3. Le traduzioni di origine cristiana

di Patrizio Rota Scalabrini

 
La Bibbia non mostra al proprio interno una decisa sacralizzazione della lingua in cui viene redatto il testo riconosciuto poi come ‘sacro’, ma testimonia la possibilità di più lingue in cui si comunichi la rivelazione divina e, nel caso specifico, accanto all’ebraico bisogna registrare l’aramaico biblico.
Nonostante le comprensibili resistenze, la traduzione del testo biblico in un’altra lingua - come il greco o come l’aramaico - è un evento non tardivo, al punto che esso si dà mentre è ancora in atto il processo di canonizzazione del testo biblico. Questo significa che l’attenzione, ancora prima che sulla forma e sul veicolo dell’espressione linguistica, si è rivolta al referente, al messaggio, proprio perché la Bibbia è, per così dire, ‘eccentrica’, non ha dentro di sé il proprio centro, ma si presenta come rimando al rivelarsi del mistero di Dio nella storia e, per il Nuovo Testamento, al rivelarsi di Dio nell’evento di Gesù, il Cristo.
Quando poi il patrimonio d’Israele, la Bibbia ebraica, viene accolta e riconosciuta come Scrittura normativa dalla nuova comunità religiosa che, originata nel giudaismo, si diffonde nel mondo dei Gentili, il fatto della traduzione del testo canonico conosce un’ulteriore dilatazione e intensificazione. Nascono così le versioni di origine cristiana (che ovviamente includono anche il Nuovo Testamento). Tali versioni sono quelle latine (la Vetus Latinae la Vulgata), quelle siriache (Diatessaron, Peshitta, Vetus syra) e quelle copte. Oltre a questo sorgono anche la versione armena, georgiana, etiopica, gotica, paleoslava, e poi tutte le altre in lingue antiche.
Dal punto di vista filologico molte di esse hanno una grande importanza, anche per il fatto che costituiscono una sorta di monumento culturale della lingua in cui sono state redatte.
Dal punto di vista, invece, della diffusione di una specifica traduzione e dell’influsso culturale esercitato su una pluralità di ambienti, certamente si segnalano per la loro importanza la Vetus Latina e, ancor più, la Vulgata.
 
1. La Vetus Latina
La «versione latina antica» è generalmente nota come Vetus Latina. Si tratta non di un’unica traduzione, ma dell’insieme di traduzioni anteriori alla versione Vulgata, eseguita da Gerolamo alla fine del IV secolo. Per avere i primi indizi di una traduzione latina antica del testo biblico, dobbiamo riferirci ai testi dei Padri latini. Così, negli scritti di Tertulliano ritroviamo numerose citazioni bibliche, dall’origine incerta, che lasciano il dubbio circa l’esistenza di una traduzione latina.
Qualche decennio più tardi, però, Cipriano di Cartagine (martirizzato nel 258 d.C.), per le sue citazioni ricorre ad una traduzione latina il cui testo coincide con quello di manoscritti posteriori. Questa versione, per quanto si riferisce al Primo Testamento, traduce non dall’ebraico, ma dal greco, da un testo anteriore alla recensione origeniana. Tale versione viene detta, per la sua origine, africana. Il testo africano subisce adattamenti al linguaggio liturgico delle varie comunità celebranti in lingua latina, in Italia, in Gallia, in Spagna, per cui si assiste alla circolazione di diverse recensioni, che denominiamo europee. Le discordanze tra di loro, più che all’esistenza di varie traduzioni, attestano l’esistenza di recensioni molto libere, cosa che porterà Agostino a lamentarsi della confusione testuale regnante (vitiosissima varietas), tale da essere intollerabile.
Per quanto riguarda la lingua utilizzata per questa traduzione latina, si era preferito l’idioma vernacolare, molto distante dal linguaggio letterario. Ecco perché si pensò ad una sostituzione con un’altra traduzione, peraltro non totale, cosa alla quale procedette Gerolamo con la sua Vulgata. L’importanza della Vetus Latina, oltre che dal punto di vista strettamente biblico, sta nel fatto che è una testimonianza assolutamente rilevante per la storia della lingua latina e del linguaggio liturgico nelle chiese d’Occidente.
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Codex Bobbiensis (©vetuslatina.org)
 
