4. La critica testuale

(testo ripreso da Roselyn Dupont-Roc, Il metodo della critica testuale, in: Daniel Marguerat [a cura], Introduzione al Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 2004, pp. 524-529)

 
Il lavoro del testualista comincia evidentemente con la lenta collazione dei diversi manoscritti. Di fronte alla massa dei testimoni e delle varianti, i membri del comitato che accertò il testo standard scelsero 14381uoghi varianti, per i quali si osserva un numero sempre crescente di manoscritti significativi; la lettura di numerosi frammenti di papiro richiede l'interven­to di specialisti di paleografia (cfr. http://www.uni-muenster.de/NTTextforschung). Il lavoro di collazione si estende sempre più anche alle versioni antiche.
Qui affronteremo la critica testuale solo a partire dal momento in cui gli specialisti ci offrono, negli apparati critici del Nestle-Aland e soprattutto del GNT, un materiale di notevole ricchezza e affidabilità. Quali sono quindi i criteri utilizzati per accertare il testo?
Si distinguono tradizionalmente tre modalità operative della critica: la critica verbale, la critica esterna e la critica interna. Le tre modalità, in teoria, possono avere luogo in successione, ma vedremo a che punto, a volte, le loro frontiere siano sfumate e in che modo il testualista sia portato a far en­trare in azione simultaneamente diversi punti di vista critici.
 
a) La critica verbale consiste in una sorta di «pulizia» del testo che si esplica nell'eliminare grossolani errori di copia; i più noti sono il confon­dere le consonanti onciali (L e D, G e R ecc.), la semplificazione (aplogra­fia) o, al contrario, il raddoppio (dittografia) di una consonante e il pas­saggio da una riga all'altra quando un'espressione è ripetuta (homoiote­leuton). Altri errori sono dovuti alla pronuncia o al carattere mutevole del­l'ortografia:
– è frequente la confusione tra o e w, cosa che a volte fa sorgere un dub­bio tra indicativo e imperativo: in Rom. 5,1, la tradizione è incerta tra eivrh,nhn e;comen(«noi siamo in pace») e eivrh,nhn ecwmen («siamo in pace»);
– il fenomeno dello itacismo ha presto influenzato la pronuncia di sva­riate lettere greche: h, ei, oi, u cambiano pronuncia in «i». In Mt. 19,24, il celebre Ioghion del «cammello» che non può passare attraverso «la cru­na di un ago» ha sollevato la questione; la maggior parte dei testimoni riporta ka,mhlon («il cammello»), ma alcuni manoscritti tardivi riporta­no ka,milon. Si tratta di un semplice caso di iotacismo e le due parole si pronunciano con la «i»? Oppure dobbiamo notare la traccia di un deside­rio di attenuare la stranezza del testo, dal momento che ka,milon signi­fica «una grossa corda»? In ogni modo, fin dal v secolo Cirillo d'Ales­sandria attesta questa lettura.
 
b) La critica esterna deve inizialmente essere sviluppata per se stessa. Consiste nel comparare i vari testimoni delle lezioni varianti, il loro numero, la loro antichità e la loro qualità intrinseca. Tuttavia, né l'antichità né il numero dei testimoni rappresentano un criterio decisivo: in effetti, testi­moni molto antichi come il papiro P66 possono recare chiare correzioni di tipo docetico. Allo stesso modo, il testo di Marcione riflette a volte delle tendenze ultra-paoline. Così, nell'esempio precedentemente citato di Rom. 5,1, il numero e l'antichità dei testimoni avrebbero potuto fare decidere per il congiuntivo: i manoscritti a01 e B03 (prima delle correzioni), A02, C04, D06, 33, due manoscritti della Vetus latina, la Vulgata, la siriaco-palestine­se e la Peshitta presentano il congiuntivo; al contrario, K01 e S03 dopo le correzioni e altri più tardivi, recano l'indicativo: è il contesto didattico e non esortativo che ha fatto scegliere l'indicativo agli editori del testo standard. Occorre rimetterlo in discussione?
Oggi si presta grande attenzione al fatto che una variante sia attestata in più tipi di testo. Probabilmente, il testo standard sacrifica troppo alla compostezza del testo egizio e, indubbiamente, lo favorisce in maniera eccessiva! Di fatto, le varianti occidentali, in quanto non recensionali, sono ormai sempre più valorizzate. Ma anche qui bisogna evitare di permettere che si instauri un nuovo tipo di mito dell'origine. La critica testuale deve moltiplicare i criteri e deve essere sempre circospetta.
 
