2. I Targûmîm. Le versioni aramaiche dell’Antico Testamento

di Patrizio Rota Scalabrini

 

1. La lingua aramaica

I Targûmîm rappresentano la traduzione aramaica dei testi ebraici della Bibbia. È necessaria qui una parola d’introduzione sull’aramaico, e sull’aramaico biblico in particolare. Tale lingua, facente parte del gruppo degli idiomi semitici del nord-ovest, ha esercitato la sua influenza sull’intero Antico Vicino Oriente, per almeno un millennio. Per ‘aramaico’ si intende l’insieme dei dialetti delle tribù che, provenendo dall’est, penetrarono nella zona della Siria-Palestina, tra il X e l’VIII sec. a.C. La denominazione di aramei non è di tipo scientifico, ma deriva dal fatto che questi gruppi si presentavano come ‘aramei’.

Durante l’impero persiano l’uso dell’aramaico si estende a tutto il Medio Oriente, per cui si trovano documenti in Asia Minore, in Egitto e persino in India. I giudei residenti in Giuda utilizzano tale aramaico, detto ‘imperiale’, fin verso il II sec. d.C. Lo testimoniano testi di Qumran, le lettere e i trattati di Wadi Murabba’at e di Nahal Hever, iscrizioni delle tombe di Gerusalemme, i rotoli relativi al digiuno e altri documenti riportati dal Talmud. Peraltro ricordiamo che l’aramaico appare anche all’interno di testi biblici, e precisamente Esdra 4,8-6,18; 7,12-26; Daniele 2,4b-7,27; Gn 31,47 e Ger 10,11.

Analizzando lo sviluppo della lingua aramaica possiamo riconoscervi tre grandi periodi:

- l’aramaico antico, dal 740 a.C. (dalle prime iscrizioni come quelle di Sefire) al 300 a.C.;

- l’aramaico medio, dal 300 a.C. al 200 d.C.; in questo periodo però l’aramaico non è più lingua ufficiale, in quanto la lingua franca è il greco. L’aramaico inizia una sua frammentazione in dialetti locali, ma sopravvive come lingua letteraria, usata anche in iscrizioni e documenti ufficiali. A questo aramaico appartiene lo strato aramaico di Daniele, nonché tutta una serie di testi rinvenuti a Qumran e una serie di apocrifi. È questo l’aramaico che appare anche nei Targûmîm più antichi. Si comincia intanto a distinguere sempre più un aramaico occidentale da un aramaico orientale (poco attestato);

- infine vi è l’aramaico recente, dal 200 d.C. al 900 d.C. È anch’esso diviso in vari dialetti: in quello occidentale sono scritti i Targûmîm palestinesi, il Talmud gerosolimitano, i midrašîm palestinesi (Genesi Rabbah; Levitico Rabbah), molte iscrizioni funerarie e sinagogali. Sempre in questo gruppo dell’aramaico recente segnaliamo l’aramaico samaritano e l’aramaico cristiano, detto anche ‘siriaco’.

 

2. Il Targûm

Targûm (plurale Targûmîm) è vocabolo semitico che significa «tradurre, interpretare». Probabilmente deriva dal verbo quadrilittero trgm, comunque di origine incerta. La forma nominale nell’ebraico mishnico, utilizzata anche in aramaico, significa appunto «traduzione». Il verbo è utilizzato anche nell’accezione di «spiegare l’espressione della Mišnāh o un passo della Scrittura».

È la letteratura rabbinica che usa la parola targûm soprattutto per indicare la traduzione della Bibbia in aramaico, e le parti aramaiche della Bibbia.

L’ambiente d’origine del Targûm è da ricercarsi non solo nella sinagoga, ma anche – e in certi momenti, soprattutto – nel bet ha-midraš; l’istituzione del bet ha-midraš è distinta propriamente dalla sinagoga, anche se, in un certo periodo, può aver trovato sede negli stessi ambienti. È concretamente l’accademia rabbinica, che sorse in un’epoca antecedente al 70 d.C., ma che si consolidò nel movimento rabbinico dei primi secoli dell’era volgare. È nel bet ha-midraš che va ricercata l’origine delle grandi accademie di Palestina e di Babilonia. Lo scopo perseguito in queste accademie non è l’approfondimento dell’interpretazione della Scrittura per un puro bisogno intellettuale, ma per ricavare indicazioni circa il comportamento. Illuminante è quanto affermano i Pirquê ’Abôt: «Rabban Gamaliel diceva: “Procurati un maestro, e togliti ogni dubbio; non abituarti a separare la decima approssimativamente”». (1,16). E il detto immediatamente successivo corregge ogni impressione di possibile intellettualismo: «Rabban Simeon, figlio del precedente, diceva: “Ho trascorso la mia vita tra i saggi e non ho riscontrato nulla per l’uomo che sia migliore del silenzio. L’essenziale non è l’approfondimento teorico (midraš), ma la pratica. Chi parla molto fa venire il peccato”» (1,17).

In tal modo, attraverso questi due luoghi d’origine, il Targûm risponde ad una doppia esigenza, liturgica e di studio. Liturgica per far comprendere la lettura, e di studio per differenziare anche nella lingua il testo originale da quello parafrasato e commentato. Alla luce di ciò si capisce meglio il fatto che il tipo di aramaico usato non fosse tanto quello popolare, quanto quello letterario, secondo lo standard palestinese.

