Il
lettore moderno e postmoderno può ancora accettare le
regole della narrazione biblica? Formatosi su Gustave
Flaubert, Henry James, James Joyce e i loro epigoni
(come pure sulla cultura filosofica che sta alla base
del loro programma letterario), un tale lettore è ancora
in grado di accordare fiducia a un narratore che si
presenta come onnisciente? È ancora disposto a ricevere
lezioni da un narratore la cui autorità, apparentemente
trascendente, deriva in realtà da autori limitati tanto
quanto lui? Spesso si colloca il conflitto tra la Bibbia
e la cultura letteraria moderna nel conflitto tra due
epistemologie: quella della Bibbia, che fa intervenire
un punto di vista trascendente, un al di là dei
fenomeni, una fonte oggettiva ed esclusiva della morale,
e quella della modernità che rinuncia a tali pretese e
ormai indaga in mondo «nei limiti» dell’esperienza umana
– un mondo che la coscienza postmoderna percepisce ormai
come irreversibilmente frammentato. Nelle pagine che
seguono, mi guarderò bene dal contrapporre questi
modelli, per chiarire piuttosto il dato biblico a
partire dalle «sporgenze» della modernità. Vorrei
mostrare come esse contribuiscano a mettere in risalto
ciò che ha di singolare – e per certi aspetti di
singolarmente moderno – l’arte della narrazione biblica.
1. L’autorità del narratore
biblico: i termini di un dibattito
Nella ricerca recente, l’autorità del
narratore biblico è stata al centro di un dibattito
significativo. Rievocando tale dibattito, metterò in
prospettiva l’intento delle pagine che seguono. Tra
coloro che hanno difeso e illustrato la poetica
narrativa della Bibbia, nessuno più di Meir Sternberg,
nella sua opera The Poetics of Biblical Narrative,
ha sancito l’autorità del narratore. La
caratterizzazione del narratore proposta da Meir
Sternberg può essere così riassunta.
Chiunque siano stati, i narratori del
racconto biblico non parlano con la propria voce, né in
virtù dei loro privilegi naturali. È inutile cercare di
caratterizzare l’istanza narrativa del racconto biblico
a partire da criteri empirici, postulando per esempio
degli autori che sarebbero stati testimoni di ciò che
raccontano. Al contrario, bisogna distinguere la persona
(l’autore come individuo storico) dalla persona,
l’istanza narrativa messa in campo dall’opera: il
narratore, di cui non possiamo tracciare the portrait
as an artist. Ciò che si lascia osservare nel corpus
narrativo della Bibbia, afferma Meir Sternberg, è «una
unità di persona artistica in una diversità di
personaggi storici».
In opere di origine storica così diverse quali i libri
della Genesi, di Samuele e di Giona, il narratore appare
con le stesse caratteristiche essenziali, quelle di una
voce senza viso né nome, evita ogni riferimento all’atto
del narrare e ogni indirizzo al suo uditorio ed esercita
in ciascuno dei libri i privilegi dell’onniscienza (ha
accesso, per esempio, all’interiorità psichica dei suoi
personaggi, Dio compreso, di uno o di molti personaggi
contemporaneamente, e può raccontare fatti passando
simultaneamente dai luoghi più distanti gli uni dagli
altri). Da dove prende la sua autorità? Meir Sternberg
ha rifiutato i criteri empirici; bisogna far ricorso,
sostiene, ad un altro modello, quello dell’ispirazione
profetica. Sebbene il narratore non esprima alcuna
rivendicazione in tal senso (fedele in ciò alla sua
politica di auto-nascondimento), la sua modalità non
lascia alcun dubbio in ordine ad uno statuto di tipo
ispirato. È impensabile che un narratore, più vicino
alla prospettiva divina rispetto agli stessi profeti,
sia meno inspirato di loro. Il narratore partecipa al
sapere di Dio, ed è in quanto tale che è storico – un
storico che rivela la verità più profonda della storia
del cielo e della terra, di Israele e delle nazioni,
vissuta al cospetto di Dio. Ispirato, può enunciare il
vero – nell’economia della storia che racconta – con una
autorità infallibile.
