Bibbia e letteratura italiana del Novecento: spunti per la didattica

di Gian Gabriele Vertova

 

Rintracciare consapevoli influssi biblici sugli scrittori italiani del Novecento sembra, e probabilmente è, arduo e complicato. È convinzione diffusa, difficilmente contestabile,  che in Italia, a differenza che nei paesi protestanti o nelle comunità ebraiche dove la Bibbia ha accompagnato per secoli il processo di alfabetizzazione, abbia pesato la diffidenza cattolica dopo il Concilio di Trento nei confronti della lettura diretta dei testi scritturistici. Non c’è dubbio che nella Letteratura Italiana del XX secolo non compare un’opera come il ciclo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, che Primo Levi giudica sia «il più alto frutto letterario di questo secolo», sottolineando come non sia altro «che lo svolgimento dei capitoli 25-30 del libro della Genesi»[1], e non ci sono autori come Thomas Stearns Eliot o William Faulkner (che ha ri-scritto in Assalonne, Assalonne la storia di violenze fraterne e di stupri del II libro di Samuele).

Nel Novecento poi risulta più evidente il distacco degli scrittori laici italiani dalla tradizione biblica: l’opinione che si tratti di una questione di interesse limitato al mondo cattolico, se non addirittura clericale, domina nella prima parte del secolo il mondo letterario e solo negli ultimi decenni si nota un’inversione di tendenza, in un contesto per altro reso più difficile da processi come la secolarizzazione della secolarizzazione e, più in generale, dalla crisi della memoria collettiva. D’altronde spesso i laici condividevano con i cattolici il pregiudizio che, in fondo, sono unicamente i Vangeli i testi che vale la pena di leggere. Il pregevole e approfondito lavoro di Umberto Colombo su Bibbia e Letteratura, contenuto nel fondamentale Nuovo Dizionario di Teologia Biblica delle edizioni S. Paolo, indica così prevalentemente autori cristiani o “religiosi” o che, comunque, hanno tratto ispirazione e spunti creativi quasi esclusivamente dal Nuovo Testamento.

Il problema è serio perché non è possibile studiare i Classici senza fare i conti con la contemporaneità, che mette legittimamente ogni volta alla prova il testo antico. La cultura greca e romana e quella giudaica e cristiana infatti sono classiche non perché dichiarate a priori paradigmatiche, ma perché per noi hanno ancora un valore preminente, evidente e dimostrabile. Possiamo sentire “classici” alcuni libri soltanto in una dimensione di “durata”. Quello che dice Emmanuel Lévinas della Scrittura, che ha una parola diversa per ciascuno di noi, per cui se una persona non nasce, o non legge, un significato non si manifesta, vale forse per ogni libro che definiamo “classico”: ogni testo letterario e artistico è una forma conclusa in sé ed ha per il suo autore, e per il pubblico immaginato dall’autore, un suo significato preciso che noi, certo, cerchiamo di affrontare consapevoli della sua “distanza” di spazio e di tempo per evitare fraintendimenti, ma che tuttavia per vivere ha bisogno di essere letto nel modo possibile al lettore di ogni tempo. Insomma la possibilità di far vivere il testo biblico come classico dipende molto dalla nostra capacità di rintracciarne gli influssi anche sugli scrittori più vicini.

Tuttavia non si tratta di una sfida impossibile. Già nel suo profondo e suggestivo saggio pubblicato su Humanitas nel 1990 su Bibbia e Letteratura[2], Aldo Bodrato osservava come sia la critica antica sia quella contemporanea, nella riflessione sull’arte della scrittura, mettono in campo, assieme agli altri Classici, la Bibbia: se lo Pseudo-Longino nel De Sublimitate del I secolo citava come esempio di stile sublime, assieme a molti brani omerici, il passo di Genesi 1, 3-9, alla luce dell’intenzione, propria del sublime, di elevarsi dal mondo storico e materiale al perfetto e all’eterno, la funzione assegnata da Italo Calvino alla parola poetica («parola che collega la traccia visibile alla cosa invisibile, fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto», arte «di far parlare ciò che non ha parola»[3]) si addice, più che a Ovidio e a Lucrezio (come forse pensava Calvino) alla Letteratura Biblica, «essa sì attenta a dar voce alle cose senza voce, a gettar ponti verso l’ignoto»[4].