Fin qui ci siamo riferiti al targûm scritto, ma bisogna ricordare che, prima di essere un evento di letteratura scritta, il targûm è un fatto di oralità, come fa ben capire l’episodio di Ne 8, in cui si racconta della solenne lettura del libro della Legge, che poi viene spiegata in gruppi dai leviti, con chiarimento di senso («Essi leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura»). Proprio in questo brano biblico si comprende come il targûm sia strettamente collegato, ai suoi inizi, con le esigenze della liturgia sinagogale quando l’ebraico non è più lingua parlata, ma solo lingua del testo sacro. È necessario allora che – o durante, o dopo la lettura – si intervenga a rendere comprensibili i testi ai fedeli, e a spiegarli secondo una finalità catechetica. La Mišnāh attesta concretamente l’uso di interpretare la lettura sinagogale del testo biblico dopo ogni versetto o dopo tre versetti; è il traduttore il meturgeman (italiano dotto arcaico: turcimanno) che ha il compito di ripetere il testo in aramaico. Non si hanno facilmente menzioni, invece, di una lettura da un targûm scritto che, almeno inizialmente e per lungo tempo, fu rigorosamente proibito nella liturgia. Quando la prassi si fa più tollerante, si ammette un targûm scritto per uso privato. La tradizione vuole che Rabbi Gamaliele I possedesse un Targûm del libro di Giobbe. E di fatto tale uso, già in epoca precristiana, viene confermato dai ritrovamenti di Qumran, dove c’è un Targûm di Giobbe (11QtgJob), e frammenti di altri Targûmîm del medesimo libro, nonché dei frammenti di un Targûm del Levitico (4QtgLev).

Questa resistenza nei confronti di un targûm scritto ad uso liturgico è motivato da ragioni teologico-spirituali e dalla preoccupazione di non sminuire in nulla l’autorità della Tôrāh. D’altra parte bisogna notare che il targûm non pretende di sostituirsi al libro sacro, ma di essere al suo servizio; dall’altra bisogna riconoscere che il targûm nel suo nucleo originale appartiene appunto alla tradizione orale, nel cui ambito è, per certi aspetti, in autorevolezza superiore alla stessa Mišnāh. Il Sifre Dt 17,19 pone in ordine d’autorità le seguenti grandezze: la Scrittura, il Targûm, la Mišnāh, il Talmud.

In definitiva, il targûm riflette la tradizione rabbinica ufficiale, ed è un’eco, una risonanza suscitata dall’ascolto della parola del testo sacro. Non a caso, mai nella sinagoga la traduzione-parafrasi può anticipare la lettura del testo biblico. La traduzione-parafrasi sono solo risposte suscitate dall’ascolto! Ecco allora un suggestivo monito di B. Ber. 45a: «… il traduttore non deve parlare a voce più alta di quella del lettore…»; riflessione, questa, messa in parallelo anche con il tono della voce con cui si deve rispondere con l’Amen liturgico, tono che non deve essere più forte di quello che pronuncia la benedizione.

Targum dell'XI secolo

 

Il targûm, in sostanza, è un aiuto, un sussidio, uno strumento umano pensato in ordine ad una migliore comprensione della Scrittura. D’altra parte l’avventura del targûm è, per alcuni versi, implausibile, in quanto la Scrittura stessa è intraducibile poiché dotata di inesauribile ricchezza. Il targûm però non si arresta di fronte a questa infinita ricchezza, ma vuole metterla a disposizione dei fedeli per il loro beneficio spirituale. Poiché tradurre è rendere comprensibile, rinunciare alla traduzione in nome di una rigida letteralità è cosa insensata, mendace. Ecco allora il paradosso di T. Meg. 4,41: «Chi traduce un versetto così come sta è un mentitore» (citato in S. P. Carbone- G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù, op. cit., 82).

Ecco la giustificazione teorica del modo di procedere dei targûmîm, autori anonimi che raccolgono più tradizioni interpretative del testo biblico, prese dal dibattito rabbinico. Queste interpretazioni sono proposte in forma fortemente parafrastica all’assemblea sinagogale e alla pietà personale; il Targûm scritto serve allora a pregare, istruire edificare. Oggi è opinione comune che il targûm rappresenti il punto di partenza del midraš (inteso come ricerca sistematica e commentari continuato del testo biblico).

Riprendendo vari elementi da quanto detto sopra, possiamo dire che, a proposito del tempo di origine dei targûmim, la pratica di tradurre libri della Bibbia in aramaico ha avuto inizio per lo meno nell’epoca più recente del periodo del secondo Tempio. Questo dato è provato in modo inconfutabile dalla presenza a Qumran dei già citati Targûmîm di Giobbe e Levitico, nonché della traduzione di Genesi in aramaico. Altri elementi sicuri di datazione sono: la presenza di tutti i Targûmîm degli strati più antichi dell’haggadah e dell’halakah, che hanno paralleli con Giuseppe Flavio, Filone e il Nuovo Testamento.

 

3. Un esempio del metodo targumico

Può essere utile mostrare il metodo con cui il targûm procede, adducendo alcuni esempi, tra i quali scegliamo il celebre testo di Caino ed Abele, nella prima parte, quella che sfocia nell’omicidio (Gn 4,3-8). Proponiamo innanzitutto il testo biblico nella traduzione CEI (ossia la traduzione ufficiale della Chiesa cattolica italiana, e usato nella liturgia), nonché nella traduzione della Nuova Riveduta (la Bibbia ufficiale delle comunità evangeliche italiane, valdese, metodista e battista):

3Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; 4anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, 5ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. 6Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? 7Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu arentes». 8Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise (Gn 4,3-8 – traduzione CEI).

 

3Avvenne, dopo qualche tempo, che Caino fece un’offerta di frutti della terra al SIGNORE. 4Abele offrì anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, 5ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto. 6Il SIGNORE disse a Caino: «Perché sei irritato? e perché hai il volto abbattuto? 7Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!». 8Un giorno Caino parlava con suo fratello Abele e, trovandosi nei campi, Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l’uccise (Gn 4,3-8 – traduzione Nuova Riveduta),

 