Si tratta di qualcosa di
sorprendente? Meir Sternberg e la sua concezione del
narratore sono stati al centro di un’opera intitolata
The Postmodern Bible.
Questa opera intendere applicare alla Bibbia una
«pluralità di giochi di linguaggio», una eterogeneità di
approcci, rifiutando, secondo un principio postmoderno
che si ispira a Jean-François Lyotard, ogni riferimento
alla coerenza di un modello e a una posizione di
autorità. Nel capitolo dedicato agli approcci
strutturalisti e narratologici alla Bibbia, gli autori
di quest’opera collettanea prendono fortemente le
distanze dal modello narrativo descritto da Meir
Sternberg:
In alcuni
casi, gli approcci narratologici contribuiscono
apertamente a sostenere l’autorità della Bibbia,
specialmente stabilendo, su basi quasi letterarie, un
tipo di autorità specifica per il narratore. Scrivendo a
proposito di 1 Samuele, Lyle Eslinger fa riferimento al
«narratore onnisciente, l’iniziatore della nostra
lettura e quello che la conduce alla sua perfezione».
Si tratta, certamente, di una allusione a «Gesù,
colui che crea la fede e la rende perfetta» (Eb 12,2),
con un appello subliminale a ciò che è (per alcuni) una
autorità religiosa ultima. Il caso più estremo e più
influente è quello di Sternberg. Trattandosi della
relazione tra mittente e destinatario nel racconto
biblico, l’esito della ricerca di Sternberg è una forma
di reader-response criticism all’estremità più
conservatrice dello spettro. Il lettore deve
identificarsi interamente con il lettore implicito (implied
reader), la creatura del narratore biblico. Nel suo
«dramma di lettura» il lettore è in certo qual modo
chiamato a prendere tutte le decisioni; ma l’onnipotenza
ideologica del narratore è tale che queste decisioni
devono essere quelle giuste. La sola differenza tra
lettori è il loro diverso livello di competenza; ma il
narratore biblico ha messo in conto anche questo,
consegnando il suo messaggio in un modo a tal punto
infallibile (foolproof) che il lettore meno
competente non può veramente sbagliare rotta; può farlo
solo in modo meno perfetto […]. All’inizio del suo
libro, [Sternberg] annuncia la sua intenzione di
mostrare «come la relazione tra teoria letteraria e
analisi biblica si trovi distolta dal movimento a senso
unico chiamato “applicazione”».
In realtà, ciò che tenta di fare è di stabilire un
movimento a senso unico nell’altro senso. «La
Scrittura», dice, «emerge come l’opera più interessante
e magistrale nella tradizione narrativa»,
e crede schiettamente che la Scrittura abbia da
insegnare alla critica letteraria più di quanto abbia da
impararne. A questa stregua, la Bibbia esige dal critico
qualcosa che assomiglia pericolosamente a un impegno
religioso.
Si può almeno sperare che la Bibbia
si aspetti dal suo lettore «qualcosa che
assomiglia pericolosamente a un impegno religioso» e che
abbia fatto di tutto, nella sua poetica narrativa, per
riuscirci.
Gli autori dell’opera The Postmodern Bible,
infatti, sopravvalutano, nel dato biblico come in quello
della postmodernità, ciò che rende apparentemente
incompatibili le due attività letterarie: l’autorità del
narratore biblico, da un parte, e il rifiuto di ogni
posizione di autorità, dall’altra. L’incontro tra il
programma letterario della Bibbia e quella della
modernità può tuttavia collocarsi su un altro livello,
più propriamente euristico. Vorrei mostrare come alcuni
aspetti della narratività biblica – e segnatamente gli
aspetti particolarmente «moderni» dell’autorità e della
modalità del narratore – si manifestino alla luce
dell’attività narrativa moderna e postmoderna.
2. Lo specchio incrinato della
modernità
Per valutare la rivoluzione del
programma narrativo moderno, ci si può riferire
all’ultimo saggio dell’opera di Erich Auerbach,
Mimesis, opera che si apre, come noto, con un
confronto tra Genesi 22 e una scena dell’Odissea.
