1. La versione greca: i Settanta (LXX)

di Patrizio Rota Scalabrini

 1. Origine dei LXX

Il nome di Settanta (sigla LXX) deriva dalla leggenda che narra della sua formazione, attestata nella Lettera di Aristea a Filocrate, oggi nota come Lettera dello Pseudo Aristea e datante verso il 100 a.C. (per il testo greco, con traduzione inglese, vedi in allegato), Si racconta che settantadue anziani (poi, nella denominazione comune, il numero fu ridotto a settanta con riferimento ai settanta anziani che accompagnarono Mosè al Sinai e ricevettero la Tôrāh (Es 24) di Gerusalemme, appartenenti alle dodici tribù d’Israele, furono invitati ad Alessandria d’Egitto da Tolomeo II Filadelfo per tradurre in greco i libri della Legge. La narrazione riferisce che il re accolse questi scribi ebrei ad Alessandria e si prostrò innanzi alla Legge sette volte. Una volta fatta la traduzione, gli scribi furono rimandati a casa con grandi doni.

L’autore di questa Lettera mostra di aver un’idea ben precisa del compito del giudaismo in ambienti di cultura ellenica: favorire un incontro tra questa e il patrimonio del giudaismo, che egli ammira incondizionatamente. Questa leggenda veicola comunque un interesse storico circa la diaspora alessandrina e la sua importanza nell’ebraismo del secondo Tempio. È probabile che la traduzione greca della Bibbia ebraica non sia avvenuta per impulso di qualche mecenate pagano – come lo sarebbe il Filadelfo – ma per necessità ed esigenze interne alla comunità giudaica di Alessandria. Essendo il greco la lingua praticata normalmente, si sentiva l’urgenza di disporre di una traduzione greca dei testi sacri per un uso liturgico, ma anche giuridico, in vista del funzionamento interno della comunità. Il racconto dello Pseudo Aristea, mostra innanzitutto una finalità propagandistica presso l’ellenismo: l’ebraismo è la vera religione che permette la convivenza tra giudei e greci. Tale convivenza sarà possibile adottando uno stile di vita ispirato alla filantropia. Ebbene lo Pseudo Aristea, che per un terzo descrive il ricevimento dei traduttori alla tavola del re, ricevimento durato sette giorni e contrassegnato da dialoghi quotidiani tra il re e gli ospiti, indica nella filantropia il contenuto stesso della sapienza biblica. Per l’uomo si tratta allora di imitare Dio nel governo del mondo, assumendo come modello la benevolenza divina verso gli uomini.

Ecco allora che Tolomeo II Filadelfo, dopo aver ascoltato i saggi ebrei, giunge alla seguente conclusione: «Mi avete fatto un grande favore esponendomi i vostri insegnamenti sul buon governo» (par. 294). È facile cogliere il profondo legame tra queste idee dello Pseudo Aristea e l’insegnamento di una delle opere qualificanti la teologia dei LXX, e cioè la Sapienza di Salomone, dove il destinatario ideale è il governante, che si dovrà ispirare alla moderazione e alla filantropia divine.

Tornando però al racconto dello Pseudo Aristea, bisogna notare come ci sia anche una precisa finalità apologetica: legittimare l’uso, nella liturgia, di una traduzione e non del testo in lingua originale, forse non più comprensibile a molti ebrei, nati e cresciuti ad Alessandria. Anzi, secondo vari interpreti, la finalità dell’opera non è principalmente quella propagandistico-missionaria, ma appunto questa finalità più interna alla vita della comunità. Non si ritenga però scontata ed ovvia l’impresa di tradurre in greco la legge del Signore, poiché i vari popoli non amavano tradurre le loro opere sacre in altre lingue. Ad esempio, gli egiziani portavano in processione i libri sacri senza mai farli tradurre e renderli accessibili ai greci. Si pensi inoltre al tentativo di preservare la sacralità stessa della grafia (gero-glifici). Impressiona poi il fatto che i babilonesi non abbiano tradotto i loro inni sacri per riti praticati altrove, e in lingua greca. Ciò che è avvenuto ad Alessandria è qualcosa di straordinario e mostra una comunità molto aperta nel momento stesso in cui vuole essere fedele alle proprie radici. È chiaro che, stando all’estero, si percepisce meglio quale sia la propria patria ‘portatile’, e la si riconosca appunto nel Libro.