Vale la pena di sottolineare come  la questione sia decisiva nell’attuale contesto sociale, se sono vere le tesi che evidenziano come sia dominante fra i giovani d’oggi la tendenza a concentrarsi sul presente e come sia sempre più difficile una trasmissione significativa della memoria. Si ripete per questo che è decisivo insegnare ai giovani di ricordarsi di ricordare. Ma c’è un modo di fare memoria che resta nel passato come in una prigione d’oro e questo temo non abbia alcuna possibilità di incidenza educativa. Solo un impegno di attenzione alle vicende del presente (o del recente passato del Novecento che possiamo includere nella categoria di contemporaneità) aiuta a sviluppare una memoria creativa, memoria del futuro, capace di racconto, di essere investigativa e aperta alle memorie degli altri,  come sentiamo necessario in quest’epoca in cui emerge la preoccupazione dell’interculturalità.

 

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Un percorso possibile potrebbe assumere come linea di sviluppo quegli autori, poeti e narratori, che hanno indicato la Bibbia come riferimento elettivo fondamentale: tra gli scrittori in feconda attività Ferruccio Parazzoli (legato prevalentemente però alla ri-scrittura dei Vangeli) o l’ebreo Erri De Luca. Mi piace citare da Una nuvola come tappeto[5] alcune parole della Premessa:

 

«Studio l’ebraico, leggo la Bibbia. La Bibbia è  almeno una letteratura e il Dio di Israele è se non altro il più grande personaggio letterario dei tempi. L’idea che l’infinito sia onnipotente e agisca sull’infima creatura non è stata ancora superata. Il soffio del Dio che suscita molecole di fango e vita umana offre alla sorte di ognuno il fondamento di una grazia e di una ragione. E’ dei grandi libri procurarlo. Per molti la Bibbia è un testo sacro. Ma mi commuove più di quel valore in sé, il sacro aggiunto, l’opera degli innumerevoli lettori, commentatori, sapienti che hanno dedicato a quel libro il tempo migliore della loro vita. Il sacro in sé della Bibbia è diventato, attraverso di loro, una civiltà.»

 

Oppure, nel  secolo appena trascorso, Clemente Rebora[6], David Maria Turoldo (importante poeta che una conferenza apposita), Mario Pomilio, Giovanni Testori, Mario Luzi: per questi è sembrato valere il suggerimento di Giuseppe Ungaretti[7]:

 

Verso meta si fugge,

chi la conoscerà?

Non d’Itaca si sogna

Smarriti in vario mare,

ma va la mira al Sinai sopra sabbie

che novera monotone giornate (Terra promessa – Coro quarto)

 

Si percorre il deserto con residui

Di qualche immagine di prima mente

Della Terra Promessa

Nient’altro un vivo sa. (Terra promessa – Coro Quinto)

 

A proposito di questi versi Emerico Giachery nota: «Questo tardo deserto sembra sempre più metafisico, allegorico; privo ormai della violenta pienezza di luce e dell'erotica fascinazione del deserto dell'adolescenza e della prima giovinezza. È deserto di "monotone giornate" di vecchiezza, in cui le oasi di poesia si vanno facendo, dopo Il Taccuino del Vecchio, sempre più rade e spoglie». Ma non coglie il riferimento biblico.

Non si tratta certo in Ungaretti dell’indicazione di una certezza confessionale, ma di una ricerca e di un’attesa.

Ma non è detto che il poeta religioso si ispiri alla Bibbia.

Ungaretti, che per tanti aspetti può essere considerato un poeta “religioso”, lo è in una tensione mistica ed esistenzialistica più che per una rilettura biblica: basti ricordare il celebre: Mio fiume anche tu:

 

Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre;
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d'agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterrefatte;
Che di male l'attesa senza requie, il peggiore dei mali,
Che l'attesa di male imprevedibile
Intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
Agghiacciano le case tane incerte;
Ora che scorre notte già straziata,
Che ogni attimo spariscono di schianto
O temono l'offesa tanti segni
Giunti, quasi divine forme, a splendere
Per ascensione di millenni umani;
Ora che già sconvolta scorre notte,
E quanto un uomo può patire imparo;
Ora ora, mentre schiavo
Il mondo d'abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
"Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S'è tanto allontanata?"

Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell'emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l'uomo lacera
L'immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l'innocenza
Reclama almeno un’eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.

Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l'inferno s'apre sulla terra
Su misura di quanto
L'uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
[8]

 

Qui si tratta di anelito religioso, con immagini bibliche e cristiane, ma che si legano alla tensione mistica e alla disperazione esistenziale più che ad una ri-scrittura. Non è un caso che Ungaretti abbia commosso e stimolato Thomas Merton.

Per far capire meglio il problema faccio un cenno a Mario Luzi: è stato  indagato quanto in lui abbia pesato lo gnosticismo montaliano e il misticismo cosmico theillardiano, riferimenti che certo mettono in secondo piano la Bibbia. Eppure fra le poesia più lette troviamo un testo che esalta pressante il sentimento dell’attesa della redenzione (una biblica attesa messianica):

 

A che pagina della storia, a che limite della sofferenza-
mi chiedo bruscamente, mi chiedo
di quel suo "ancora un poco
e di nuovo mi vedrete" detto mite, detto terribilmente

e lui forse è là, fermo nel nocciolo dei tempi,
là nel suo esercito di poveri
acquartierato nel protervo campo
in variabili uniformi: uno e incalcolabile
come il numero delle cellule. Delle cellule e delle rondini.
[9]

 

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Al nostro scopo mi sembra comunque più interessante indicare gli influssi biblici in alcuni autori scelti volutamente fra quelli di solito non identificati come cristiani religiosi, ma che sono più diffusamente presenti nei manuali in uso nelle Scuole Medie Superiori e considerati fondamentali nella definizione del programma didattico. Se sosteniamo che i testi biblici hanno titolo di essere giudicati Classici in una prospettiva storico-letteraria, la loro presenza dovrebbe essere rintracciabile, in modo simile ad altri classici, almeno come:

1. riscritture

2. schemi narrativi

3. personaggi che vivono di vita propria, miti oggetti al riuso, racconti reinterpretati

4. categorie fondamentali del pensiero

 

 

Nella poesia italiana del Novecento si distingue fra i poeti attenti alla ri-scrittura Salvatore Quasimodo: come scrive Piero Boitani, «egli ha acquistato … una voce nuova … con le sue traduzioni: che vanno progressivamente allargandosi dal Vangelo secondo Giovanni alle Georgiche virgiliane, dai Carmi di Catullo all’Odissea, dai drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare e Molière alle Metamorfosi di Ovidio, ma che sono innanzitutto i Lirici greci, usciti originariamente nel 1940 e poi ripubblicati, con aggiunte e correzioni, numerose volte: frutto, dichiara l’autore, di «anni di letture per giungere, mediante la filologia, a rompere lo spessore della filologia; a passare cioè, dalla prima approssimazione laterale linguistica della parola al suo intenso valore poetico» (Quasimodo 1996, p. 280). La relazione dell’Accademia svedese per il Nobel menziona infatti esplicitamente il «grande contributo» di Quasimodo «come traduttore della letteratura dell’antichità classica, che ora forma lo sfondo omogeneo del suo proprio lavoro» di poeta. Nei Lirici greci rimangono una voce e una parola che non solo hanno messo in moto il mutamento del suo stile tra gli anni Trenta e Quaranta, ma che rappresentano forse ancora oggi il momento più alto di una “transcreazione”, una vera e propria lirica originale che congiunge la Grecia antica all’Italia novecentesca. Ma la sua traduzione nella contemporaneità del testo antico non si limita a quella latino o greco, ma accetta di misurarsi con quello biblico come nel celebre Alle fronde dei salici, ispirato al  Salmo CXXXVI che rievoca la deportazione degli ebrei a Babilonia[10]:

 

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
[11]

 

Il ritorno alla Bibbia in Quasimodo sembra peraltro accompagnato dall’invito ad uscire dalla sua eredità considerata come condanna ad una ripetizione incessante e immodificabile della storia («la poesia è diventata celebre… anche perché proposta come testo per l’analisi ad un esame di stato…»).