Nell’ultimo capitolo della sua ricerca su Il realismo
nella letteratura occidentale affronta, a partire da
Virginia Woolf, un nuovo atteggiamento nel programma
narrativo, «completamente diverso dall’atteggiamento di
quegli scrittori che interpretano le azoni, le
situazioni e i caratteri dei loro personaggi con
sicurezza obiettiva, come avveniva prima: Goethe o
Keller, Dickens o Meredith, Balzac o Zola ci resero
partecipi con conoscenza sicura di quanto i loro
personaggi facevano, pensavano e sentivano, e ci
facevano da guida nell’interpretare le loro azioni e i
loro pensieri. Essi non ignoravano nulla del carattere».
Le cose cambiano dopo una svolta che
ha preso il via con Gustave Flaubert, il quale scriveva
a Guy de Maupassant: «Avete mai creduto all’esistenza
delle cose? Non è tutta un’illusione? Di vero ci sono
solo i “rapporti”, cioè il modo in cui noi percepiamo
gli oggetti».
La svolta, lo si è capito, è al tempo stesso letteraria
e filosofica – kantiana e fenomenologica. Si tratta di
affrontare ogni cosa nei limiti della pura ragione, a
partire dal punto di vista limitato del personaggio
umano. Costui è messo in opera tanto nella narrazione in
prima persona quanto in quella in terza persona, come ha
dimostrato Henry James con i suoi «personaggi
riflettenti»,
con la narrazione che diventa «quella di un Egli
limitato da un Io e viceversa».
Questi limiti non sono soltanto quelli della coscienza
umana in generale, ma anche – ed è qui che le cose
diventano interessanti in un racconto – quelle della
coscienza di un narratore individuale con il filtro
affettivo, ideologico o altro che lo caratterizza.
Il narratore diventa «unreliable», come scrive
Wayne Booth,
«poco attendibile», come traduce Robert Fulford,
e noi siamo condannati alla visione offuscata che egli
ha delle cose (pensiamo a Kinbote, il narratore pazzo di
Fuoco pallido di Nabokov), o che hanno delle
cose, visto che questi narratori dalla visione filtrante
si possono moltiplicare (come in L’urlo e il furore
di Faulkner).
Il programma narrativo moderno, scrive ancora Fulford,
«ci ha insegnato a diffidare dell’idea che un semplice
racconto possa tradurre la verità dell’esistenza; si è
messo a proclamare la complessità, la parodia,
l’ambiguità e una coscienza di sé carica di ironia. È in
questo clima nuovo che ha fatto la sua comparsa il
narratore inaffidabile, un narratore tagliato su misura
per quest’epoca di relativismo, di dubbio e di
incredulità. La mentalità moderna è solleticata da
storie frammentate: leggendo le parole di questi
narratori poco affidabili, noi guardiamo lo specchio
incrinato della modernità».
Tutto ciò apparentemente ci allontana
dal modello biblico e dalla sua visione del mondo,
unificata nello sguardo di Dio – «Dio vide che era
buono» (Gen 1, passim); «Yhwh
vide che la malvagità degli uomini era grande sulla
terra» (Gen 6,5) –, come pure nel suo disegno di
salvezza, progressivo, ineluttabile, attraverso
l’ostinazione umana.
L’interesse degli spostamenti narrativi della modernità
consiste tuttavia nel fatto che ci rendono sensibili ad
alcuni aspetti della narrazione biblica che forse non
avremmo colto senza di loro. Tali spostamenti
consentono, per esempio, di ripensare la questione
dell’«onniscienza» del narratore biblico e di indagare
la «reticenza» che lo caratterizza.