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Codex Monacensis (©vetuslatina.org)
L’attestazione manoscritta della Vetus Latina è piuttosto precaria, in quanto i manoscritti del Primo Testamento sono scarsi e frammentari. Merita una speciale attenzione il Codex Gothicus Legionensis, che è un manoscritto della Vulgata, del X secolo, ma che fornisce lezioni marginali tratte dalla Vetus Latina. Per la conoscenza di quest’ultima sono importanti anche le citazioni dei Padri, qualche volta molto libere ma talora fedelissime, come è il caso delle opere di Lucifero di Cagliari o dello Speculum de Divinis Scripturis dello Pseudo-Agostino.
La rilevanza della Vetus Latina, per i problemi della critica testuale del Primo Testamento, è sempre più riconosciuta, come mostra la bibliografia specificamente dedicata all’argomento.
Concretamente, il monumento testuale della Vetus Latina, costruito ricorrendo significativamente alle citazioni, resta ancora l’opera in tre volumi di P. Sabatier, edita a Reims nel 1745-49, e a Parigi nel 1751 con il titolo Bibliorum Sacrorum Latinae Versiones Antiquate seu Vetus Italica.
Diverso è invece il discorso della Vetus Latina del Nuovo Testamento, di cui si conservano 32 manoscritti incompleti dei vangeli, 12 degli Atti degli Apostoli, 4 dell’Epistolario paolino, e 1 dell’Apocalisse.
Per altre immagini, approfondimenti e edizioni della vetus Latina si veda: www.vetus-latina.de e www.vetuslatina.org.
 