 

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
- t’ho visto - dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
- Andiamo ai campi. - E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
[12]

 

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Come studio stimolante e esemplare della presenza delle strutture bibliche nei romanzi del Novecento propongo il saggio di Gabriella Moretti, Le storie di Giacobbe. Strutture bibliche nella coscienza di Zeno[13]. Questa indagine ha raggiunto risultati dal mio punto di vista del tutto inaspettati, anche perché si sa che nelle opere di Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, sembra evidente una specie di rimozione della tradizione culturale ebraica e soprattutto della Bibbia, che solo dopo il successo della Coscienza l’autore lascia un poco trapelare[14]. Per questo gli studi sull’anima ebraica di Svevo hanno approfondito in particolare gli aspetti di cultura mitteleuropea, soprattutto la centralità della figura dell’inetto, lo Schlemiel ebraico, ritratto dell’intellettuale borghese ebreo disadattato d’inizio Novecento. Ma l’opposizione che percorre tutta l’opera sveviana (e che corrisponde a tutta una serie di dati biografici)  fra il personaggio del letterato inetto e sognatore e quello del borghese concreto e lottatore, ovvero fra malattia e salute, si collega strettamente all’opposizione fra vita attiva e vita contemplativa rintracciabile fin da Una vita (con il contrasto fra Alfonso da una parte e Annetta e Macario dall’altra) e in Senilità  (qui l’opposizione è fra le coppie Emilio/Amalia e Angiolina e Balli). Il personaggio dell’intellettuale sognatore rimanda, declinato con ironia problematica, al Giuseppe biblico (come non a caso dirà Freud riferendosi a se stesso[15]), ma il primo sognatore di sogni celebri in Genesi è Giacobbe. Con lui il personaggio di Zeno ha in comune un dolore al nervo sciatico, non per aver lottato con l’Angelo, ma per la nevrosi concomitante alla competizione con il rivale Guido.

Potrebbero sembrare solo casuali le coincidenze, anche per le allusioni onomastiche, fra la moglie di Svevo Livia, e quindi la Lia-Augusta della Coscienza, e Giacobbe-Zeno Cosini, ma la Moretti indica altre più convincenti corrispondenze biografiche e testuali. Mi soffermo solo su queste ultime: Giacobbe va a lavorare dall’astuto zio Labano, Zeno da Malfenti, entrambi con intenzioni matrimoniali e con imprevisti successi in ambito lavorativo; anche Zeno ha a che fare con una situazione tendenzialmente poligamica rappresentata dalle quattro figlie del Malfenti e si relaziona come in paese straniero[16];  si innamora della bella Ada, ma sposa la scialba Augusta, brutta e strabica come Lia[17]; per uno scambio di persona (come Giacobbe nelle notte nuziale) Zeno, nel buio di una seduta spiritica, fa una dichiarazione d’amore ad Augusta scambiandola per Ada; Lia, la non-amata, continuerà a invidiare Rachele, così come Augusta continuerà ad essere convinta che Zeno in fondo ama ancora Ada. È interessante notare come il tema dell’opposizione fra vita attiva/vita contemplativa, declinato stavolta nella coppia canonica del Nuovo Testamento, Marta e Maria, sia presente nell’Ulysses di James Joyce, dove Leopold Bloom (costruito «anche con elementi tratti dalla personalità biografica e culturale dell’amico Schmitz»[18]) si è sposato con Marion/Moll, ma ha anche un’amante, Martha.

 