3. Narrazione biblica e drammatica
divina
Bisogna tener conto della singolarità
del modello biblico di narrazione. Parlare di «narratore
onnisciente» significa utilizzare un concetto della
teoria letteraria moderna che reca con sé una
determinata concezione dell’onniscienza. Significa
immaginare un’istanza narrativa trascendente (che
trascende tutti i personaggi), sottratta ai cambiamenti
di un mondo all’interno del quale evolvono personaggi
cangianti. Ciò che caratterizza il modello biblico è
invece il fatto che uno dei personaggi messi in scena –
il personaggio divino – sia la «fonte» della scienza del
narratore. Il sapere del narratore, e quindi la sua
autorità, è secondario rispetto a quello del personaggio
di Dio – che trascende l’istanza narrativa pur essendo
compreso nell’ambito della sua messa in scena. Se il
narratore fornisce di tanto in tanto un punto di
riferimento (segnatamente nell’apprezzamento morale
delle cose), lo fa riferendosi al punto di vista
personale di Dio: «Dio vide che la luce era cosa buona»
(Gen 1,18): «Ma quello che Davide aveva fatto dispiacque
a Yhwh»
(2Sam 11,27). In ciò, il modello biblico si differenzia
fortemente dalla «narrazione onnisciente» messa in atto
nei racconti dell’antico Vicino Oriente, perché qui gli
dèi sono molti e, in diversi casi, antagonisti (senza
contare le loro deficienze personali o occasionali in
fatto di sapere).
Il narratore è allora un’istanza terza che, nell’unicità
del suo sguardo, sovrasta gli dèi. Analogo discorso per
il racconto omerico, in cui, come sottolinea Meir
Sternberg, il narratore «si trova al di sopra degli dèi,
dando loro accesso al sapere dei vari statuti in
funzione delle sue istanze».
Solo il racconto biblico, a motivo della rivoluzione
monoteistica da esso promossa, fa assistere all’intima
unione tra la «scienza» di un personaggio – che è il Dio
unico, quello che «guarda il cuore» (1Sam 16,7) – e
quella dell’unico narratore, anch’egli in grado di
guardare il cuore. Sicuramente il narratore dà prova di
una suprema libertà di movimento in ciò che si potrebbe
definire l’utilizzo della sua «cinepresa», ma essa
rimane comunque intimamente unita alla prospettiva
divina. Il narratore segue così i personaggi sui quali
cade (per l’appunto) la scelta di Dio, in «salti»
spaziali e temporali, di cui solo
Yhwh
possiede il segreto (per esempio, il passaggio dagli
«uomini» di Babele in Gen 11,1-9 alla discendenza di
Abramo in Genesi 11 e 12; oppure la focalizzazione in
1Sam 1,1 sul padre di colui che
Yhwh, per
l’appunto, si appresta a chiamare – Samuele). O, ancora,
il narratore procede, con tutte le licenze dello
storyteller, in funzione di ridefinizione della
scelta divina (per esempio, nel gioco a nascondino tra
il messia decaduto, Saul, e il messia segreto, Davide) –
spingendo talvolta il racconto fino ai suoi limiti (per
esempio nella doppia «prima» entrata in scena di Davide
in 1Samuele 16 e 17). In qualche misura si trova qui
anticipato il modello di Henry James: il narratore opera
a mo’ di un riflettente (sfasato) dello sguardo del
personaggio divino.
L’intima unione Dio-narratore è un
fenomeno che non può non suscitare l’interesse dei
moderni. Il punto di vista del narratore non è olimpico,
prestabilito nella sua visione del mondo o della storia:
questo punto di vista è legato a quello di un Dio che si
rivela creando il mondo e accompagnando la storia degli
uomini. Il mondo del narratore nasce con il gesto
creatore di Dio; le prime parole del narratore («Nel
principio…») sono allo stato costrutto, unite al verbo
(«… del creare…») di cui Dio è il soggetto («…di Elohim»).
Il giudizio del narratore è sospeso a quello di Dio:
«Dio vide che ciò era buono» (Gen 1, passim);
«Dio guardò la terra; ed ecco [entriamo nello sguardo di
Dio] era corrotta, [il narratore può continuare]
poiché ogni carne aveva una condotta perversa sulla
terra» (Gen 6,12). Le norme morali che il narratore
ritrasmette nel corso del suo racconto sono stabilite
soggettivamente nel e tramite lo sguardo di Dio. Ma c’è
di più: il Dio della Bibbia è al tempo stesso un punto
fisso e un punto mobile. Il racconto biblico è il luogo
di una drammatica divina (Theodramatik), per
riprendere un famoso titolo di Hans Urs von Balthasar.