2. La Vulgata
Questo termine è invalso dal XVI secolo per indicare la traduzione fatta da Gerolamo verso la fine del IV secolo e inizio del V. La ragione è che essa divenne la versione divulgata e ufficiale per la chiesa latina. La traduzione di Gerolamo, infatti, soppianta il testo della Vetus Latina, proprio perché lo stile di questa sembrava troppo rozzo e la pluralità di varianti esistenti generava una confusione ritenuta inaccettabile. Inoltre dobbiamo ricordare che il cammino di Gerolamo era stato spianato (almeno per il Nuovo Testamento) dai grandi manoscritti onciali greci, che rispondevano alle esigenze degli ambienti colti. Gerolamo, che aveva ricevuto la sua formazione nelle migliori scuole esegetiche dell’Oriente e aveva appreso l’ebraico da rabbini giudei, ebbe la possibilità di conoscere, durante il suo soggiorno a Betlemme (385-420), la biblioteca che Origene e poi Eusebio avevano creato a Cesarea. Non è invece storicamente fondata la notizia che nel 382 papa Damaso l’avesse ufficialmente incaricato di una traduzione di tutta la Bibbia; tale incarico, al massimo, può aver riguardato il testo dei quattro vangeli. Il lavoro di Gerolamo non è dunque l’esecuzione di un piano stabilito, né il frutto di un metodo omogeneo, ma piuttosto di istanze e di adattamenti diversi.
Entrando nei dettagli, la prima versione del Salterio fu compiuta da Gerolamo sul testo greco, e non sul testo ebraico. Essa andò ben presto perduta e non è identificabile né con il Salterio romano – usato tutt’oggi nella Basilica di S. Pietro – né con il Salterio Gallicano.
Gerolamo, dopo aver riveduto la versione della Vetus Latina della Genesi (392), cambiò metodo di lavoro e cominciò ad operare direttamente sul testo ebraico e a tradurre da esso. Emerge quindi il principio importantissimo, dal punto di vista della traduzione, di ritornare al testo originale, all’hebraica veritas. Questo principio, secondo alcuni autori, sarebbe stato per Gerolamo, almeno in una prima fase, più un richiamo alle revisioni giudaiche della LXX, che al testo ebraico come tale. Comunque Gerolamo si avvicina sempre più al testo ebraico e inizia a lavorarci con la versione di 1-2 Samuele, 1-2 Re, oppure con la versione dei libri profetici. Tra i libri tradotti in seguito vi è il Salterio iuxta Hebraeos, Giobbe, 1-2- Cronache, Esdra-Neemia, i libri di Salomone, l’Ottateuco (Pentateuco + Giosuè + Giudici + Rut) ed Ester.
Gerolamo non tradusse i libri deuterocanonici del Primo Testamento, conformemente al suo principio della hebraica veritas, con l’eccezione di Tobia e di Giuditta (che tradusse da un testo aramaico), nonché le parti deuterocanoniche di Daniele, tradotte dalla versione greca di Teodozione, nonché le aggiunte greche di Ester. Sarà la tradizione manoscritta della Vulgata ad incorporare traduzioni latine degli altri testi deuterocanonici.
Ci si consenta anche una parola sulla traduzione del Nuovo Testamento da parte di Gerolamo. Egli iniziò la versione dei vangeli, quella che poi si diffuse maggiormente attraverso la liturgia, nel momento stesso in cui avviava la traduzione del Salterio dal testo ebraico. La traduzione dei vangeli, in questo senso, è ancora opera di un principiante ed è nel complesso di buon livello qualitativo, anche se Gerolamo non fu del tutto fedele al principio di mantenere il più possibile il testo della Vetus Latina,in quanto testo tradizionale della liturgia. Questo spiega le difformità presenti nella traduzione dei testi evangelici circa locuzioni identiche. Per quanto poi riguarda il testo greco, Gerolamo si attenne fondamentalmente ad un testo alessandrino. La traduzione del resto del Nuovo Testamento, non avvenne tutta ad opera di Gerolamo, anzi, molti studiosi ritengono che Gerolamo si sia limitato a darne l’impostazione e l’avvio, e vi abbia operato concretamente Rufino il Siro, che seguì i princìpi del maestro in modo sistematico, e completò l’opera a Roma nel 405.
 
2.1. La storia della Vulgata
La reazione ecclesiale alla versione di Gerolamo non fu, all’inizio, di plauso, ma ostile, e solo con il sec. VII essa si impose nella chiesa di Roma, fino a divenire concretamente il testo ufficioso. Di fatto la Vulgata si diffuse in tutto l’Occidente, come è provato dai numerosissimi manoscritti che ancora oggi possediamo (oltre 8.000; contando i manoscritti frammentari più piccoli, il numero sale ad oltre 30.000). Tutta la vicenda testuale della Vulgata, a partire già dalla complessità della sua origine, rende assai difficoltosa la ricostruzione di un testo originale. I manoscritti, comunque, vengono classificati secondo le regioni di provenienza in tre grandi famiglie: italici, spagnoli, insulari (irlandesi e anglosassoni). A queste famiglie si aggiungono anche i manoscritti gallici del IX secolo, che riportano le recensioni di Alcuino e Teodolfo. I più importanti manoscritti sono comunque quelli italici, visto che la Vulgata si diffuse specialmente in Italia. I manoscritti della Vulgata vengono designati con la lettera maiuscola che indica l’iniziale del loro nome: A (Amiatinus o Ottobanius), F (Fuldensis), G, M, R, Z, Σ, e il palinsesto di Autun.
 