Ed ora mostriamo il lavoro del Targûm Jerûšalmî 1

3E avvenne di lì a qualche tempo, il 14 di Nisan, che Caino offrì dei frutti della terra, alcuni semi di lino, come offerta di primizie davanti al Signore. 4E Abele offrì anche lui primogeniti del suo gregge ed il loro grasso, e questo fu piacevole davanti al Signore, e il Signore guardò con favore Abele e la sua offerta, 5ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. E Caino ne fu molto irritato e l’espressione del suo viso fu depressa. 6 E il Signore disse a Caino: Perché tu sei irritato e perché l’espressione del tuo volto è depressa? 7Non è forse vero che se tu fai il bene, il tuo peccato ti sarà perdonato? Ma se non agisci bene in questo mondo, il tuo peccato sarà conservato per il giorno del grande giudizio. Il peccato giace alla porta del tuo cuore, ma nelle tue mani io ho rimesso il controllo dei cattivi pensieri; il suo desiderio sarà verso di te, ma tu potrai dominarlo sia per la giustizia, sia per il peccato. 8E Caino disse a suo fratello Abele: Vieni, usciamo noi due nei campi. E avvenne che quando loro due furono usciti nei campi, Caino risposte e disse ad Abele: Io vedo che il mondo è stato creato per amore, ma che non è retto secondo il frutto delle buone opere e che vi è preferenza di persona nel giudizio. Perché la tua offerta è stata accolta con favore? Abele rispose a Caino dicendo: Il mondo è stato creato per amore ed è retto secondo il frutto delle buone opere e non vi è affatto nel giudizio eccezione di persona. Poiché il frutto delle mie opere è stato migliore e preferibile alle tue, le mie offerte sono state accolte con favore. Caino rispose e disse ad Abele: Non c’è né giudizio, né giudice né altro mondo! Non c’è ricompensa per i giusti né punizione per i cattivi. Su questa questione litigarono in aperta campagna. Allora Caino si levò contro suo fratello Abele e conficcandogli una pietra nella fronte l’uccise (Gn 4,3-8 – TgJ Gn 4,3ss [traduzione di S. P. Carbone – G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù, Introduzione alla LXX e alle antiche versioni aramaiche; prefazione di R. Le Déaut, Bologna, EDB, 1992, 105-106].

 

Vediamo la natura parafrastica del Targûm, che si esprime con aggiunte esplicative, che funzionano come una sorta di parentesi, lasciando trasparire in modo chiaro anche la traduzione del testo originale, che è qui riportato in caratteri non corsivi. In secondo luogo la parafrasi si espande nel testo in modo irregolare: talora un versetto è lasciato nel suo tenore quasi letterale, altre volte invece le espansioni sono tali da offrire una sorta di nuova narrazione, come avviene in questo caso al v. 8. Si può ben comprendere l’operazione attuata dal meturgeman che, in questo modo, evidenzia i punti a suo parere più importanti e bisognosi di chiarimenti. Così ad esempio non ritiene di dover spiegare quello che avvenne nel campo, perché, a prescindere dal particolare della pietra conficcata nella fronte di Abele, tutto si riduce a quel “lo uccise”. Ciò significa che l’autore dà per scontato e noto il risultato dell’azione; al contrario, introduce una discussione che dovrebbe motivare il fratricidio, con un acceso confronto sugli attributi di Dio, e cioè la sua giustizia (din) e la sua misericordia (rahamîm).

È interessante notare che sulla bocca di Abele viene messa la teologia ufficiale del rabbinismo (farisaico), riguardante il rapporto esistente tra le buone opere, la loro ricompensa e il mondo futuro. Sulla bocca di Caino si mette la teologia dei sadducei, che non credono nel mondo futuro e, in questo modo, negano la giustizia di Dio. Lo scontro tra i due gruppi è inevitabile, ed è quanto spiega la sorte di Abele, identificato con il “giusto”, il “pio” fariseo che, proprio per la sua condotta, è inviso ai sadducei, i quali ne procurano addirittura il martirio.

 

Abbiamo visto un esempio di un immane lavoro, opera di anonimi che hanno raccolto ed elaborato tradizioni interpretative preesistenti (il Targûm orale). Certamente il lavoro è stato il frutto di una selezione, di ampio dibattito scribale, rabbinico, che si è ritenuto utile trasferire nella traduzione parafrastica della sinagoga, e anche nella lettura personale a fini di devozione individuale. In definitiva, il Targûm vuole edificare, istruire e aiutare a pregare; per questo nei testi targumici sono frequenti le dossologie inserite in punti cruciali del racconto, le apostrofi dirette o indirette, la arentesi esplicita. Tutti questi elementi sono assenti nel testo biblico e vengono inseriti o come nuova creazione o come sviluppo di un indizio presente.

Riferiamo ancora un esempio: la dossologia che il TgJ Gn 35,9 inserisce nel testo ebraico che recita così: «Dio apparve un’altra volta a Giacobbe, quando tornava da Paddan-Aram, e lo benedisse». Ecco quanto inserisce il Targûm, sotto forma di dossologia posta sulla bocca di Giacobbe:

O Dio Eterno! Che il tuo nome sia benedetto per sempre e per tutti i secoli dei secoli! La tua bontà, la tua fedeltà, la tua giustizia, la tua potenza e la tua gloria non cesseranno per i secoli dei secoli. Tu ci hai insegnato a benedire lo sposo e la sposa a partire da Adamo e dalla sua compagna. Tu ci hai insegnato ancora a visitare i malati a partire dal nostro padre Abramo, il giusto, quando tu gli sei apparso nella piana della visione, mentre egli soffriva a causa della sua circoncisione. Tu ci hai insegnato anche a consolare coloro che piangono, dopo il nostro padre Giacobbe, il giusto. La morte sorprese Debora, la nutrice di Rebecca, sua madre, e Rachele morì presso di lui durante il suo viaggio. Si sedette allora emettendo lamenti e pianti e grandi grida di dolore. ma tu, nella tua bontà misericordiosa, gli sei apparso e l’hai benedetto, tu l’hai benedetto con le benedizione di coloro che piangono, e l’hai consolato. (S. P. Carbone – G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù, op. cit, 95).

 

L’attività del meturgeman non comporta sempre interventi così cospicui, ma perlopiù si verifica a livello di brevi glosse, comunque assai significative, perché veicolano i punti qualificanti della teologia rabbinica. Ancora a modo di esempio, mostriamo quanto avviene ad esempio nel caso del libretto di Giona, dove sono abbondanti le brevi glosse, spesso in funzione antiidolatrica, oppure come esortazioni alla preghiera, come riprese della tipologia dell’esodo, come affermazioni di fede nella risurrezione. Per il primo tema, si veda quanto avviene in Giona 1,5. Il testo ebraico dice: «I marinai impauriti invocavano ciascuno il proprio dio…», mentre la glossa del Tg Gio 1,5 afferma: «Pregarono ciascuno la sua divinità, ma videro che non c’era in essi vantaggio…». Sempre in Giona, quando il riottoso profeta viene buttato nelle acque marine e inghiottito dal grosso pesce, incomincia a pregare e qui ha l’occasione per ribadire la fede nella risurrezione. Infatti Giona 2,6-7 ha il seguente tenore nel testo ebraico: «6Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. 7Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio».