E così il Dio che si vi rivela è, con nostra grande
sorpresa, un Dio che si pente – e ciò malgrado la
patetica negazione di Samuele (rivolgendosi a Saul):
«Colui che è la gloria d’Israele non mentirà e non si
pentirà; egli infatti non è un uomo e non deve pentirsi»
(1Sam 15,29). Ma non c’è niente da fare: «Io mi pento di
avere stabilito Saul re, perché si è allontanato da me e
non ha eseguito i miei ordini» (1Sam 15,10), cosa che
alla fine il narratore registra: «Perché
Yhwh si
era pentito di aver fatto Saul re d’Israele» (1Sam
15,35).
Essendo una ripresa della storia di uomini come
sottobanco, il disegno di Dio è il luogo di drammatiche
ridefinizioni (ricordiamoci del pentimento di Dio per
aver creato l’uomo, che prelude al diluvio in Gen 6,6-7,
o della concessione divina del nutrimento di carne in
Gen 9,3-4). Il punto fisso, che serve da leva di
Archimede al narratore, è quindi anche un punto mobile,
ed è interno al racconto.
È questo che obbliga a ripensare l’onniscienza divina
come indissociabile dal racconto della sua effettuazione
e quella del narratore come onniscienza a posteriori
(quella dello storico che pure è), adattandosi alla
curvatura della «scienza» divina. Il punto di vista del
narratore diventa così mobilis in mobile, come il
Nautilus di Jules Verne. Un tale modello ha
evidentemente molto da dire ad un’epoca intellettuale
formatasi sulla teoria della relatività, sulla dottrina
del circolo ermeneutico e su diverse forme di pensiero
dinamico, sensibili alla dimensione processuale della
realtà.
4. Il segreto del re
Il paragrafo precedente si è fatto
carico di riconsiderare la «scienza» del narratore
biblico. Leggere il racconto biblico significa però
essere esposti alla reticenza del narratore più che alla
sua scienza. «Ogni narratore biblico rientra ovviamente
nella categoria del narratore onnisciente», scrive
Robert Alter, ma questo narratore «mostra la propria
onniscienza con drastica selettività. Talvolta può
decidere di comunicare anche a noi la conoscenza di ciò
che Dio pensa di un personaggio particolare o di
un’azione particolare […] ma, di norma, data la
comprensione che egli ha della natura dei suoi soggetti
umani, ci giuda attraverso diverse forme di oscurità
illuminate da fasci di luce intensi ma ridotti, da
barlumi spettrali, da improvvisi bagliori intermittenti.
Siamo costretti ad arrivare al personaggio e al motivo —
come in scrittori impressionisti quali Conrad e Ford
Madox Ford — tramite un processo di inferenza, a partire
da dati frammentari, spesso con momenti cruciali
dell’esposizione narrativa strategicamente sottaciuti
per essere proposti più avanti nella trama, e ciò
conduce a prospettive molteplici e talvolta persino
oscillanti sui personaggi. C’è in altre parole un
mistero presente nel personaggio così come lo
concepiscono gli scrittori biblici, un mistero che essi
esprimono attraverso i loro tipici metodi di
presentazione».
Se vi è un ciclo narrativo che
illustra tale metodo di presentazione, è certamente il
ciclo di Davide, specialmente nella sua prima parte
(1Samuele 16–2Samuele 6), che racconta l’«ascesa» del
giovane re.
In queste pagine bibliche, l’arte della narrazione non è
inferiore in nulla a quella di un Henry James o di una
Virginia Woolf. I capitoli che mettono in conflitto
Davide con Saul sono capitoli che fanno gravitare uno
intorno all’altro due personaggi portatori di un secreto
– il segreto dell’unzione regale ritirata da Saul (1Sam
15,26) e dell’unzione regale conferita a Davide (1Sam
16). Quando entra nella corte di colui che è ancora,
socialmente, il re Saul, Davide è portatore di un
segreto straordinario e deve chiedersi: «come accadrà
ciò?».
Siamo così sul terreno di Henry James, i cui romanzi,
scrive Tzvetan Todorov, si costruiscono nella maggior
parte dei casi intorno ad un segreto: «Il segreto del
racconto jamesiano è l’esistenza di un segreto
essenziale, di un nome non nominato, di una forza
assente e sovrastante, che mette in moto tutta la
macchina narrativa».