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Codex Amiatinus (VIII sec.)
Già prima del Concilio di Trento la Vulgata vede una serie di edizioni a stampa (oltre un centinaio dalla prima opera dello stesso Gutenberg, la cosiddetta Bibbia Mazarina) (per sfogliare la Bibbia di Gutenberg, clicca qui). Vi furono i primi tentativi di edizioni critiche, nel senso che si realizzarono su codici antichi. Notevoli sono la Complutense (1522) nell’omonima poliglotta, e l’edizione della poliglotta parigina di Roberto Estienne.
Già alla luce di questa ricca vicenda della recezione del testo della Vulgata e del suo larghissimo uso, si può intuire quanto sia grande il suo significato culturale. Anche il suo valore intrinseco non è affatto trascurabile in quanto in tale traduzione sono confluite le antiche tradizioni testuali ed esegetiche del mondo ebraico, greco e latino, sia per quanto riguarda la sua presenza nella divulgazione del testo biblico in tutto l’Occidente.
Certamente il diffondersi del testo portò anche delle contaminazioni e dei processi di corruzione, a cui si cercò di riparare con le revisioni di Cassiodoro (m. 570) e di Alcuino (m. 804). Quest’ultimo apportò forti tracce di ciceronianismo al testo della Vulgata. Ciò per un verso risponde al fatto che Gerolamo non disdegnò di ispirarsi al latino classico, dall’altro ignora che Gerolamo volle conservare più ‘volgarismi’ di quanti Alcuino fosse disposto ad accettare. Peraltro le revisioni medievali contribuirono non alla restituzione del testo geronimiano, bensì causarono un ulteriore processo di corruzione testuale, che affligge gran parte dei manoscritti della Vulgata.
Bisogna aspettare il Rinascimento per una reazione alla corruzione del testo della Vulgata, a cominciare dal lavoro di Lorenzo Valla (1440). Il nuovo clima culturale, dove cresce il movimento di ritorno al testo originale, favorisce questa restituzione del testo della Vulgata. D’altra parte proprio il medesimo movimento favoriva ed esigeva il ritorno al testo greco originale (almeno del Nuovo Testamento).
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Vulgata Sixtina del 1590
 
2.2. La Vulgata come Bibbia ufficiale della chiesa cattolica: il Concilio di Trento
La Vulgata conosce il momento più significativo della storia della sua diffusione con il Concilio di Trento. Davanti al proliferare di nuove traduzione bibliche che veicolavano anche lo spirito della Riforma protestante, il Concilio di Trento prese una determinazione circa la Bibbia ufficiale della chiesa cattolica latina.
Così si ebbe uno specifico decreto (Insuper), emanato nella IV sessione dell’8 aprile 1546: «Lo stesso sacrosanto Sinodo, considerando che non sarà di poca utilità per la chiesa di Dio sapere chiaramente tra tutte edizioni latine in circolazione qual è l’edizione autentica dei libri sacri (quaenam pro authentica habenda sit), stabilisce e dichiara che l’antica edizione della Vulgata, approvata (probata) dalla stessa chiesa da un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spiegazione, e che nessuno, per nessuna ragione, può avere l’audacia o la presunzione di respingerla» (Enchiridion Biblicum 61).
Il termine “autenticità” usato dal Concilio darà origine a vive discussioni, cui porrà fine la Divino afflante Spiritu di Pio XII, che ne chiarirà il significato: authentica è da intendersi in senso giuridico, e cioè costituisce un testo di forza probativa in maniera di fede e di costumi. “Autentica” non significa però “autenticità critica” che, nel caso delle versioni, significa l’attendibilità e la fedeltà rispetto al testo originale in tutti i suoi punti.
In definitiva premeva al Concilio di Trento affermare la conformità sostanziale del testo in uso nella liturgia e nell’insegnamento. Il Concilio di Trento aveva richiesto un’edizione critica ufficiale della Vulgata («Il Concilio prescrive e stabilisce che d’ora in poi l’antica edizione della Scrittura detta ‘Vulgata’ sia stampata secondo la versione più corretta…» [Emendatissime imprimatur] - EB 63).
 