c) La critica internatenta di stimare il valore rispettivo delle varamenti per ­la comprensione del testo; essa si poggia su criteri di coerenza interna del testo, di stile dell'autore; infine, deve tener conto dei dibattiti dottrinali di un determinato periodo, dei quali il testo può essere un riflesso.
Un certo numero di principi o di regole pratiche servono spesso come criteri; bisogna utilizzarli con prudenza e destrezza, poiché in questi campi non c'è una regola assoluta:
lectio brevior: la lezione più breve è la più probabile; gli scrivano hanno sempre avuto la tendenza a precisare, a spiegare per facilitare la lettura;
lectio difficilior: per la stessa ragione, la lezione più difficile è la più probabile; si corregge un testo per renderlo più accessibile e non per renderlo oscuro!
lectio difformis: nei passi paralleli dei vangeli, sarà preferita una versione differente poiché sfugge alla tendenza generale all'uniformazione;
lectio quae alias explixcat:infine, bisogna sempre preferire la lezione che ­spiega le altre e che può essere indicata come «variante-fonte». Tischendorf riteneva che fosse «la prima tra tutte le regole»; ingloba tutte le altre e deve essere considerata come il criterio essenziale per stabilire il testo. L. Vaganay la chiamava, con spirito, il «filo d'Arianna» del testualista.
Mostreremo con qualche esempio che queste regole restano sempre indicative, e che il testualista entra in dialogo con la critica letteraria, tenendo conto del contesto vicino, del vocabolario e dello stile propri di un autore, e a volte anche del progetto letterario e teologico di un'opera.
 
1. Un primo lavoro consiste nel reperire le «glosse» o spiegazioni aggiunte a margine, che possono essere passate nel testo nel corso di copie successive. Ci si trova allora alla frontiera della critica verbale, ma i tre approcci si rivelano spesso necessari. Questo è il problema posto dall’inizio ­della Lettera agli Efesini: in tutti i manoscritti in nostro possesso, l’inscriptio «agli Efesini». Tertulliano, però, ci fa sapere che Marcione la considerava una lettera ad Laodicenses, «ai Laodicesi». Nell’indirizzo ai destinatari di 1,1, il complemento evn VEfe,sw|(«a Efeso»), che dovrebbe seguire il participio del verbo esseretoi/j a`gi,oij toi/j ou=sin(«ai santi che sono... »), è assente da testimoni importanti: P41,a01 (prima delle correzioni), B, 1739, Marcione secondo Tertulliano, Origene, Basilio; è aggiunto a margine di a01 e di B; è infine entrato nel testo di A, D, F, G, della Vetus la­tina e della Vulgata. Occorre notare che l'assenza dell'articolo davanti al participio, in P46, rende leggibile il testo:toi/j a`gi,oij ou=sin(«a coloro che so­no santi»). È certamente la lezione più breve, la più difficile e, probabil­mente, la variante-fonte. La lettera si presentava forse come una lettera cir­colare inviata alle chiese, lasciando che ciascuna chiesa inserisse il proprio nome nel testo? Sarebbe un caso unico, e dovremmo avere attestazioni di un numero maggiore di destinatari. L'assenza originaria di destinatari è stata forse corretta durante il II secolo? Verso la fine del secolo, Ireneo, poi il canone di Muratori, l'accolgono come lettera «agli Efesini».
La complessa questione dei saluti e della dossologia finale dell'Episto­la ai Romani è dello stesso ordine: suggerisce diverse edizioni della lette­ra, in particolare prive degli ultimi due capitoli in contesto marcionita.
 
2. La critica interna resta ancora vicina alla critica verbale fintanto che rileva le armonizzazioni tra passi paralleli, soprattutto nei vangeli. Si trat­ta di una tendenza spesso inconscia del copista che conosce a memoria il testo più diffuso, di solito il Vangelo di Matteo, e che spesso allinea su que­st'ultimo gli altri vangeli. Facendo riferimento all'impresa di Taziano nel suo Diatessaron, o «Vangelo armonizzato», si parla talora di «tazianismi». II fenomeno, del resto, si verifica ancora oggi nei lettori che mescolano i vangeli e tentano, in maniera più o meno consapevole, di ridurre le ten­sioni, se non addirittura le contraddizioni, dei testi!
Un esempio veramente notevole è quello del Padre nostro nella versio­ne di Lc. (Lc. 11,2-4). La maggior parte della tradizione manoscritta, i gran­di onciali a01, A, D, W, Q, le famiglie F1 e F13, la moltitudine dei minuscoli bi­zantini, la Vetus latina e la Vulgata aggiungono, alle cinque richieste di Lc., le due domande di Mt.; il Vaticanus B03, la siriaco-sinaitica, Marcione, Ori­gene e Agostino hanno conservato il testo breve, la cui anzianità è confer­mata dal papiro P75.
 