Il targumista glossa in questo modo: «Mi avevano sommerso fino alla morte le acque…»; come si vede, «fino alla morte» sostituisce «prende alla gola». Così diventa più evidente quanto afferma il Targûm nel v. 7: «È davanti a te far salire dalla distruzione la mia vita». In tal modo, attraverso l’evocazione dell’immagine della morte, viene evidenziata anche la fede nella risurrezione dalla morte. Per quanto poi riguarda la tipologia dell’esodo evocata da Giona, è chiarissima in Giona 2,6, dove nel Targûm si legge: «Mi avevano sommerso fino alla morte le acque, l’abisso era tutto intorno a me, il mare di Suf gravava sulla mia testa».

 

Il lavoro dei targumisti si rivela dunque particolarmente importante per comprendere il modo con cui il giudaismo, già prima dell’era cristiana e ancor più nei secoli successivi, legge le Scritture nella luce della tradizione rabbinica. Così il targûm contribuisce a radicare biblicamente la tradizione, liberandola da elementi spurî e fornendo nel contempo un commento alla Scrittura, che viene considerata come realtà dinamica, in progresso o, come dice appunto il rabbinismo, quale Miqra’, cioè ‘Lettura’. Il targûm enfatizza perciò il momento del lettore, quasi quale nuovo autore del testo letto.

 

4. Il rapporto tra Targûm e Midraš

Prima di entrare in alcuni chiarimenti circa il rapporto tra Targûm e Midraš è opportuno precisare il concetto di midraš. Il termine deriva dall’ebraico drš, che significa ‘ricercare’. Propriamente, il termine è piuttosto generico e si riferisce ad ogni ricerca sulla Scrittura più tecnica o più omiletica. Oggi è divenuto l’equivalente di ‘commentario’ sulla Scrittura, con un intento di attualizzazione e di ostensione delle ricchezze implicite. Usando il termine in accezione restrittiva, esso indica il commento ad un versetto, ad un passo o a un libro della Scrittura secondo determinate regole interpretative. È allora improprio considerare il midraš come un genere letterario, se non ad alcune precise condizioni, e cioè ripetute allusioni o riprese del testo commentato e l’inserimento, nel corso della discussione, di altri testi biblici ritenuti connessi, in modo primario o secondario. Per quanto riguarda l’edizione dei midrašîm come opere scritte, l’epoca è di molto successiva al Nuovo Testamento. Ciò non impedisce che vi siano molti elementi utili per intendere. Per i midrašîm bisogna distinguere almeno tre tipologie: il midraš pešer, il midraš halakah e il midraš haggadah.

a. Il termine pešer significa ‘interpretazione’; indica il tipo di midraš particolarmente in voga a Qumran. Concretamente, il testo biblico è seguito da una sua attualizzazione, introdotta a sua volta da una formula stereotipata del tipo “tale è il pešer del passo”, oppure “il suo pešer è riferito a…”. Il midraš pešer si limita ad identificare gli avvenimenti e le persone citate nella Scrittura con persone e avvenimenti del tempo dell’autore del midraš.

b. Il midraš halakah si riferisce ad un commento biblico riguardante le regole e le norme etiche e giuridiche di interesse individuale o comunitario

c. Il midraš hagadah (pl.: haggadôt; dal verbo ebraico haggid, raccontare) designa un metodo di commento in cui il passo biblico viene proposto con finalità omiletiche, sviluppando un racconto parallelo, cioè inserendo informazioni sul modo di vivere, leggende, parabole, proverbi, ricordi aneddotici. Tale metodo ha più chiaramente scopi edificanti, rispetto al midraš halakico. È anche il tipo di commentario rabbinico che ha riscosso più simpatia ed attenzione, proprio per l’originalità del procedimento e la ricchezza dei racconti proposti.

Per quanto riguarda il corpus dei midrašîm possiamo distinguere tre gruppi di opere:

a. Il midraš scolastico proviene dalle accademie e offre un’esegesi scrupolosa, versetto per versetto. In questo gruppo segnaliamo le seguenti opere: Mekilta de-r. Ishmael (commentario all’Esodo, III sec.); Mekilta de-r. Simeon ben Johai (commentario all’Esodo, IV-V sec.); Sifra (commentario al Levitico, III sec.); Sifre Numeri (III sec.); Sifre Deuteronomio (III sec.), Genesi Rabba (commentario alla Genesi, V sec.), Cantico Rabba (commentario al Cantico dei Cantici, VI/VIII sec.).

b. Il midraš sinagogale ha come luogo ideale il culto sinagogale, e ha lo stile non del commento versetto per versetto ma di una serie di omelie tenute a partire da determinati versetti scritturistici, letti nella liturgia sinagogale (Levitico Rabba - V/VI sec.; Pesiqta de-rab Kahana – III-V sec.; Pesiqta Gabbati; Tanhuma).

c. Il midraš narrativo non è caratterizzato dal luogo d’origine e di trasmissione dei testi, bensì dallo stile adottato, e cioè quello di una sorta di riscrittura della storia biblica, colmando lacune e rendendo edificanti alcune altre vicende. Tra questi midrašîm segnaliamo: Seder ’Olam Rabba (III-IV sec.); Pirqe de.rabbi Eliezer (VIII sec.); Sefer Josippon (X sec.); Midraš dei Dieci Comandamenti (VII-X sec.).

 

Chiarito il concetto di midraš, possiamo mostrare il passaggio dal targûm al midraš vero e proprio, notando come il targûm stesso testimoni gli inizi del metodo midrashico. Riprendiamo tale esempio dall’opera già citata di Carbone – Rizzi, a proposito di uno dei brani più amati dalla letteratura midrashica e targumica, cioè il racconto della ’Aqedah, la “legatura” di Isacco:

1Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 2Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». 3Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. 4Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. 5Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». 6Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme. 7Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». 8Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l'agnello per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt’e due insieme; 9così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull'altare, sopra la legna. 10Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. 11Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 12L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». 13Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. 14Abramo chiamò quel luogo: «Il Signore provvede», perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore provvede» (Gn 22,1-14 – traduzione CEI).