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Vulgata Clementina del 1592
 
Ovviamente la richiesta non può essere soddisfatta immediatamente e si rende necessaria una lunga revisione, complicata dall’intricata storia della trasmissione del testo, che porta alla pubblicazione da parte di Sisto V (la Vulgata Sistina del 1590) e di Clemente VIII (Vulgata Clementinadel 1592, 1593, 1598). Di fatto, però, questo pronunciamento del Concilio di Trento, pur avendo generato un lavoro serio sul testo della Vulgata, durato oltre 30 anni, non può ritenere davvero riuscito, secondo le sue direttive, il testo critico proposto dall’Edizione Sistina e dalla Sisto-Clementina (1592-1598). Il testo clementino divenne comunque la Vulgata cattolica ufficiale.
Il lavoro per un’edizione critica del testo della Vulgata è stato attuato a cominciare dal 1907 dai monaci benedettini di S. Gerolamo a Roma, il cui frutto è stata l’edizione critica apparsa nel 1987 (Biblia Sacra iuxta Latinam Vulgatam versionem ad codicum fidem, cura et studio Monachorum Abbatiae Pontificiae S. Hieronymi in Urbe, Ordinis Sancti Benedicti, edita 1926-1987). Per quanto riguarda un’edizione manuale critica, si veda la Vulgata Stuttgartensia (Biblia Sacra iuxta Vulgatam versionem, 2 voll., edidit R. Weber, Stuttgart, Württembergische Bibelanstalt, 1969 [21975]). Della Vulgata Clementina esiste anche una versione elettronica (vedi qui).
Infine è utile segnalare la pubblicazione della Neovulgata. Non è un’edizione critica del testo della Vulgata, ma è una versione che vuole essere un aggiornamento della traduzione latina in cui vengono acquisiti i risultati degli studi biblici moderni e contemporanei. Questa versione nacque da un’esplicita volontà di Paolo VI, che istituì la Pontificia Commissione per la Neovolgata il 29-11-1965, dieci giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. La sua finalità era quella di dotare la chiesa di un’edizione latina della Bibbia, a cui fare riferimento anche nei lavori di traduzione biblica nelle varie nazioni, in quanto tale traduzione – pur rimanendo sostanzialmente quella di Gerolamo – doveva integrare i progressi indubbi dell’esegesi.
In definitiva, si trattava di preparare una traduzione per uso liturgico, solida però dal punto di vista scientifico, e insieme coerente con il linguaggio della tradizione e dell’ermeneutica cattolica. Questa edizione della Neovolgata fu promulgata da Giovanni Paolo II con la Costituzione apostolica Scripturarum Thesaurus, il 25 aprile 1979.
 
 
3. Traduzioni siriache
Accomunate con il Targûm dall’uso dell’aramaico sono le versioni cristiane del Primo Testamento (e, ovviamente, del Nuovo). La prima versione in siriaco è la Vetus syra, che oggi è meglio conosciuta grazie alla scoperta di nuovo materiale manoscritto. Tale versione mostra certamente delle relazioni con i Targûmîm palestinesi, al punto che si discute se la sua origine sia giudeo-cristiana o addirittura giudaica. Di fatto, la casa reale dell’Adiabene, regione ad est del Tigri, si convertì al cristianesimo in tempi antichissimi (si pensa attorno al 40 d.C.). È probabile che tale traduzione sia nata per necessità creatasi nell’Adiabene e, ovviamente, si sia avvalsa delle versioni targumiche già esistenti.
La prima traduzione del Nuovo Testamento in siriaco è il cosiddetto Diatesseron, cioè "(un vangelo) attraverso quattro (vangeli)", realizzata da Taziano nel 165-170. Si tratta di un testo unico e lineare che cerca di armonizzare le quattro narrazioni dei singoli Vangeli. Per alcuni secoli tale testo fu il vangelo ufficiale della chiesa di Siria. Il teologo Efrem Siro ne scrisse un commentario in prosa. Nel 423 il vescovo Teodoreto ne impose l'abbandono in favore dell'adozione dei quattro vangeli come avveniva per tutte le altre chiese cristiane. Teodoreto ordinò la distruzione delle copie esistenti del Diatesseron, che ci è pertanto noto solo in maniera indiretta attraverso il commentario di Efrem.
A partire dalla Vetus syra si elabora una revisione, il cui frutto è la Pešit), detta anche la Vulgata siriaca, in quanto è tuttora in uso nella chiesa sira. Questa versione ha una storia complessa, in quanto la traduzione fu compiuta in epoche e da autori diversi, verosimilmente giudei o, ancor più probabilmente cristiani. Si spiega con la pluralità di autori la profonda differenza nelle traduzioni dei vari libri; ad esempio, Giobbe è molto letterale, mentre più libera è la traduzione dei Salmi, dei Profeti minori, di Isaia, in cui si avverte anche un significativo influsso dei LXX; ricca di parafrasi è la traduzione di Rut; il Pentateuco, Ezechiele e i Proverbi seguono il modello targumico. Sono in particolare i libri delle Cronache che mostrano profonde influenze targumiche e midrašiche. Dai LXX direttamente proviene la versione dei deuterocanonici Tobia, Giuditta, Maccabei, Baruc, Sapienza e delle parti deuterocanoniche di Daniele.
 