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Anche nel Novecento, in continuità con quello che è successo nel mondo antico, medievale e moderno, i protagonisti delle tradizioni leggendarie continuano a vivere mantenendo fermi gli elementi fondamentali della propria identità, ma arricchendosi delle sensibilità diverse degli autori che li riusano. Un  personaggio fra i più ripresi è quello di Ulisse, ma forse altrettanto significativo, anche se meno indagato è quello di Adamo. È noto come fra fine Ottocento e inizio del Novecento (ma disagio e tentativi – o velleità -  di superamento percorrono tutto il secolo XX) scrittori e artisti si pongano spesso in opposizione critica ai processi di mercificazione e di massificazione dell’arte, riconoscendo ad essa invece il compito di esprimere i valori spirituali compromessi nella società industriale. Questo sforzo di rinnovamento dei fondamenti della poesia è evidente in Giovanni Pascoli. Come ha dimostrato Francesco Mattesini[19] la Bibbia è fonte del pensiero e dell’attività critica del Pascoli soprattutto nello studio di Dante. Ma anche nella definizione della sua poetica, sintetizzata nella Prosa del Fanciullino. Questa poetica pascoliana, e l'opera che la contiene, prende nome dall'immagine di un fanciullino, dedotta dal Fedone di Platone. Per essere veramente poeti occorre recuperare una condizione d’animo contraddistinta da verginità spirituale e capacità di meraviglia di fronte ad ogni scoperta relativa al mondo che ci circonda. Le insistenze della critica sulla metafora del fanciullino, per altro coerente con quella del Pascoli, contribuisce esageratamente a far catalogare la concezione pascoliana della poesia in una visione consolatoria ed estetizzante[20]. Ben più promettente appare invece la metafora di Adamo, per la quale il poeta «è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente» (cfr. Genesi 2,19). La ricerca poetica del Novecento può essere interpretata come un continuo tentativo di recuperare il valore primigenio e autentico della parola sottraendola, per usare un celebre detto ungarettiano, «all’uso che ne fa la tribù». Il poeta tende alla riconquista dell’innocenza perduta, a recuperare lo stato d’animo dell’Eden redimendosi tramite la poesia dal peccato originale della memoria e da quello contemporaneo della reificazione sociale. Questa idea, come è noto, da Ungaretti è esplicitamente connessa a quella del sacro.

L’istanza del ricominciamento è largamente presente negli anni Venti e Trenta all’interno del movimento novecentista: il poeta non doveva ripiegarsi nel passato, nella poesia della natura di tipo classico o nel culto romantico dell’io interiore, ma doveva reagire alle straordinarie trasformazioni scientifiche e sociali della modernità attraverso una nuova capacità mitopoietica, inventando oggetti di fantasia per trasformare il mondo. Se nel dramma Sei Personaggi in cerca d’autore Luigi Pirandello intendeva soprattutto muoversi nella logica del paradosso per dimostrare sostanzialmente l’impraticabilità del teatro realista ottocentesco, nel periodo dei Miti invece, influenzato profondamente dalle teorizzazioni di Massimo Bontempelli, pensa di foggiare «favole e personaggi che possono correre il mondo come giovani liberati che hanno saputo dimenticare la casa dove nacquero e ove hanno compiuto la loro liberazione»[21]. In quegli anni Pirandello e Bontempelli avevano una vera e propria ossessione del mito. Non è certo un caso che il drammaturgo siciliano poco prima di morire, inizi a lavorare intorno al romanzo Adamo ed Eva, appunto sul tema del ricominciamento umano e che chiami appunto “miti” le sue opere teatrali La nuova colonia (1927), mito sociale,  Lazzaro (1929), mito religioso, I Giganti della montagna, mito dell’arte.

Temo sia difficile, dovendo fare i conti con una quasi unanime stroncatura della critica, a partire da saggisti come Giovanni Macchia, riabilitare il Lazzaro di Luigi Pirandello e riproporlo alla lettura, tanto meno alla rappresentazione. Nel nostro breve percorso mi appare comunque significativo del fatto che, anche in autori come Pirandello, abbastanza estranei alla tradizione biblica ed invece interessati alla teosofia, allo spiritismo, alle teorie della reincarnazione, diventi spontaneo ricollegarsi ad un personaggio evangelico quando vuole affrontare il tema dell’immortalità. Non è privo di attualità, né di interrogativi teologici quello che Giovanni Macchia ha chiamato «una specie di contrappunto approssimativo tra scienza e fede»[22], con il personaggio di Diego che risorge per una iniezione medica, ma non ricorda nulla del regno delle ombre che ha attraversato, e quello della paralitica che cammina per opera della fede.