Si deve notare che il racconto dello Pseudo Aristea dice di una traduzione della Tôrāh, cioè del Pentateuco. Gli altri libri vennero tradotti successivamente e si giunse al completamento di questa traduzione intorno alla metà o al massimo alla fine del II sec. a.C. Tuttavia non fu solo un’opera di traduzione perché, oltre ai libri del canone ebraica, la Bibbia greca raccoglie, con variazioni nei singoli manoscritti, le opere deuterocanoniche e anche alcune non accolte nel canone cattolico.

In sostanza, i LXX sono la ‘Bibbia di Alessandria’, cioè la Bibbia greca, veicolo importantissimo non solo per la comunità degli ebrei alessandrini, ma successivamente anche per gli autori del Nuovo Testamento e per la chiesa delle origini, fino a giungere alla chiesa dei Padri. In un certo senso quest’opera ha un enorme interesse ecumenico; bisogna infatti segnalare che i LXX restano il testo biblico che tutte le chiese orientali usano nella liturgia. L’interesse è poi teologico, perché i LXX sono in gran parte una traduzione che crea anche un nuovo linguaggio, pronto per l’uso cristiano.

Infine è evidente l’interesse filologico, in quanto in molti casi il testo greco aiuta a ricostruire la Vorlage (testo originario) del testo ebraico, usato dai traduttori; l’interesse è tanto più significativo se si tiene presente la pluralità testuale caratterizzante la Bibbia ebraica fino al 70 d.C.

http://www.bicudi.net/materiali/traduzioni/lxx_1.jpg

MS 2649. Papiro, Oxyrhynco?, Egitto, ca. 200 a.C., 8 f f., 20x10 cm, colonna singola, (16x8 cm), 22-23 linee in greco semi-corsivo (http://www.schoyencollection.com/GreekNT.htm)

 

2. Le antiche revisioni dei LXX

La situazione precedente il 70 d.C. conosce l’esistenza di un pluralismo testuale, caratterizzante l’ebraismo fino alla caduta del secondo Tempio. In Israele, prima della fine del secondo Tempio, l’interesse per il testo greco è constatabile nei frammenti trovati a Qumran. I tentativi di revisione del testo dei LXX sono provati da manoscritti trovati in Egitto e in Palestina. In Egitto è stato ritrovato, per esempio, il P. Fuad 266 (con il testo di Dt 31,36-32,7) e il P. 458 della “John Rylands Library of Manchester University” (con Dt 22,23-24.3; 25,1-3; 26,12.17.19; 28,31-33).

Da questa data però comincia a venir meno tale pluralismo, poiché la comunità religiosa giudaica viene costituendosi ad opera dei Tannaîm (= i ripetitori). Costoro adottano un testo consonantico che in definitiva non coincide con la Vorlage adottata dai LXX, la quale risulta perciò diversa rispetto al testo ebraico accettato dai Tannaiti.

Si avverte perciò la necessità di rivedere il testo greco alla luce di questo testo ebraico ufficiale. Ad acuire il bisogno di una revisione della traduzione dei LXX da parte del mondo ebraico interviene certamente anche il contrasto via via sempre più profondo tra sinagoga e chiesa, la quale adotta invece i LXX e cerca appoggio in questa traduzione per una sua lettura cristologica del Primo Testamento.

