Bibbia e letteratura, tra correlazione e identità

di Luciano Zappella

 

tratto da: Il mondo della Bibbia106 Gennaio-Febbraio 2011, pp. 47-50

 

È lecito considerare la Bibbia (Primo Testamento e Nuovo Testamento) come un testo letterario e accostarsi a essa come ci si accosta, per esempio, ai poemi omerici o alle tragedie di Shakespeare? Non si corre il rischio di ridurre la Bibbia a opera di fiction, depotenziandone il messaggio? Per valorizzare la “storia” (cioè la configurazione narrativa) non si rischia di svalutare la “Storia” (della salvezza)? Scopo delle righe che seguono è (cercare) di rispondere a tali interrogativi.

 

1. Bibbia (è) e fiction

Da ormai quarant’anni, l’analisi narrativa biblica ha mostrato come il carattere letterario della Bibbia non sia un accessorio decorativo, ma costituisca un dato essenziale per la trasmissione del messaggio: in quanto connotato esteticamente, il racconto biblico avanza la pretesa di essere un’opera letteraria[1]. Pertanto, lungi dall’essere l’esito finale di assemblaggi avvenuti nel tempo i cui autori altro non sarebbero che meri compilatori, i testi biblici sono coerenti sul piano narrativo e frutto di un consapevole e raffinato lavoro di composizione. Un altro aspetto qualificante dell’analisi narrativa è la sottolineatura della dinamica comunicativa che si istaura tra testo e lettore: nel momento in cui il lettore legge il testo, il testo, a sua volta, “legge” il lettore.

Parlare di fiction a proposito della Bibbia non è quindi né irriverente né una concessione alle mode del momento. Ma come è possibile che la parola di Dio sia affidata alla fiction?

Nella sua monumentale opera Tempo e racconto[2], Paul Ricœur sostiene la tesi che l’esperienza umana non può prescindere dalla dimensione del tempo e non può essere espressa se non con il racconto, il quale nasce dal vissuto temporale per poi trasformarlo. Ciò significa che «il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo e che il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale» (Tempo e racconto I, p. 91). Le tre dimensioni del tempo (passato, presente, futuro) danno vita alle tre fasi (Mimesis I, II, III secondo la terminologia che Ricœur mutua da Aristotele) in cui si articola l’ermeneutica del testo: dalla prefigurazione si giunge alla rifigurazione passando attraverso la configurazione. La prefigurazione è il vissuto che precede il testo e il presupposto del racconto; la rifigurazione è la lettura del testo, la sua ricezione, gli effetti del testo sul lettore; la configurazione è il momento mediatore, la costruzione di un intreccio (mise en intrigue), vale a dire l’organizzazione narrativa di un insieme di fatti che si svolgono nel tempo. In breve: la prefigurazione è il motivo per cui si racconta; la configurazione è il come si racconta; la rifigurazione è il fine per cui si racconta.

Cosa ha a che fare tutto ciò con il racconto biblico? Gli scrittori biblici non fanno altro che raccontare partendo da una prefigurazione (l’incontro con Dio, con Gesù) in vista di una rifigurazione (il passaggio dall’incredulità alla fede) passando attraverso la configurazione del racconto (la storia della salvezza nel suo intreccio). Se è vero quindi che la Bibbia è il racconto di un’alterità che entra nel mondo, la rivelazione di Dio nel tempo della storia (history) non può che diventare l’organizzazione temporale della storia (story) di quella rivelazione. Rispetto alla fiction in genere, l’elemento tipico della narrazione biblica è l’incontro-scontro tra la volontà salvifica di Dio e la libertà umana di accettare o meno tale salvezza[3].

Come è noto, la Bibbia non è un trattato teologico-dogmatico, ma il racconto di un’esperienza di fede. Gli stessi personaggi biblici sono esseri umani in continua evoluzione, con i loro alti e bassi (spesso più bassi che alti). Se dunque la «narrativa di finzione storicizzata» (come la definisce Alter) è la modalità prevalente, ciò dipende dal fatto che il racconto è modalità pedagogica per eccellenza: la dimensione narrativa non è qualcosa di accessorio, ma è categoria fondamentale dell’esistenza umana, tanto che si può parlare di una pedagogia narrativa. Come sottolinea E. Parmentier,  «il racconto non è soltanto una storia con un messaggio. La storia è il messaggio: narrandolo, lo fa accadere. Facendo finta di raccontare la storia di un altro, spinge il lettore in una storia che è anche sua»[4]. Non c’è quindi parola che crea, senza racconto della creazione; non c’è Logos che si incarna, senza il racconto dell’incarnazione.