 

Come Adamo, anche il personaggio di Lazzaro, uno dei miracoli più popolari del Nuovo Testamento, è presente in una delle più conosciute interpretazioni del giullare Dario Fo. Mistero Buffo è forse, con quella di Testori, l’opera di teatro contemporaneo più conosciuta e anche utilizzata in campo didattico, sia perché significativa di alcuni importanti esiti delle avanguardie teatrali del Novecento, sia perché consente al docente di far riflettere sulla natura e sulle origini del teatro, specie di quello popolare. La deformazione espressionistica, il gusto insistito per la provocazione, l’insistente ricerca della complicità del pubblico, che sfiora talora la corrività, possono indurre all’uso di qualificazioni riduttive e sbrigative come quella di teatro parodistico, da cui vengono solitamente esclusi i Testi della Passione per quella profondità e intensità nella rappresentazione del dolore, fino ad una sorta di biblica protesta contro Dio, che ha fatto giustamente pensare a Donna de Paradiso di Jacopone da Todi. Anche altri testi però, che pure devono essere iscritti nell’ambito del comico, risultano significativi: solo infatti attraverso la rottura espressiva e linguistica, non diversamente che nei primi secoli cristiani[23], si può pensare di recuperare attenzione al giorno d’oggi nei confronti di racconti che, quand’anche siano tuttora conosciuti (il che non è scontato), risultano impotenti ad avvincere e provocare i lettori a causa dei pregiudizi di un laicismo ignorante nonché del pigro conformismo agli stereotipi della comunicazione istituzionale ecclesiastica[24]. Episodi come La Resurrezione di Lazzaro o Le nozze di Cana, proprio perché raccontati in una lingua bassa e secondo una prospettiva mondana, provocano la desublimazione del miracolo: il racconto può così uscire dalla dimensione improbabile di una favola d’altri tempi, dai più giudicata come poco interessante, per tentare di divenire oggetto di dibattito interpretativo. A mio parere in molti testi di Fo non c’è solo la riappropriazione popolare e materialistica da parte degli umili dell’esperienza evangelica a loro indirizzata o la denuncia sociale della ricchezza e dello sfruttamento capitalistico, ma anche, per l’appunto, la dimensione del mistero: in ultima analisi l’esagerazione spettacolare del miracolo, lungi dal contraddire, addirittura ripropone l’interrogativo su chi diciamo sia  il Cristo, quasi mai descritto direttamente, ma piuttosto raccontato secondo molteplici punti di vista dai tanti personaggi anonimi della folla che lo circonda.

 

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È evidente che per cogliere la disseminazione della cultura biblica nei testi novecenteschi è importante cogliere la frequenza, talvolta inaspettata, del ritorno delle categorie fondamentali. Così, sorprendentemente, una delle poesie più belle e significative di Eugenio Montale, Primavera Hitleriana, non ha solo riferimenti espliciti al deuterocanonico libro di Tobia, ma soprattutto nell’ultima parte presenta tonalità e attese profeticamente aperte alla speranza: Clizia, la donna-angelo, per una volta ha spinto il poeta ad oltrepassare lo scetticismo ostentato di chi per lo più coglieva soprattutto la divina indifferenza:

 

Né quella ch'a veder lo sol si gira..
DANTE (?) a Giovanni Quirini


Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch'esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
di larve sulle golene, e l'acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? - e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell'avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani - tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio....
                                         Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz'ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud...
[25]

 

Forse ancora di più molti scrittori ebrei italiani sono significativi del rapporto necessario fra persecuzione e scrittura, fra scoperta dolorosa della propria diversità ed esigenza di riflettere e scrivere (Saba, Michellstaedter, Carlo Levi, Bassani, Ginzburg, lo stesso Svevo…), ma nessuno più di Primo Levi, intellettuale dichiaratamente laico, si presta, con la sua opera, a verificare la presenza delle categorie bibliche nella profondità della sua ispirazione. Il debito è spesso esplicitato dallo stesso autore. Levi ad esempio riconosce come, alla fine degli anni Trenta, quando gli pesava l’isolamento determinato dalle leggi razziali, la frequentazione di gruppi ebraici lo aveva aiutato a ritrovare nella Bibbia «la giustizia e l’ingiustizia e la forza che abbatte l’ingiustizia»[26]. Nella sua Antologia personale intitolata La ricerca delle radici sceglie come primo capitolo il libro di Giobbe: «Perché incominciare da Giobbe?Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo. Giobbe è il giusto oppresso dall’ingiustizia…»[27].