Questo dato si raddoppia nella
modalità del narratore, il quale fa in modo che il
mistero di Davide sia riflesso negli sguardi che si
posano su di lui. Tra 1Samuele 16 e 2Samuele 6, infatti,
Davide è oggetto degli sguardi di tutti. Attirando gli
uni e gli altri in modo irresistibile, Davide non lascia
nessuno indifferente. Di tutti i personaggi della
Bibbia, nessuno è stato amato quanto lui:
– «Saul si
affezionò molto a lui [Davide]» (1Sam 16,21);
– «Appena
Davide ebbe finito di parlare con Saul, Gionatan si
sentì nell’animo legato a Davide, e Gionatan l’amò come
l'anima sua» (1Sam 18,1; cfr. 20,17);
–
Quanto a Mical, è l’unica donna della Bibbia di cui si
dica esplicitamente che è innamorata: «Mical, figlia di
Saul, amava Davide […] Saul vide e riconobbe che
Yhwh
era con Davide; e Mical, figlia di Saul, l’amava» (1Sam
18,20; 18,28);
– Il popolo,
infine, è unanime nel suo entusiasmo per il suo nuovo
comandante: «Tutto Israele e Giuda amavano Davide,
perché andava e veniva alla loro testa» (1Sam 18,16;
cfr. 18,5).
Davide è così il punto si riferimento
di tutti, colui che si consegna o si sottrae ai diversi
sguardi:
– lo
sguardo di Dio («l’uomo guarda all’apparenza, ma
Yhwh
guarda al cuore» [1Sam 16,7]);
– lo sguardo
di Samuele al momento dell’unzione (1Sam 16,12);
– lo sguardo
di Saul (interrogativo [1Sam 17,55], ostile [1Sam 18,9]
o preoccupato [1Sam 18,15]);
– lo
sguardo di Mical, da una finestra all’altra: «Mical calò
Davide da una finestra ed egli se ne andò, fuggì e si
mise in salvo» (1Sam 19,12); «Mentre l’arca di
Yhwh
entrava nella città di Davide, Mical, figlia di Saul,
guardò dalla finestra; e vedendo il re Davide che
saltava e danzava davanti a
Yhwh,
lo disprezzò in cuor suo» (2Sam 6,16).
Davide abita la coscienza o i
discorsi degli uni o degli altri: di Saul (a partire da
1Sam 16,19), del popolo e dei servi di Saul (1Sam 18,5),
delle donne del popolo (1Sam 18,6-7), di Gionatan (1Sam
19,1-7; 20,1–21,1; 23,16-18), di Nabal e Abigail
(1Samuele 25), di Samuele a Ein-Dor (1Sam 28,17), di
Achis e dei capi filistei (1Sam 27,12; 29,1-11) – come
abita la coscienza interrogativa del lettore. Ciascuno è
come tirato fuori da sé dalla sola sua presenza,
costretto in qualche modo a scoprirsi. Davide non si
mette lui stesso allo scoperto, si protegge e rimane un
enigma continuo. Certo, Davide parla. Come sottolinea
Robert Alter, «benché l’affermazione fatta direttamente
da un personaggio possa sembrare una rivelazione
sufficientemente esplicita della sua identità o del come
egli operi, di fatto gli scrittori biblici sono
consapevoli, quanto lo può essere qualsiasi James o
Proust, che il discorso può riflettere l’occasione più
che il parlante stesso, e quindi può essere più una
persiana chiusa che una finestra aperta».
Le parole di Davide si prestano in effetti a diverse
letture, non danno mai veramente accesso alla sua
interiorità. Nel confronto con Saul, per esempio: quando
il narratore riferisce le parole o gli atteggiamenti di
Davide, si guarda sempre dall’esplicitarli, mentre lo fa
per Saul, producendo un monologo interiore (o anche una
«visione interiore») di quest’ultimo:
Saul
dice a Davide: «Ecco Merab, la mia figlia maggiore; io
te la darò in moglie; solo sii per me un guerriero
valente, e combatti le battaglie di
Yhwh».
Saul diceva tra
sé: «Così non sarà la mia mano a colpirlo, ma la mano
dei Filistei»
(1Sam 18,17).