Tutto questo non deve però portare a pensare che tali revisioni siano state motivate solo da una polemica anticristiana; anzi, è probabile che la revisione del testo dei LXX sia iniziata in Palestina prima della formazione del Nuovo Testamento, dando vita ad una revisione detta Kaighé, certamente anteriore a Teodozione.

1. Se si segue la tesi di Barthélemy (Les devanciers d’Aquila, Leiden, E. J. Brill, 1963), Teodozione (Θ), che solitamente è ritenuto l’ultimo dei ‘revisori’ dei LXX, avrebbe invece approntato una sua revisione tra il 30 e il 50 d. C., che sarebbe anche stata usata dal Nuovo Testamento. Per alcuni si tratterebbe di Jonathan, la stessa persona cui vengono attribuiti i targumîm dei profeti. Quella di Teodozione è comunque una revisione ebraizzante dei LXX, con tentativo di armonizzazione con il testo ebraico, mediante l’eliminazione di tracce di midrašîm e forte uso della traslitterazione dei nomi. In ogni caso si tratta di una ebraizzazione parziale che mantiene ad esempio la finale lunga di Giobbe, le aggiunte dei LXX a Daniele e anche il libro di Baruc. Questa traduzione testimonia peraltro un canone lungo, anteriore al concilio rabbinico di Jamnia ed è priva di ‘difese’ anticristiane che invarranno pesantemente nelle successive revisioni. Qualunque sia la datazione dell’opera di Teodozione, possiamo riconoscere come questa abbia contribuito a realizzare il passaggio dalla Bibbia ebraica a una nuova linguistica, quella greca; non a caso Teodozione è il più usato da Origene nella sua Exapla, la più importante opera di Origene sulla critica testuale biblica dell’Antico Testamento, realizzata tra il 228 e 245. Essa è disposta in sei colonne, donde il nome. Accanto al testo ebraico in caratteri quadratici o aramaici (prima colonna) viene posta la trascrizione in greco del testo ebraico, particolarmente difficile poiché a quei tempi non vi era ancora un sistema di vocalizzazione. Nella terza colonna viene posta la revisione di Aquila, di Simmaco nella quarta, la traduzione dei LXX nella quindi e di Teodozione nella sesta (una nuovo edizione critica della Exapla di Origene sta per essere preparata dall'Exapla Insittute).

La Exapla di Origene si presentano così:

Testo ebraico

Traslitt. in greco

Aquila (A)

Simmaco (Σ)

LXX

Teodozione (Θ)

           

2. Un’altra revisione è quella di Aquila (A). Costui era un giudeo proselita del Ponto che, sotto la guida di Rabbi Aqiba, revisionò in modo materialmente letterale sull’ebraico il testo greco, rendendo parola per parola, verso il 100 d.C. Nel giudaismo la revisione di Aquila fu la più utilizzata. Più che di una nuova traduzione è appunto una revisione.

3. Segue il lavoro di Simmaco (Σ), un samaritano convertito al giudaismo, che fece una revisione fedele e letterale, ma più elegante dal punto di vista della lingua greca.

 

3. Le edizioni cristiane dei LXX

Come abbiamo visto, la più celebre edizione antica dell’opera dei LXX è quella delle Esaple di Origene. Di fatto, per quanto riguarda i LXX, egli segnalava in modo sistematico le differenza tra i LXX e il testo ebraico e, in alcune parti, riportava anche altre traduzioni anonime accanto a quelle più note, alle quali era dedicata una colonna specifica. Questa recensione viene chiamata origeniana, ma di essa rimangono solo frammenti e citazioni. Dal punto di vista dei risultati di una critica testuale del testo dei LXX «l’opera di Origene, in fin dei conti, provocò tra i differenti testi una confusione e una contaminazione ben maggiore di quelle da lui stesso conosciute. L’enorme difficoltà implicita nella trascrizione delle sei colonne dell’Esapla o anche soltanto delle quattro colonne in greco contribuì a che quest’opera non potesse mai essere copiata integralmente e arrivasse a perdersi, eccettuati alcuni frammenti» (L. Alonso Schökel et alii, La Bibbia nel suo contesto, Edizione italiana a cura di A. Zani (= ISB 1), Brescia, Paideia Editrice, 1994, p. 414). Una seconda recensione del testo dei LXX venne eseguita da Esichio (m. 311). Altra edizione è invece quella attribuita a Luciano di Antiochia (m. nel 312), molto usata dai Padri antiochena; essa viene chiamata solitamente ‘lucianea’ o ‘antiochena’, e conserva un testo molto antico dei LXX, cui peraltro è molto vicina la Vetus Latina. Oltre a queste edizioni, che ebbero ampia diffusione a partire da Cesarea e da Antiochia, è da ricordare quella di Atanasio di Alessandria, della quale forse il codice Vaticano (B) sarebbe un testimone.