Soprattutto Primo Levi, per il racconto della sua esperienza straordinaria e per l’impegno radicalmente assunto del compito instancabile di comunicarla, è lo scrittore che più di tutti rappresenta la concezione biblica di memoria e di testimonianza. «Il tratto tipico della civiltà ebraica, ancor più della semplice memoria, è vivere il ricordo come un precetto»[28]. Certo, nell’identità di Israele lo zikkaròn (memoriale) ordinato come precetto si riferisce innanzitutto ad un’esperienza di liberazione, quella dell’Esodo, e la Pasqua è festa gioiosa che nel memoriale intende far rivivere quella partecipazione di un popolo al protagonismo del Dio d’Israele, mentre la Shoah si riferisce alla catastrofe di quell’identità e alla denunciata assenza di quello stesso protagonismo: il dibattito filosofico e teologico dopo Auschwitz ha a lungo indagato su questo. Tuttavia testimoni come Primo Levi hanno preteso ugualmente «di trasformare in occhi gli orecchi altrui»[29], non perché l’evento si rinnovi, ma perché non sia più possibile che accada.

Gabriella Poli racconta che Levi, dopo il successo de Il sistema periodico, smise di fare il chimico per dedicarsi a tempo pieno al suo secondo lavoro di scrittore e si rassegnò a comparire in pubblico. Così si presentò alla platea torinese del teatro Carignano: «Sono un chimico. Sono approdato alla qualifica di scrittore senza sceglierla perché, catturato nel ’43 come partigiano, sono finito in Lager come ebreo e il mio primo libro è la storia del mio anno in Auschwitz. Era tale il bisogno di trasmettere l’esperienza che vivevo, di farne altri partecipi, di raccontare insomma, che avevo cominciato a farlo laggiù…ho scritto subito per due motivi. Primo: quanto avevo visto e vissuto mi pesava dentro e sentivo l’urgenza di liberarmene. Secondo: per soddisfare il dovere morale, civile, politico di portare testimonianza»[30]. La lettura di Shemà, una delle più celebri poesie di Primo Levi, accompagnata da quella delle pagine del Deuteronomio che lo ispirano (6,4-9.20-23; 11,18-20)[31], può valere come insostituibile paradigma del permanere delle radici bibliche anche nella letteratura italiana del Novecento:

 

Shemà

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi. (10 gennaio 1946)

 

Primo Levi ha testimoniato per 40 anni, senza sosta, partecipando a moltissimi convegni e soprattutto incontrando migliaia di studenti in centinaia di scuole. Lo scopo dell’incessante prodigarsi di Levi e di altri nel raccontare dei Lager e della Shoah fu quello di procurare nuovi testimoni per non interrompere la tradizione della memoria e della parola. Posso dire, in base alla mia esperienza di insegnante, di essere certo che non pochi giovani prendano sul serio questo compito: nonostante che queste generazioni siano rappresentate da molti come appiattite sul presente e prive di memoria (come di futuro) accolgono seriamente il comando del testimone. E confortano la speranza che ritornare alle radici abbia un senso.


 

[1] P. Levi, La ricerca delle radici, Einaudi, Torino 1981, p. 99.

[2] Aldo Bodrato, Humanitas 4 1990, Morcelliana, Brescia, pp. 450-477.

[3] Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti Milano 1988, p. 74 e p. 120.

[4] Aldo Bodrato, cit., p. 475.

[5]  Feltrinelli Milano 1991

[6] Spunti  interessanti  peraltro sono già presenti in Dall’immagine tesa, una poesia del 1920, otto anni prima della conversione, che chiude i Canti anonimi  del 1922, come sostiene Elisabetta Modena in un articolo sulla rivista In Purissimo azzurro, novembre 2007: Dall’immagine tesa / Vigilo l’istante / Con imminenza di attesa – / E non aspetto nessuno: / Nell’ombra accesa / Spio il campanello / Che impercettibile spande / Un polline di suono – / E non aspetto nessuno: / Fra quattro mura / Stupefatte di spazio / Più che un deserto / Non aspetto nessuno: / ma deve venire, / Verrà se resisto, / A sbocciare non visto, / Verrà d’improvviso, / Quando meno l’avverto: / Verrà quasi perdono / Di quanto fa morire, / Verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / Verrà come ristoro / Delle mie e sue pene, / Verrà, forse già viene / Il suo bisbiglio.