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Peshitta, (c. 1216), Atti degli Apostoli
[Encyclopaedia Britannica on line]
 
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Lettere paoline, Peshitta del 622
(The British Library)
 
Anche il testo base adottato per i singoli libri deve essere stato diverso di volta in volta. Ne risulta che, ad esempio per il libro di Isaia, la Pešit) mostra affinità con il testo di Isaia di Qumran. Il discorso andrebbe poi esteso alla Pešit) del Nuovo Testamento, che è una rielaborazione della Vetus syra su un testo adattato in funzione di quello greco usato ad Antiochia.
Dal 1966 è in corso la pubblicazione dell’edizione critica della Pešit) del Primo Testamento, a cura del Peshitta Institute di Leiden (per la Pešit)online, vedi qui).
 
4. Le altre versioni antiche orientali e occidentali
Vediamo ora le altre versioni orientali e le due versioni occidentali: la gotica e la paleoslava o slavonica.
4.1. Antiche versioni orientali
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Manoscritto in sahidico (Egitto, ca. 500) contenete passi degli Atti d. Apostoli
Per le versioni orientali si segnalano innanzitutto quelle copte. La rapida espansione del cristianesimo in Egitto durante i primi secoli, rese urgente una traduzione nella lingua egizia (copto deriva da Qubt, nome arabo collettivo per indicare gli egiziani, derivato a sua volta dal greco [Ai]gúpt[ios]). Conosciamo ben quattro versioni, corrispondenti ai quattro dialetti: sahidica, bohairica,faiunica, achimimica. La più diffusa fu la bohairica, in uso nella liturgia copta fino ai nostri giorni. La traduzione del Primo Testamento fu eseguita sul testo dei LXX. Per il Nuovo Testamento si sono conservate quasi completamente le traduzioni in sahidico e in bohairico. Il tipo testuale soggiacente a queste traduzioni è perlopiù quello alessandrino. Il Primo Testamento della bohairica sembra però eseguito su un testo dei LXX appartenente alla famiglia B.
La versione armena fu eseguita nel sec. V da alcuni testi in originale greco e da altri in siriaco. In alcuni libri appare l’influsso dei manoscritti greci A e S, mentre per altri è assodata la dipendenza dagli Hexapla di Origene e dalle revisioni di Aquila, Simmaco e Teodozione. Si attribuisce questa versione al patriarca S. Isacco il Grande (390-440) e a S. Mesrope (m. 441), l’inventore della scrittura armena. La versione armena del Primo Testamento conta una trentina di manoscritti, datati dal XIII secolo. Bisogna però ricordare che a Venezia, nell’isola di S. Lazzaro, dal 1651 è conservato un salterio armeno risalente al X o XI secolo, cioè al periodo dei grandi manoscritti ebraici del TM.
Le versioni georgiane sono molteplici; le prime versioni parziali risalgono ai secoli VI-VII e manifestano una dipendenza dalla versione armena. Nel sec. X i monaci Iberi (cioè georgiani) del Monte Athos rividero le antiche versioni facendone una nuova per l’intera Bibbia. Quella del Primo Testamento fu eseguita su un testo della recensione esaplare di Origene.
La versione etiopica o ge‘ez, realizzata in tale lingua sia per il Primo che per il Nuovo Testamento verso il VI-VII secolo, dal greco, riveste un interesse particolare perché offre un canone ampio che annovera 1Enoc, Giubilei, 4Esdra. La prima edizione di questa Bibbia fu curata dalla missione italiana all’Asmara (F. da Bassano, 1922-1926). Essa, dal punto di vista linguistico, mostra influssi delle traduzioni copte e arabe.
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manoscritto in ge'ez e amarico (Etiopia, 1519/1520) contenente i Vangeli
Le versioni arabe cominciarono nel sec. VIII quando l’islam e la conquista araba dell’oriente diedero enorme importanza politica e letteraria alla lingua dei conquistatori. Precedentemente, pur essendo il cristianesimo diffuso nei paesi di lingua araba, non si era provveduto ad alcuna traduzione. Il suo valore, più che linguistico, è legato alla storia dell’interpretazione biblica. Per il Primo Testamento la versione fu realizzata sul testo ebraico, sui LXX e sulla Peshitta.
 