 

 

4. I manoscritti antichi dei LXX

I codici dei LXX sono classificati, come gli altri, in maiuscoli/onciali e minuscoli/corsivi. I corsivi, benché più recenti, possono però ospitare forme testuali non più conservate negli onciali. I più importanti manoscritti onciali sono il Vaticano, il Sinaitico entrambi del IV sec., e l’Alessandrino del V sec.. Ora possediamo anche frammenti di manoscritti più antichi, come il papiro Rylands 458, del II o I sec. a.C., contenente alcuni testi deuteronomici. Vi sono poi i frammenti di Qumran e i papiri Chester Beatty del II sec. d.C., con frammenti di Numeri e di Deuteronomio (per immagini e trascrizioni di questi manoscritti, clicca qui). Inoltre abbiamo le citazioni della versione dei LXX negli autori ebrei Filone e Giuseppe Flavio, nonché nei Padri greci.



5. Il valore culturale dei LXX

Come considerare i LXX: una semplice traduzione o qualcosa di più? Ebbene, uno studio delle loro caratteristiche interne evidenzia come vi sia stato un grosso lavoro di attualizzazione del messaggio biblico, attualizzazione che non ha disdegnato l’applicazione del metodo midrashico (sia il midrash pesher, sia il midrash haggadah, sia il midrash halakah).

Questa operazione ha un valore teologico intrinseco, poiché mostra la consapevolezza del valore e dell’attualità del messaggio di un testo sottoposto alla traduzione e all’operazione interpretativa del midrash.

Entrando poi nella questione del valore culturale dei LXX, possiamo dire che la traduzione della Bibbia in greco consegue un doppio risultato: da un lato fornisce al giudaismo nuovi strumenti per precisare e sviluppare il suo pensiero, dall’altro conferisce un apporto giudaico all’ellenismo stesso.

Il primo aspetto appare evidente, poiché l’assunzione di una lingua comporta sempre, in qualche modo, anche la visione del mondo e della vita di cui una lingua è impregnata e di cui è veicolo. In un certo senso, per i giudei decidere di tradurre in greco i loro testi sacri significa anche aprirsi ad un processo di ellenizzazione del giudaismo, specialmente di quello della diaspora, che trova nell’impresa dei LXX un tornante decisivo.

Sarebbe però erroneo pensare che questo processo abbia comportato solo un influsso della lingua greca e della cultura ellenistica sul mondo giudaico, in quanto questa ellenizzazione del giudaismo è stata in realtà guidata da categorie tipicamente ebraiche. Il greco dei LXX si carica infatti di ulteriori significati, provenienti dal contesto culturale semitico, e si colorisce soprattutto di un’intensa connotazione religiosa giudaica.

Certamente il greco dei LXX si presta bene a rendere possibili nuove distinzioni elaborate dalla raffinata teologia rabbinica, e su queste basi si sviluppa comunque anche il linguaggio delle successive revisioni o recensioni, dalla kaigé alle revisioni di Aquila, Simmaco e Teodozione .