 

Ecco come il Targûm rende il medesimo testo (il testo riportato è tratto da S. P. Carbone – G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù, op. cit., 109-110):

 

E avvenne, dopo questi avvenimenti, che YHWH mise alla prova Abramo per la decima volta 2e gli disse: Abramo! Abramo rispose nella lingua del santuario, 3e Abramo gli disse: Eccomi…Isacco disse: Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? Abramo rispose: Davanti a YHWH sta preparato per lui l’agnello per l’olocausto. Se no sei tu l’agnello per l’olocausto. 4E andarono tutti e due assieme con un cuore perfetto. E vennero nel luogo che YHWH aveva indicato e Abramo costruì l’altare, dispose la legna, legò suo figlio Isacco e lo mise sull’altare sopra la legna. E Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio Isacco. Isacco prese la parola e disse ad Abramo suo padre: Padre mio, legami bene, in modo che io non ti impedisca e che la tua offerta non sia resa invalida, e che io non sia gettato nella fossa della perdizione del mondo futuro. Gli occhi di Abramo si volsero verso gli occhi di Isacco e gli occhi di Isacco si volsero verso gli angeli su in alto. Isacco li vide, 5ma Abramo non li vide. In quello stesso momento venne una voce dal cielo e disse: Venite a vedere i due soli che ci sono al mondo. L’uno immola e l’altro è immolato. Colui che immola non si rifiuta e colui che è immolato presenta la gola. E l’angelo di YHWH lo chiamò dai cieli e gli disse: Abramo! Abramo rispose nella lingua del santuario. Eccomi. Gli disse: Non stendere la mano sul ragazzo e non fargli alcun male, poiché io so che tu ora temi YHWH e non gli hai negato il tuo figlio, il tuo unico figlio. Abramo alzò gli occhi e guardò: ed ecco che vi era un ariete tra gli alberi, impigliato per le corna. Abramo l’andò a prendere e l’offrì in olocausto al posto di suo figlio. Allora Abramo rese culto e pregò il nome della Parola di YHWH e disse: Io ti prego, per il tuo stesso amore, o YHWH. Tutto è scoperto e conosciuto davanti a te. Ora, non c’è stata divisione nel mio cuore al momento in cui tu mi hai detto d’immolare Isacco mio figlio e di renderlo polvere e cenere davanti a te. Ma subito io mi sono levato all’alba e con zelo ho portato a compimento la tua Parola e con gioia ho eseguito la tua decisione. Ma ora, io ti prego per la tua misericordia, allorché i figli d’Isacco si troveranno in un tempo di difficoltà, ricordati della legatura d’Isacco loro padre ed ascolta la voce delle loro suppliche. Esaudiscili e liberali da ogni tribolazione. Così le generazioni future diranno: Sulla montagna del Santuario di YHWH dove Abramo offrì Isacco suo figlio, su questa montagna gli è apparsa la gloria della Presenza di YHWH.

 

Si può fare un confronto con Midraš Genesi Rabbah (il testo riportato è tratto da S. P. Carbone – G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù, op. cit., 110):

 

“Un’altra spiegazione: Disse R. Jishaq: Quando Abramo stava per legare Isacco suo figlio, questi gli disse: Padre, io sono giovane e ho paura che forse tremi il mio corpo per la paura del coltello, mi faccia del male e forse la macellazione non sia valida e non ti sia considerato quale sacrificio: dunque legami bene e subito. E legò Isacco suo Figlio (Gn 22,9). Può un uomo legare un figlio di 37 anni senza il suo consenso? Subito stese Abramo la sua mano (Gn 22,10). Stendeva la mano per prendere il coltello e dai suoi occhi scendevano le lacrime, e le lacrime che provenivano dalla compassione paterna cadevano sugli occhi d’Isacco, tuttavia egli era felice di eseguire la Volontà del suo Creatore, mentre gli angeli si raccoglievano in schiere al disopra, e che cosa dicevano? Sono deserte le strade ed è cessato il transito per le vie, è stata infranta l’alleanza, ha disprezzato la città (Is 33,8). Non si compiace più di Gerusalemme e del Santuario che aveva intenzione di dare in possesso ai discendenti di Isacco. Non si tiene conto dell’uomo. Non sussiste il merito di Abramo. Nessuna creatura è considerata ai suoi occhi. Disse Rabbi Aha: Abramo cominciò a meravigliarsi: questi fatti non sono altro che fatti che portano stupore! Ieri dicesti: la tua discendenza prenderà il nome da Isacco (Gn 21,12), ed oggi hai cambiato e hai detto: prendi tuo figlio (Gn 22,2). Ed ora tu mi dici: Non mettere le mani addosso al ragazzo! Gli disse il Santo, che egli sia benedetto: Abramo, non infrangerò mai la mia alleanza ed il detto delle mie labbra non muterò (Sal 89,35), la mia alleanza manterrò con Isacco. Quando ti ho detto: Prendi tuo figlio, non ti ho detto: Scannalo, ma: Fallo salire (gioco sul TE della radice ’lh, che può voler dire ‘olocausto’ o ‘salire’). Te l’ho detto per amore, l’hai fatto salire ed hai eseguito il mio ordine, ora fallo scendere”.

 

5. Caratteristiche peculiari della traduzione targumica

Abbiamo visto lo stretto rapporto esistente tra Targûm e Midraš, ma le due realtà non vanno confuse. Infatti il testo targumico resta sempre una “traduzione” e non è un commentario; è proprio questo il carattere che lo distingue dai midrašîm. Entrando poi nel merito delle caratteristiche specifiche della traduzione targumica, si tocca anche la questione dell’esistenza di una specifica ermeneutica targumica. Il grande studioso dei targûmîm, R. Le Déaut, ha indicato sei tratti tipici del Targûm: «traduzione connessa con la liturgia sinagogale, traduzione di carattere popolare, traduzione che deve essere compresa immediatamente, traduzione di un libro sacro, traduzione della Bibbia considerata come un’unità, traduzione che intende attualizzare la Bibbia» (citazione da M. Pérez Fernández, «La letteratura rabbinica», in G. Aranda Pérez - F. García Martínez - M. Pérez Fernández, La letteratura giudaica intertestamentaria, Edizione italiana a cura di D. Maggiorotti (= ISB 9), Brescia, Paideia Editrice, 1998, 486).