 

2. Bibbia è (e) letteratura

Il nesso Bibbia-letteratura è da intendersi in termini non solo di correlazione (la Bibbia e la letteratura), ma anche di identità (la Bibbia è letteratura). La Bibbia è parola che si fa carne, cioè entra nel vissuto di un popolo e di un singolo che si scopre preceduto da una Parola significativa. Come la letteratura, la Bibbia è il racconto, a posteriori, di un’esperienza significativa. Come la letteratura, la Bibbia è una storia che genera altre storie, sia all’interno del testo sia al di fuori di esso. E se è vero che i motivi fondamentali della letteratura di tutti tempi sono la morte, lo stupore, la compassione e la rinascita[5], allora possiamo dire che la Bibbia è letteratura a tutti gli effetti. Piaccia o no, la Bibbia è giunta fino a noi come testo e come testo scritto: la Scrittura è giunta a noi in forma di scrittura.

Se la Bibbia ha prodotto grande letteratura, ciò dipende dal fatto che è la Bibbia stessa a essere grande letteratura. La Bibbia non è soltanto una cava da cui si estraggono blocchi di marmo da lavorare in vista di costruzioni sontuose, ma è essa stessa un deposito di materiali già lavorati e rifiniti a regola d’arte. Tali materiali sono caratterizzati da tre aspetti.

 

a. Tra commedia e tragedia

Come succede in tanti testi letterari, anche nella Bibbia i vari motivi letterari ruotano intorno al motivo della caduta, dalla prosperità alla perdita (tragedia), e al motivo della risalita, dalla schiavitù alla prosperità (commedia).

In ambito biblico, le vicende propriamente tragiche sono una continua variazione sul tema della disobbedienza a Dio. Fin dall’inizio (Genesi 3) c’è un racconto di “delitto e castigo”. Ugualmente tragica è la vicenda di Sansone (Giudici 13-16). Ma la tragedia per eccellenza è quella che vede coinvolto Saul (1 Samuele 13-31): il suo tentativo di consolidare la leadership fallisce miseramente. Un caso particolare è rappresentato da Gesù. La vicenda che lo vede protagonista ha tutti i connotati del “tragico”, ma con una differenza fondamentale (e fondante): la sua non è la morte del colpevole, ma dell’innocente. Con la sua morte, Gesù rompe il meccanismo del «capro espiatorio» e smonta l’equazione sacro = violenza.

Nella Bibbia tuttavia l’esito tragico è quasi sempre solo potenziale, in quanto, a differenza dell’eroe greco, quello biblico riconosce i suoi limiti e accetta il perdono di Dio (esemplare da questo punto di vista la vicenda del peccato di Davide con Betsabea). Ciò spiega il motivo per cui la forma narrativa prevalente nella Bibbia sia la commedia (lieto fine). “Comica”, per esempio, è la vicenda di Rut, quella di Ester, i racconti relativi alla promessa di un figlio a Abramo e a Sara, la saga di Giuseppe, nonché la parabola del figlio prodigo. Ma struttura “comica” informa la Bibbia nel suo complesso, in quella parabola che è compresa tra la Genesi e l’Apocalisse: si comincia con l’eden, immagine di un mondo perfetto abitato da persone perfette; si scade nella disperazione dell’umanità soggetta al peccato e si conclude con un nuovo mondo di totale felicità e vittoria sul male. 

 

b. La “voce” narrativa

Sebbene siano anonimi, plurali, voce collettiva, gli autori dei testi biblici non sono meri esecutori, ma scrittori ispirati di e da una ispirazione; la qualità della loro ispirazione non dipende né da un’ascesi intima né da un personale esercizio letterario-filosofico, ma è permeata da una dimensione comunitaria; la materia della loro ispirazione non è l’enthusiasmòs platonico, ma una Parola che li precede, senza tuttavia comprimere la loro libertà artistica.

Sul piano della voce narrante, il narratore biblico si presenta come onnisciente. La sua onniscienza è evidente fin dalle prime parole, in quel racconto dell’inizio che costituisce anche l’inizio del racconto. Ciò dipende dal fatto che il “personaggio Dio” è la fonte della scienza del narratore. Ma si tratta di una onniscienza narrativa, non teologica: il narratore è onnisciente in quanto narratore. C’è come un gioco di specchi e di punti di vista incrociati tra il narratore e Dio: Dio crea il mondo nella narrazione e il narratore crea il mondo della narrazione; la narrazione della creazione coincide con la creazione della narrazione. Ne consegue che la creazione artistica è una sorta di ri-creazione del mondo.

