di Dio nella storia, Giuseppe accede alla conoscenza del bene e del male la quale si ottiene solo a posteriori, al termine della storia vissuta con Dio. Tale conoscenza non si acquisisce a priori, come hanno creduto Adamo e Eva (Gen 3,4-5). Alla fine della Genesi e alla fine della sua grande prova, Giuseppe appare allora come un nuovo Adamo che riceve nella sua sapienza il frutto della «conoscenza del bene e del male».

E così, quando annuncia il senso della storia, Giuseppe si ritrova per così dire affine al narratore: con la sua sapienza, dà voce a ciò che il narratore sa della sapienza divina. Questa è la straordinaria architettura della Genesi, in cui la modalità divina, traendo il bene dal male fin dal suo gesto creatore, si fa esplicitamente riconoscere solo al cinquantesimo e ultimo capitolo. Questo lo straordinario riserbo del narratore, che lascia al suo ultimo personaggio il compito di esporre il succo di tutta l’opera narrata. Ma la prossimità di Giuseppe con il narratore si raddoppia con la contiguità di Giuseppe con il lettore. Sommerso dall’emozione quando decifra e «legge» un progetto che non sa misurare, Giuseppe si ritrova a fianco del lettore che retrospettivamente decifra la trama complessiva della Genesi. L’emozione di Giuseppe reca il termine biblico di «timore di Dio» (cfr. Gen 42,18) ed è probabilmente senza confronto con la «pietà e il timore» grazie ai quali, secondo la Poetica di Aristotele, si determina la katharsis dello spettatore della tragedia. Ma anche la narrazione biblica, come la tragedia antica, cerca di suscitare un determinato effetto nel suo destinatario. Non c’è dubbio che Giuseppe anticipi sulla scena l’emozione che il narratore intende comunicare al suo lettore. Se i libri mantengono il silenzio, talvolta si leggono nelle lacrime.

 

 

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