Sostando ora sul carattere popolare della traduzione targumica, si può notare come il meturgeman non comunichi al proprio uditorio il percorso esegetico che gli consente di pervenire ad una determinata alla traduzione. L’esegesi sta dietro la traduzione offerta, ma non è dunque esplicitata nel suo percorso midrashico.

Forniamo qui un esempio, quale illustrazione di questa scelta proforistica, traendolo dallo studio di M. Pérez Fernández:

«Num 11,2 dice: “Il popolo gridò a Mosè affinché intercedesse per loro”. L’integrazione consiste in una precisazione teologica che viene fornita al pubblico sinagogale come interpretazione ovvia. Dietro a questa integrazione vi è tuttavia un’interessantissima discussione tra i rabbi sull’esattezza e opportunità dell’espressione biblica (“il popolo gridò a Mosè”), che potrebbe far pensare che il popolo credesse che Mosè era Dio. In Sifre Num 86,1 la discussione si svolge come segue:

Il popolo gridò a Mosè (Num 11,2). Mosè poteva forse aiutarli? Non sarebbe stato più corretto dire: “Il popolo gridò al Signore”? Allora cosa intende dire il testo: “Il popolo gridò a Mosè”?R. Simeon era solito raccontare una parabola. A chi assomiglia questo? A un re in carne ed ossa che si adirò contro il figlio; il figlio si recò da un amico del re e gli disse: “Esci e intercedi per me davanti a mio padre”. Così allo stesso modo gli israeliti si recarono presso Mosè per chiedergli: “Intercedi per noi davanti all’Onnipotente”» (M. Pérez Fernández, « La letteratura rabbinica », op. cit., 486).

 

Il fatto poi che si traduca un testo sacro, porta a trasformare frasi poco convenienti, a mitigare espressioni ardite, ad introdurre frequentemente il passivo teologico, a rendere astratte alcune espressioni riferite a Dio e comportanti organi corporei (come, ad es., ‘braccio’ o ‘mano’ vengono tradotte talora con ‘potere’…). Non sempre, però, il Targûm evita gli antropomorfismi, e non mostra una tendenza regolare ed uniforme, riflettendo in ciò il fatto che dietro ad esso vi sta una pluralità di traduttori con sensibilità diverse.

Per quanto poi riguarda la concezione della Bibbia come unità, vuol dire che si cerca di spiegare la Bibbia con la Bibbia, armonizzando le contraddizioni e colmando le lacune, servendosi di altri testi biblici e sorvolando invece distanze cronologiche e spaziali.

Infine l’aspetto più singolare è certamente comunque il procedimento di attualizzazione a cui la traduzione tende. Si pensi, ad esempio, a quanto avviene nel Targûm di Neophiti I su Gn 3,15. Questo versetto nel TM suona così: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Il TM non ha significato messianico; la ‘stirpe’ di cui si parla è l’umanità e il termine usato è zerac (seme), che è al maschile; segue il dimostrativo hû’, che è anch’esso maschile, reso però dalla CEI con il femminile ‘questa’, in riferimento alla discendenza. Nei LXX il termine zerac viene reso con ‘spérma’, che è neutro, ma poi viene concordato con un autós, pronome personale maschile e singolare. Tutto ciò lascia trasparire una certa lettura messianica; la Vulgata giunge poi a tradurre il medesimo termine con ‘ipsa’ al femminile, introducendo un senso mariologico. Sul medesimo versetto il Targûm lavora in modo davvero caratteristico, intrecciando parenesi, dimensione escatologica e speranza messianica:

«Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra i tuoi figli e i suoi figli. E accadrà che quando i suoi figli osserveranno la legge e metteranno in atto i comandamenti, ti additeranno e ti schiacceranno il capo e di uccideranno. Ma quando abbandoneranno i comandamenti della legge, tu li additerai e colpirai il loro calcagno e li renderai infermi. Soltanto dei suoi figli avrà cura, e di te, serpente, non si curerà, poiché essi saranno pronti a riconciliarsi nel calcagno (= cureranno il calcagno) nel giorno del re messia» (citato in M. Pérez Fernández, « La letteratura rabbinica », op. cit., 489).

 

6. I vari Targûmîm

I Targûmîm pervenutici si distinguono in due forme essenziali: la palestinese, più antica, e la babilonese, più recente e rappresentante una revisione dei precedenti testi palestinesi, operata a partire dal V sec. d. C.

 

6.1. Il Targûm palestinese

Si designa con questo termine non una recensione unificata, bensì un complesso di tradizioni esegetiche che hanno come ambiente d’origine appunto la terra d’Israele. Questo Targûm non ha mai avuto un’edizione ufficiale e quindi non ci è mai pervenuto in una forma testuale autorevole; infatti i manoscritti prevenutici presentano profonde differenze. Oggi il Targûm palestinese è conosciuto in due forme: una detta erroneamente dello Pseudo-Jônātān, indicato con la sigla TPs. Gnt. o meglio con la sigla TgJ, che in realtà andrebbe letta come Targûm Jerûšalmî I; l’altra forma è incompleta, frammentaria, e ci è conservata in varianti marginali presenti nel Targûm di ’Onqelôs (che è un Targûm babilonese); si tratta del cosiddetto Targûm Jerûšalmî II. Questo Targûm, noto anche con la sigla Tg Fragm, conserva solo 800 versetti del Pentateuco.

Per quanto riguarda il TgJ I, secondo un grande esperto della letteratura targumica sarebbe oggi il risultato di una revisione del Targûm di ’Onqelôs (sigla Tg Onk); per ricostruire l’antico Targûm palestinese sono particolarmente utili i frammenti della Geniza del Cairo.

Il manoscritto di Neophyti I (sigla N), scoperto da Diez Macho nel 1956, all’interno della Biblioteca Vaticana, appare testimoniare il Targûm palestinese nella forma dei frammenti della Geniza del Cairo e il TgJ II.