[7] Taccuino del vecchio, Milano 1960, p.16

[8] da Il Dolore

[9] Al fuoco della controversia, 1978

[10] SALMO 136:  Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!». Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia. Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme, dicevano: «Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta». Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra.

[11] Salvatore Quasimodo,  Giorno dopo Giorno 1947

[12] Salvatore Quasimodo Acque e terre (1947).

[13] Gabriella Moretti, Le storie di Giacobbe. Strutture bibliche nella “Coscienza di Zeno", «Rivista di Letteratura Italiana» 13,1-2 (1995) p. 137-158. 

[14] Ibidem, nota 1 p.137. Il saggio è molto utile anche per approfondire il tema dell’ebraicità di Svevo e dei suoi rapporti con Joyce. Un’utile bibliografia a pag.138 nota 4.

[15] S.Freud, L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino,1973, p.441

[16] «Si chiamavano… Ada, Augusta, Alberta e Anna…Quell’iniziale mi colpì molto più di quanto meritasse. Sognai di quelle quattro fanciulle legate tanto bene insieme dal loro nome. Pareva fossero da consegnarsi in fascio. L’iniziale diceva anche qualcosa d’altro. Io mi chiamo Zeno ed avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie lontano dal mio paese» (da I. Svevo, La Coscienza di Zeno)

[17] Nella Vulgata Lia è lippa (cisposa), ma in ebraico il termine è più generico e infatti Thomas Mann la fa strabica (Giuseppe e i suoi fratelli 1. Le storie di Giacobbe , Milano, Mondadori 1971, p. 283) esattamente come Augusta.

[18] Gabriella Moretti, Le storie di Giacobbe, cit., pp.155-156.

[19] Francesco Mattesini, Pascoli e la Bibbia, in «Lettere Italiane» 2, aprile-giugno 1984.

[20] In questo senso, credo, Mattesini (ibidem, p.152) prende le distanze dalla qualifica di estetico attribuita al cristianesimo pascoliano, sostenendo che quello del Pascoli è invece mimetico e virgiliano. Come legge la Bibbia per spiegare Dante, così Pascoli legge il Nuovo Testamento alla luce di Virgilio.

[21] Massimo Bontempelli, L’avventura novecentista, Vallecchi, Firenze 1938, p. 27.

[22] Giovanni Macchia, Luigi Pirandello, in Storia Lett. Italiana Il Novecento, Garzanti, Milano, 1969, p. 485.

[23] Resta fondamentale la riflessione di E. Auerbach in Mimesis, Einaudi, Torino.

[24] Da questo punto di vista Mistero Buffo può essere altrettanto significativo del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini.

[25] Eugenio Montale, La bufera.

[26] Da Il sistema periodico in P. Levi, Opere, I, Einaudi, Torino, 1988 p. 475-476.

[27] Primo Levi, La ricerca delle radici, Einaudi, Torino, 1981, p. 5.

[28] P. Stefani, La radice biblica, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 87.

[29] Ibidem, p. 107.

[30] Questa testimonianza della giornalista Gabriella Poli si trova in AA.VV. Primo Levi, la dignità dell’uomo Cittadella ed., Assisi 1995, p. 23-24.

[31] 6,4-9  4 Ascolta, Israele: Il Signore , il nostro Dio, è l'unico Signore .  5 Tu amerai dunque il Signore , il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze.  6 Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore;  7 li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.  8 Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi  9 e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città. […] 20 Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste prescrizioni che il Signore , il nostro Dio, vi ha date?»  21 Tu risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore  ci fece uscire dall'Egitto con mano potente.  22 Il Signore  operò sotto i nostri occhi miracoli e prodigi grandi e disastrosi contro l'Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa,  23 e ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci.

11,18-20  18 Vi metterete dunque nel cuore e nell'anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e ve le metterete sulla fronte in mezzo agli occhi;  19 le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai in viaggio, quando ti coricherai e quando ti alzerai;  20 le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte delle tue città.