4.2. Antiche versioni occidentali
Tra le antiche versioni occidentali due meritano una speciale menzione, ossia la versione gotica e la paleoslava.
La versione gotica fu eseguita da Wulfila (m. 383) vescovo ariano dei visigoti, cui si attribuisce anche la paternità sull’alfabeto gotico. Essa fu attuata sul testo dei LXX, secondo la versione lucianea o antiochena. Per il Primo Testamento ci restano solo piccoli frammenti di Neeemia (cc. 5-7) presenti in un palinsesto del VI sec. della Biblioteca ambrosiana (inoltre è probabile che la traduzione del libro di Neemia non sia opera di Wulfila, al quale si deve senza dubbio la traduzione del Nuovo Testamento).
Più favorevole è la situazione testuale della versione gotica del Nuovo Testamento dove si può contare sul codice Argenteus conservato nella biblioteca universitaria di Uppsala ed altri manoscritti bilingui giunti a noi perlopiù in palinsesti frammentari. Questi mostrano un graduale influsso della Vetus latina.
L’edizione critica più autorevole è quella di W. Streitberg, Die gotische Bibel. I. Der gotische Text und seine Vorlage mit Einleitung, Heidelberg 1908 (41972).
 
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una pagina del Codex Argenteus, (cosiddetto
perché scritto con inchiostro argento
e oro su pergamena porpora)
presumibilmente prodotto in Italia
(a Ravenna) agli inizi del VI secolo
nella corte di Teodorico.
 
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manoscritto su carta della Chiesa Slavonica ( Monastero di Neamtu, Moldavia, ca. 1450)
La versione paleoslava o slavonica in caratteri glacolitici viene realizzata per i testi liturgici dai due fratelli Cirillo e Metodio (sec. IX), evangelizzatori dei popoli slavi. È opinione degli studiosi che questa opera riguardasse per il Primo Testamento sostanzialmente solo il Salterio, mentre per il Nuovo Testamento i testi del Lezionario. Ben presto vennero realizzate anche le versioni del Pentateuco, Giobbe, Proverbi e Qoelet. L’edizione completa in caratteri cirillici fu realizzata nel secolo XV per ordine di Gennadio metropolita di Novgorod, e per l’occasione si tradussero dalla Vulgata – non essendo disponibili i testi in greco – i libri non ancora resi in paleoslavo (1-2Cr; Esd; Ne; Gdt; Sap; 1-2Mac). La prima edizione stampata uscì nel 1581, sotto il principe Costantino di Ostrog. Nel 1712 Pietro il Grande ordinò una revisione di tutto il Primo Testamento che fu pubblicato in Petropoli, nel 1751. La seconda edizione del 1756 è stata la base per tutte le edizioni posteriori.
 