Raramente però il narratore biblico abusa della sua onniscienza, preferendo ad essa una discreta reticenza, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, quasi a voler condividere con il lettore il loro mistero. Con la moltiplicazione dei silenzi, delle ellissi e degli spazi bianchi, il narratore biblico (come fanno i grandi scrittori) istituisce un patto di lettura con il suo lettore. E non può essere diversamente visto che la Bibbia è la narrazione del patto tra Dio e gli esseri umani.

 

c. L’intertestualità

Partendo dall’osservazione di Piero Boitani secondo cui «la letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita» (p. xii), vorrei, in questa ultima parte, mostrare come la Bibbia sia giunta a noi non come scrittura ma come ri-scrittura, non come «parola prima», ma come «parola seconda» (deuteros-logos). Questo dipende da un motivo storico-redazionale. La Bibbia ebraica, come i poemi omerici, prima di essere parola scritta è tradizione orale; la redazione della tradizione orale è stata un’operazione collettiva di cui non possiamo certo tracciare una cronologia precisa. Possiamo però dire che il Primo Testamento è stato prima parlato, poi scritto e infine riscritto, ma riscritto a partire dall’evento chiave costituito dall’esilio in Babilonia (586), il ritorno (538) e la ricostruzione del Tempio (520-515). Il ritorno e la ricostruzione costituiscono il momento a partire dal quale si rileggono, e quindi si riscrivono, tutti i “movimenti” precedenti (il viaggio di Abramo, quello di Giuseppe in Egitto, l’esodo del popolo). Si potrebbe dire che i movimenti di andata e ritorno del popolo corrispondono alla fase della scrittura e alla fase della riscrittura.

Il testo biblico, quindi, non avanza in modo rettilineo, né dal punto di vista della cronologia né da quello del contenuto, ma ritorna indietro; anzi, avanza tornando indietro; di conseguenza, la scrittura non è altro che una riscrittura. I tre testi che costituiscono il punto prospettico da cui si parte per ri-scrivere ciò che precede sono il Deuteronomio (che riprende e ricapitola la Torah), il DeuteroIsaia (che riprende e ricapitola i Profeti) e Proverbi 1-9 (che riprende e ricapitola gli Scritti), mentre il Nuovo Testamento riprende e ricapitola il Primo Testamento.

Questo spiega perché una delle risorse letterarie più evidenti nel testo biblico sia l’intertestualità, cioè il complesso delle relazioni che si instaurano tra testi. La Bibbia non è soltanto un lungo dialogo tra Dio e l’essere umano, ma anche un insieme di testi che dialogano tra loro. In effetti, l’intertestualità non è altro che un dialogo tra testi: può essere interna, quando i vari testi che formano un testo dialogano tra loro (sono gli effetti del testo sul testo), oppure esterna, quando il testo dialoga con altri testi, letterari o di altro tipo (sono gli effetti del testo su altri testi, cioè la Wirkungsgeschichte).

 

3. La Bibbia e la letteratura

Come le basiliche paleocristiane spesso sorgevano su edifici greco-romano in un rapporto di riuso e di riconfigurazione del materiale preesistente (ma analogo fenomeno si registra anche in ambito culturale e filosofico), così il nesso tra Bibbia e letteratura va colto nel rapporto tra ipotesto (scrittura) e ipertesto (riscrittura), tra ascendenze bibliche e discendenze letterarie.


 

[1] Tra la vasta letteratura in merito, mi limito a segnalare: R. Alter, L’arte della narrativa biblica, Queriniana, Brescia 1990 (ed. or. 1981); D. Marguerat – Y. Bourquin, Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all’analisi narrativa, Borla, Roma 2001 (ed. or. 1998, 20022); J.L. Resseguie, Narratologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2008 (ed. or. 2005).

[2] Tempo e racconto. I, 1983; Tempo e racconto. II. La configurazione del racconto di finzione, 1984; Tempo e racconto. III. Il tempo raccontato, 1985 (tutti editi da Jaca Book, Milano 1983, 1985, 1988).

[3] «Chi avesse la pretesa di ridurre i grandi accadimenti ad un comune denominatore, potrebbe dire che la profondità con la quale la natura umana è immaginata nella Bibbia è una funzione del suo essere concepita in quanto assunta nella potente interazione di questa doppia dialettica tra disegno  e disordine, provvidenza e libertà» (Alter, p. 49)

[4] E. Parmentier, La Scrittura viva. Guida alle interpretazioni cristiane della Bibbia, EDB, Bologna 2003, p. 115.

[5] Cfr. P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, Laterza, Roma-Bari 2007.