In definitiva, i LXX costituiscono un fattore attivo nell’evoluzione della tradizione ebraica. Infatti attraverso la traduzione in greco, la terminologia ebraica, più connotativa ma anche più vaga, può trovare la possibilità di precisare meglio i propri concetti e di aggiungervi ulteriori sfumature. Basti qui fare due esempi. Il termine éleos traduce solitamente l’ebraico h)esed, che indica la fedeltà divina all’alleanza. Il termine greco, comunque, evidenzia la connotazione della misericordia di YHWH per la miseria umana e sottolinea maggiormente la trascendenza di tale compassione divina. Un altro dei tanti esempi potrebbe essere quello della traduzione greca dei termini comportanti il sema dello ‘sperare’ (qwh; bt)h)), distinguendo tra una speranza non fallace perché riposta in Dio (’elpízein) e una speranza decettiva, illusoria, perché riposta negli uomini o nelle cose (pepoithēnai).

Concretamente, nella traduzione i LXX traslitterano spesso i termini ebraici coniando nuove parole in greco, e le parole nuove portano con sé inevitabilmente concetti nuovi. Altre parole greche subiscono invece profonde evoluzioni interne, come nel caso del verbo teleióô (portare a compimento) che, se riferito all’ambito sacerdotale, diventa un ‘consacrare’, alludendo al fatto che il rito di consacrazione dei sacerdoti si compiva riempiendo le loro mani della carne sacrificale da offrire sull’altare.

È poi evidente che per i libri composti direttamente in greco, la presenza di concetti coniati in questa lingua (come, ad es., athanasía = immortalità; aphtarsía = incorruttibilità) comporta un influsso sul pensiero ebraico e, in un certo senso, un arricchimento. Qui però si pone la questione un po’ ideologica, che ritiene l’incontro del pensiero ebraico con quello greco una commistione ambigua, una decadenza; ideologica è pure l’altra tesi, che ritiene a priori un arricchimento per l’ebraismo la consegna di concetti tratti dal mondo ellenistico.

Ma veniamo ora al significato globale da riconoscersi alla traduzione dei LXX. L’evento non sta innanzitutto nel fatto di tradurre; lo stesso testo sacro ebraico non presenta infatti una sola lingua, ma due, e perciò è rotta, per così dire, l’equivalenza fondamentalista tra una forma linguistica della rivelazione e la rivelazione stessa. Bisogna inoltre ricordare che il giudaismo ha sentito il bisogno di tradurre nella lingua corrente, l’aramaico, i propri testi sacri. Ma i targumîm, in definitiva, non uscivano dall’ambito della sinagoga del mondo ebraico. Tradurre in greco, invece, significava confrontarsi con la cultura e con il mondo dei pagani, senza chiudersi nel proprio mondo. In questo senso i LXX rappresentano un’apertura universalistica coraggiosa, che precede e prepara l’avventura cristiana.

Si può allora capire la questione sollevata dai Padri circa l’ispirazione dei LXX. Dire che una traduzione è ispirata da Dio è come riconoscerla nella sua produzione originale, e non semplicemente come una duplicazione della precedente scrittura. In ogni caso i LXX hanno costituito la più colossale attualizzazione del messaggio biblico da parte di credenti giudei e hanno fornito al cristianesimo un’imprescindibile base per l’universalismo della sua missione.

 

Bibliografia

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S. P. Carbone - G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù; Introduzione alla LXX e alle antiche versioni aramaiche (= Testi e Commenti. La Parola e la sua Tradizione), Bologna, EDB, 1992, pp. 23-77.

G. Dorival - M. Harl - O. Munnich, La Bible grecque des Septante. Du judaisme hellénistique au christianisme ancien, Du Cerf, Paris 1994.

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N. Fernández Marcos, La Bibbia dei Settanta. Introduzione alle versioni greche della Bibbia, Edizione italiana a cura di D. Zoroddu (= ISB.S 6), Brescia, Paideia Editrice, 2000.

 

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