 
Bibliografia
Per i problemi teorici dell’evento di ‘traduzione’ cfr.:
C. Buzzetti, La Parola tradotta. Aspetti linguistici, ermeneutici e teologici della traduzione della Sacra Scrittura (= PPSLR.RT 12), Brescia, Editrice Morcelliana, 1973.
L. Alonso Schökel - E. Zurro Rodríguez, La traducción bíblica; Lingüística y estilística (= Biblia y Lenguaje 3), Madrid, Cristiandad, 1977.
C. Buzzetti, La Bibbia e le sue trasformazioni. Storia delle traduzioni bibliche e riflessioni ermeneutiche (= LoB 3.4), Brescia, Editrice Queriniana, 1984.
Les problèmes d'expression dans la traduction biblique. Traduction, interprétation, lectures. Actes du colloque des 7-8 novembre 1986, éd. par H. Gibaud (= Centre de Linguistique Religieuse, Cahiers 1), Angers, Univ., 1988.
P. Chiesa, « Le traduzioni », in La Bibbia nel Medio Evo, a cura di G. Cremascoli - C. Leonardi (= BnS 16), Bologna, EDB, 1996, 15-27.
P. Ricœur, « Dall’interpretazione alla traduzione », in P. Ricœur - A. Lacocque, Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, Edizione italiana a cura di F. Bassani (= ISB.S 9), Brescia, Paideia Editrice, 2002, 321-48.
Per una snella introduzione alle traduzioni antiche e moderne cfr. A. Passoni Dell'Acqua, « Versioni antiche e moderne della Bibbia », in R. Fabris et alii, Introduzione generale alla Bibbia (= Logos 1), Leumann (TO), ElleDiCi, 1994, 347-72.
 
Sulla Vetus Latina:
Vetus Latina: Aus der Geschichte der lateinish Bibel [sigla: VLAGLB] 24/1-2), Freiburg im Breisgau- Basel – Wien, Verlag Herder.
P. M. Bogaert, « La Vetus Latina de Jérémie: texte très court, témoin de la plus ancienne Septante et d’une forme plus ancienne de l’hebreu (Jer 39 et 52) », in The earliest text of the Hebrew Bible. The relationship between the Masoretic Text and the Hebrew base of the Septuagint reconsidered, Edited by A. Schenker (= SBL.SCS 52), Atlanta, GA, Society of Biblical Literature, 2003, 51-82.
P. M. Bogaert, « L'importance de la Septante et du “Monacensis” de la Vetus Latina pour l'exégèse du livre de l'Exode (chap. 35-40) », in Studies in the Book of Exodus; Redaction – reception – interpretation, Edited by M. Vervenne (= BEThL 126), Leuven, University Press / Uit. Peeters, 1996, 399-428.
J. C. Haelewyck, « L'édition de la Vetus Latina d'Isaïe », in The Book of Isaiah - Le livre d’Isaïe. Les oracles et leurs relectures. Unité et complexité de l’ouvrage, éd. par J. E. Vermeylen (= BEThL 81), Leuven, University Press / Uitgeverij Peeters, 1989, 135-45.
R. Hanhart, « Ursprünglicher Septuagintatext und lukianische Rezension des 2. Esrabuches im Verhältnis zur Textform der Vetus Latina », in Philologia Sacra; biblische und patristische Studien für Hermann J. Frede und Walter Thiele zu ihrem 70. Geburtstag, 2 Bände, herausgegeben von R. Gryson (VLAGLB 24/1-2), Freiburg im Breisgau, Verlag Herder, 1993, 90-115.
R. Hanhart, « Ursprünglicher Septuagintatext und lukianische Rezension des 2. Esrabuches im Verhältnis zur Textform der Vetus Latina », in Id., Studien zur Septuaginta und zum hellenistischen Judentum, herausgegeben von R. G. Kratz (= FAT 24), Tübingen, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), 1999, 43-63.

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