 

6.2. Il Targûm babilonese

Il Targûm babilonese viene redatto a Babilonia ed ha i suoi testimoni più noti nel Targûm di ’Onqelôs, dedicato al Pentateuco, e nel Targûm di Jônātān per i Profeti. Il primo ha la sua redazione nel IV-V sec., mentre il secondo viene redatto nel VII sec. La redazione più tardiva non comporta necessariamente che i materiali presenti siano più recenti, in quanto il Targûm babilonese raccoglie molto spesso materiali più antichi, di origine palestinese.

Venendo al Targûm di ’Onqelôs, bisogna notare come sia stato munito della puntuazione masoretica e sia il frutto di una redazione accademica in lingua non vernacolare, ma letterariamente colta. Questo Targûm si impose progressivamente non solo nell’ambiente babilonese, ma anche in territorio palestinese, facendo cadere in disuso i precedenti Targûmîm.

Per il Targûm sui Profeti, detto Targûm di Jônātān, risulta meno letterale e più perifrastico rispetto a quello di ’Onqelôs; l’amore per la perifrasi è particolarmente evidente nei Profeti posteriori.

 

In sostanza, tra i due centri di Palestina e di Babilonia vi è stata un’osmosi profonda circa la produzione dei Targûmîm. Sembra infatti che una recensione dell’antico Targûm palestinese, comprendente la Tôrāh quanto i Profeti, sia stata portata a Babilonia prima della rovinosa fine della rivolta di Bar Kokhba, e quindi prima di una sua revisione galilaica. In Babilonia fu a sua volta profondamente revisionato per conformarlo meglio sia al testo ebraico che all’halakah del rabbinismo babilonese. Non si ebbe però una riscrittura del Targûm nell’aramaico babilonese: il Targûm rimase fondamentalmente nel suo “dialetto” originario.

Il movimento poi si inverte, quando i Targûmîm babilonesi ritornano all’ovest, affiancandosi nell’uso al Targûm palestinese ed esercitando su questo una profonda influenza, fino a sostituirlo.

 

Appendice: La letteratura mišnica e talmudica

Pagine tratte da E. Testa, Usi e riti degli ebrei ortodossi, Jerusalem, Franciscan Printing Press, 1978, 21-25.

La letteratura mišnica e talmudica ha per oggetto la tradizione orale, che fu creduta mosaica e tramandata dalla catena: Giosuè, gli Anziani, i Profeti, ma che, in realtà, fu una deduzione esegetica, più o meno letterale, e più o meno fondata sulla Sacra Scrittura. Gli organi di queste deduzioni furono le varie scuole rabbiniche, che vollero dare un fondamento biblico agli usi, costumi e riti dell’Ebraismo contemporaneo, specialmente quella di Tiberiade. Questo lavoro che può essere controllato oggi, va dal I sec. a. C. al II sec. d. C. (cfr. il Pirqê ‘Abôt e i Midrašim). Essendo vario e slegato, si sentì il bisogno di organizzarlo e nacquero da questa tendenza due interessanti raccolte.

 

1. La raccolta della Mišnāh

La prima raccolta fu fatta dal famoso Patriarca R. Giuda, detto Ha-Nasi, il principe, o Rebbenu Ha-Qadoš, ‘il nostro Maestro, il Santo’, che visse dal 135 al 220 d. C. e fu amico dell’imperatore Antonino Pio. Nella Mišnāh (o ripetizione della Legge), il grande Rabbino raccolse, in sei ordini (detti sedarîm), tutto il materiale rabbinico precedente, di solito di carattere legislativo (o halakico = che insegna a camminare) con qualche racconto di carattere narrativo (o aggadico).

Gli ordini sono:

a. lo Zeraim (cioè il seme) che ha per oggetto le leggi religiose che riguardano l’agricoltura e la fedeltà (’emûnāh) degli ebrei alla Provvidenza;

b. il Mo‘ed (determinare) che tratta delle stagioni e del calendario (leggi sulle feste, sul Sabato, ecc.);

c. il Našim (femmine) che tratta del matrimonio, del divorzio e dei voti degli sposati;

d. il Nezikin (danni), detto in antico Yešu‘ot (salute) che tratta della legislazione civile e criminale;

e. il Qodašim (le cose sacre) che regola i sacrifici, gli oggetti consacrati e i riti;

f. il Tohorot (purità) che tratta della purità legale.

Questi ordini contengono vari trattati (sono 63) e molti capitoli, divisi a loro volta in paragrafi, detti mišnayyot.

 

2. La raccolta di Tosefta

Una seconda raccolta, contemporanea e parallela alla prima, fu la Tosefta, in cui ci sono “addizioni” e complementi della Mišnah. Nel trattato Sanhedrin 86a questa raccolta è legata con R. Nehemiah. Essa ha gli stessi ordini della Mišnah e i medesimi trattati, esclusi il trattato ’Avót, Kinnim, Middot e Tamid. Alcuni paragrafi, chiamati Baraitot (dall’ar. Bārayyetā, per straniero, esterno), conservano tradizioni ed opinioni di Tannaiti non elencate nella Mišnah.

 

3. Il Talmud

Delle due raccolte fu preferita, come testo scolastico, la Mišnah, secondo il principio generale: “Se Rabbi (cioè Giuda il Santo) differisce da tutti gli altri colleghi, la sua opinione fa norma”.

Nacquero perciò, dal III al VII sec., vari commenti di essa, chiamati Ghemara. Questi commenti presto si arricchirono di materiale anche extra-mišnico, specialmente desunto dalla aggada: sicché la Mišnah fu accompagnata da parecchio materiale halakico, specialmente di R. Aqiba e di R. Meyr; e da parecchio materiale aggadico (quasi sconosciuto alla Mišnah), cioè di midrašim, di racconti leggendari e folkloristici, storici e biblici, esegetici e proverbiali, scientifici e religiosi.

Commenti che presero due forme parallele e differenti, secondo le accademie babilonesi e palestinesi.