3. Un esempio tratto dal Vangelo di Giovanni permette di cogliere dal vivo i conflitti dottrinali che hanno scosso il II secolo:
In Giov. 1,11, i papiri P66 e P75,tutti i grandi onciali e i minuscoli, vale a dire al tempo stesso la tradizione egizia e la tradizione bizantina, oltre al codice di Beza, recitano: «Essi che non sono nati da sangue, né da un volere di carne…», che caratterizza i credenti. Tuttavia, un manoscritto della Vetus latina (b) e i Padri latini ­più antichi (Ireneo latino, Origene latino) presentano la frase al singolare riferendosi al Cristo: «Egli che non è nato da sangue…». Il peso della critica esterna è tale che la discussione può sembrare inutile dal principio. Ma i testimoni latini risalgono alla metà del II secolo. Si tratta di una affermazione di tipo docetico, all'interno del conflitto cristologico, oppure di una affer­mazione della verginità di Maria? Ireneo (Contro le eresie III,16,2)e Tertulliano (Dalla carne del Cristo XIX)leggono il testo al singolare e lo applicano al concepimento virginale. Tertulliano, del resto, accusa gli gnostici valentiniani di averlo corrotto volgendolo al plurale per sostenere la loro concezione del cristiano «spirituale». Nel V secolo, Cirillo legge il plurale e collega il concepimento virginale e il battesimo dei cristiani come nascita dall'alto.
 
4. Per concludere, diremo ancora due parole sulla questione posta da ­alcuni versetti (addirittura pericopi) assenti da una notevole parte della tradizione manoscritta, mentre l'altra parte li conosce. Si tratta, in particolare, della pericope della donna adultera ma anche, in Lc, dell’agonia Getsemani (Lc. 22,43-44) o del «Padre, perdona loro» (Lc. 23,34). La decisione degli editori del testo standard è stata quella di inserire nel testo questi versetti, ma tra parentesi quadre, per segnalare l'incertezza della tradizione o, addirittura, il fatto che il passaggio non apparteneva al testo d'origine ma veniva mantenuto come una tradizione cristiana antica. Questi sono casi in cui, in modo particolarmente chiaro, la critica testuale deve entrare in dialogo con la critica letteraria, senza perdere tuttavia la sua specificità.
Il testo di Lc. 22,43-44 (w;fqh de. auvtw/| a;ggeloj avpV ouvranou/ evniscu,wn auvto,nÅ kai. geno,menoj evn avgwni,a| evktene,steron proshu,ceto\ kai. evge,neto o` i`drw.j auvtou/ w`sei. qro,mboi ai[matoj katabai,nontoj evpi. th.n gh/n) illustra bene la difficoltà: i due versetti che insistono sul­l'agonia terribile di Gesù, sostenuto da un angelo, nel giardino degli ulivi sono as­senti da gran parte dei grandi onciali (a01, A, D, W), dal papiro P75 e da F13, dalla siriaco-sinaitica, da Ambrogio e Gerolamo, nonché da Origene. Al contrario, sono presenti nel codice di Beza D, Q, le famiglie F1, nella Vetus latina, nella siriaca curetoniana e nella Peshitta, nella Vulgata, in Giustino e in Ireneo. La situazione è dunque assai confusa, ma l'omissione sembra in gran parte egizia: un'alta cristologia ha potuto rifiutarsi di attribuire al Cristo una tale angoscia e di immaginare che un angelo potesse essere di conforto! Tuttavia, la critica interna non può discernere chiara­mente la variante-fonte, poiché si può anche presupporre la volontà di insistere sull’umanità di Gesù. La critica tenta dunque di poggiarsi su criteri stilistici. Svariate parole del v. 44 sono degli hapax nell'opera di Luca; bisogna pertanto proibirne l’u­so all'autore? Infine, si tiene conto dell'economia d'insieme del racconto della pas­sione: se il Gesù di Luca muore serenamente sulla croce rimettendo il suo spirito nelle mani del Padre, l'autore non ha forse voluto riequilibrare il ritratto espri­mendo innanzitutto l'angoscia molto umana del Figlio in questa scena decisiva?
La discussione di questo esempio ha fatto intervenire degli elementi di critica letteraria: innanzitutto la nozione di «vocabolario» di un auto­re, collegato alle sue abitudini stilistiche, poi la costruzione d'insieme di un racconto. Questo tipo di critica si è sviluppato sotto il nome dì critica razionale. Riguarda lo stile proprio di un autore, ma anche il carattere più o meno letterario del greco utilizzato. L'interesse che suscita è grande, ma non è al riparo da certi rischi e in particolare dal rischio di un circolo vi­zioso: si accerta il testo di un autore a partire da un vocabolario e dai trat­ti stilistici osservati... sul testo accertato! Ancora una volta, la prudenza è d'obbligo.
Se le doppie parentesi quadre del testo standard mantengono l'ambi­guità, poiché manifestano il rifiuto di fare una scelta, servono anche a sot­tolineare immediatamente al lettore la variabilità del testo in passi così im­portanti!

Per ulteriori approfondimenti, clicca qui (testo in italiano).

 

5. Edizioni critiche del NT >>>

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