Mical,
figlia di Saul, si innamora di Davide. Ne informa Saul e
la cosa gli sembra buona. «Saul
disse: Gliela darò, perché sia per lui una trappola ed
egli cada sotto la mano dei Filistei».
(1Sam 18,20-21).
Saul
dice: «Dite così a Davide: “Il re non domanda dote; ma
domanda cento prepuzi dei Filistei, per vendicarsi dei
suoi nemici”.
Saul aveva in animo di far cadere Davide nelle mani dei
Filistei» (1Sam
18,25).
«E Saul
gli diede in moglie Mical, sua figlia.
Saul vide e riconobbe che
Yhwh
era con Davide; e Mical, figlia di Saul, l’amava. Saul
continuò più che mai a temere Davide, e gli fu sempre
nemico (1Sam
18,28-29).
Saul non
disse nulla quel giorno, perché pensava: «Gli è
successo qualcosa per cui non è puro; certo egli non è
puro». (1Sam 20,26)
Le parole di Davide non sono
accompagnate da simili inside views.
Per quanto possibile, il narratore si preclude ogni
informazione diretta, derivante cioè dal proprio sapere,
sulla persona di Davide. Ciò che noi sappiamo di lui è
in buon parte mediato dall’esperienza dei personaggi
secondari. Il narratore interpone tra Davide e il
lettore una serie di figure intermediarie incaricate di
rifrangere la figura centrale in molteplici immagini, in
interpretazioni frammentarie e spesso contraddittorie.
Legato ai personaggi posti in relazione con Davide, il
lettore è allora solidale con il loro desiderio di
accostare e di conoscere il misterioso pretendente al
trono. È quindi con i loro occhi e attraverso le
peripezie di questi personaggi che il lettore può
sperare di penetrare il «segreto del re». Come non
definire «moderna» una simile tecnica narrativa, che
prefigura le esperienze letterarie di Henry James e
Virginia Woolf? Il personaggio centrale del romanzo di
Virginia Woolf Gita al faro (1927), Mme Ramsay,
così scrive Erich Auerbach, «è un mistero e lo resta per
principio, ma viene quasi accerchiata dalle varie
coscienze (compresa la sua) convergenti su di lei, […]
caratteristica essenziale del procedimento moderno qui
trattato».
Per Robert Alter a questo riguardo si può tracciare una
linea retta tra Bibbia e modernità: «l’idea biblica del
personaggio che è sovente imprevedibile, in certo modo
impenetrabile, costantemente emergente dalla penombra
dell’ambiguità e continuamente pronto a rientrare in
essa, di fatto ha più affinità con le nozioni moderne
dominanti di quanto non l’abbiano i modi di concepire il
personaggio tipici dell’epica greca»
(che esplora ed esplicita i sentimenti universalmente
umani).
Conclusione
Il
lettore moderno e postmoderno può ancora accettare le
regole della narrazione biblica? Al termine di queste
pagine, la domanda posta all’inizio è in qualche modo
diventata: questo lettore può ancora comprendersi senza
l’offerta letteraria della Bibbia? Nell’arte biblica di
narrare si è prodotto qualcosa di rivoluzionario,
qualcosa di legato alla rivoluzione del monoteismo etico
e alla rappresentazione dell’essere umano che le è
proprio. Ciò che viene messo in atto in questo racconto
è ciò che, a un livello fondamentale, informa ancora e
sempre la nostra percezione dell’essere umano, fino alle
sue metamorfosi più contemporanee. In ogni caso è
evidente che ci servono i programmi narrativi di tutte
le epoche – e segnatamente quello della (post)modernità
che ci è propria – per aggiornare ciò che, di Dio e
dell’essere umano, si legge tra la Genesi e
l’Apocalisse.
Trattandosi del narratore, si potrà leggere in
proposito il mio studio «Y a-t-il un narrateur
dans la Bible?
La
Genèse et le modèle narratif de la Bible
hébraïque», in: Françoise
Mies,
éd., Bible et littérature. L’homme et Dieu
mis en intrigue, (Le livre et le Rouleau 6),
Bruxelles, Lessius, 1999, pp. 9-27.
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