 

3.1. Il Talmud di Gerusalemme

La Ghemara delle accademie di Cesarea e di Tiberiade formò il Talmud Ierušalmi, poi attribuito a R. Johanan ben Nappaha (morto però nel 279, molto prima di tanti commenti contenuti nell’opera!). La Ghemara di questo Talmud palestinese è scritta in ebraico e in aramaico occidentale, e contiene un settimo di materiale aggadico. Questo materiale sarà poi raccolto nell’opera detta Yefeh Mareh.

Solo gli ordini 1.2.3.4° della Mišnah posseggono la Ghemarāh di questo Talmud; il 5° ordine non è stato commentato e del 6° solo il trattato Niddāh. Il commento segue, lemma per lemma, la Mišnāh, con continue inserzioni e commenti dei rabbini Amoraim e con varie baraitot prese dalla Tosefta.

La migliore edizione stampata è ancora quella di Venezia del 1522.

 

3.2. Il Talmud Bably o babilonese

La Ghemara delle accademie babilonesi formò il Talmud propriamente detto, che si disse, dall’origine, Bably, babilonese. Questa opera farraginosa fu attribuita ai Rabbini Aši e Rawina.

La Ghemarāh di questo Talmud è scritta in ebraico e aramaico orientale e si conserva solo negli ordini 2.3.4 e 5 della Mišnah. Manca completamente nel 1° ordine, escluso il trattato Berakot e nell’ordine 6°, escluso il trattato Niddāh. Non hanno commento nemmeno i trattati Šekalim, ‘Eduyyot, e ’Avôt. Abbondante (circa 1/3) è il materiale aggadico di questo Talmud; materiale che sarà poi riunito da Jacob Ibn Haviv nell’opera detta En Yaakov.

La migliore edizione stampata è il Talmud babilonese di Wilna, 1886.

Dato che nel Talmud si trovano frasi piuttosto puerili nei confronti di Dio e offensive e blasfeme nei confronti di Cristo e di Maria santissima, si capisce in parte la reazione dei cattolici (specialmente dei convertiti dall’Ebraismo lungo i secoli).

Al contrario, per gli ebrei ortodossi, il Talmud, specialmente quello babilonese, costituisce il testo fondamentale della morale e della dogmatica dell’Ebraismo. Anzi diventò per essi una bandiera di distinzione da tutte le altre genti: “Il Santo, che benedetto sia (cioè Dio), dette a Israele due Leggi, la scritta e la orale. Gli dette la Legge orale, perché potesse distinguersi dalle altre nazioni. Questa non venne data per iscritto, affinché gli ismaeliti (cioè i Cristiani) non potessero appropriarsela, come fecero per la Legge scritta e dire di essere Israele” (Num. R. 14,10).

 

Bigliografia

M. J. McNamara, I Targum e il Nuovo Testamento; Le parafrasi aramaiche della Bibbia ebraica e il loro apporto per una migliore comprensione del Nuovo Testamento (= StBi[Deh] 5), Bologna, EDB, 1978.

S. P. Carbone - G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù; Introduzione alla LXX e alle antiche versioni aramaiche (= Testi e Commenti. La Parola e la sua Tradizione), Bologna, EDB, 1992.

E. G. Clarke, « The Bible and translation; The Targums », in Origins and method: Towards a new understanding of Judaism and Christianity. Essays in honour of John C. Hurd, Edited by B. H. McLean (= JSNT.S 86), Sheffield, Sheffield Academic Press, 1993, 380-93.

B. Barc, « Du temple à la synagogue; Essai d'interprétation des premiers targumismes de la Septante », in “Kata tou – Selon les Septante; Trente études sur la Bible grecque des Septante; En hommage à Marguerite Harl, Sous la direction de G. Dorival - O. Munnich, Paris, Les Éditions du Cerf, 1995, 11-26.

A. M. Somekh, « L'interpretazione ebraica della Bibbia nei targumim », in La lettura ebraica delle Scritture, a cura di S. J. Sierra (= BnS 18), Bologna, EDB, 1995, 59-73.

M. Pérez Fernández, « Il targum », in   G. Aranda Pérez - F. García Martínez - M. Pérez Fernández, La letteratura giudaica intertestamentaria, Edizione italiana a cura di D. Maggiorotti (= ISB 9), Brescia, Paideia Editrice, 1998, 467-492.

 

Alcune edizioni di testi targumici

Les Targoums: textes choisis, Trad. et prés. par P. Grelot (= CÉv.S n. 54), Paris, Les Éditions du Cerf, 1985.

R. Le Déaut, Targum du Pentateuque, traduction des deux recensions palestiniennes I. Genèse (= SC 245), Paris, Les Éditions du Cerf, 1978.

Targum du Pentateuque III: Nombres, éd. par R. Le Déaut - J. Robert (= SC 261), Paris, Les Éditions du Cerf, 1979.

Targum du Pentateuque. Tome IV. Deutéronome, traduction des deux recensions palestiniennes complètes, Avec introduction, parallèles, notes et index par R. Le Déaut, Avec la collaboration de J. Robert (= SC 271), Paris, Les Éditions du Cerf, 1980.

 

Per il midraš

Le Midrash, Présenté par É. Ketterer - M. Remaud (= CÉv.S n. 82), Paris, Les Éditions du Cerf, 1992.

G. Momigliano, « L'interpretazione omiletica: il Midrash-haggadah », in La lettura ebraica delle Scritture, a cura di S. J. Sierra (= BnS 18), Bologna, EDB, 1995, 127-45.

M. Pérez Fernández ,  « Il midrash », in   G. Aranda Pérez - F. García Martínez - M. Pérez Fernández, La letteratura giudaica intertestamentaria, Edizione italiana a cura di D. Maggiorotti (= ISB 9), Brescia, Paideia Editrice, 1998, 412-466.

M. A. Fishbane, « Types of Biblical intertextuality », in Congress Volume, Oslo 1998, Edited by A. Lemaire - M. Sæbø (= VT.S 80), Leiden – Boston – Köln, E. J. Brill, 2000, 39-44.

R. S. Sirat, « Introduzione al Midrash », Traduzione dal francese di B. Pedretti, in C. M. Martini et alii, Il Libro sacro. Letture e interpretazioni ebraiche, cristiane e musulmane, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002,