L'interpretazione patristica del Cantico dei cantici

 

don Patrizio Rota Scalabrini

biblista - Facoltà teologica - Milano

 

relazione tenuta alla Fondazione Serughetti La Porta nell'aprile 1993

 
 

La mia preoccupazione sarà di capire cosa si è giocato con la interpretazione patristica del Cantico dei Cantici (d'ora in poi Cdc). Io non sono patrologo, ma biblista e, nell'elaborare questa relazione, mi sono riferito in particolare al notevolissimo tomo di Anne Marie Pelletier, una donna che ha studiato le interpretazione del Cdc, dando una lettura consapevole anche delle problematiche ermeneutiche. Non devo parlare direttamente del Cdc, ma delle interpretazioni che ha ricevuto nella storia cristiana.

Traccerò dapprima un breve bilancio delle ricerche moderne e in seguito proverò a ridire quali sono gli elementi di una nuova problematica nel leggere l'interpretazione patristica. Dopo aver fatto questo, vedremo l'interpretazione patristica del Cdc e successivamente il prolungamento di questa interpretazione, perché in fondo c'è una reiterata storia di lettura del Cdc nella chiave patristica fino al 1500-1600, a cui fa seguito l'esegesi moderna. Alla fine, faremo una specie di bilancio critico, che non vuole apparire come un'esegesi storico-critica, ma piuttosto il tentativo di accordare le due esegesi, che non sono l'una contro l'altra armate.

 

1. Le letture attuali (la ricerca del senso naturale di K. Barth, quella tipologica di Danielou, quella allegorica di Feurier, quella simbolica di Shoekel, Ravasi e Garrone) hanno una duplice preoccupazione: usare il testo come criterio esclusivo del senso e vedere il senso del testo nella sua origine. E allora si va alla ricerca dell'autore del Cdc, delle fonti, del genere letterario, dell'eventuale ricostruzione dell'Urtext (il testo originario), delle tradizioni orali, dell'uso primitivo del testo, e così via. Le ragioni sono tali che ci obbligano a valutare le ricerche moderne con il sospetto che il lavoro scientifico non sempre sia mosso da principi scientifici, ma a volte anche da presupposti ideologici e storici. Ho il timore che, a volte, la nostra rivendicazione del Cdc sia in fondo post-puritana o post-giansenista. Io penso che gli Ebrei non avessero nessun problema a rivendicare la valenza positiva della sessualità, la quale per loro non era un problema. Il bisogno di farlo diventare il tema del Cdc è più nostro, che l'abbiamo smarrito. Non voglio dire che questa lettura non sia possibile, ma quando andiamo alla ricerca del senso originario non sappiamo mai con facilità quali siano le intenzioni, anche perché il Cdc non è un testo d'archivio.

Suggerisco due ambiti critici: il primo riguarda le incertezze e i problemi di metodo nella ricerca del senso del Cdc, il secondo riguarda i limiti teoretici di questa ricerca.

Per quanto concerne il primo punto, c'è un gruppo di incertezze relative alla struttura del Cdc: non si dimentichi che nei testi antichi non esisteva la suddivisione in versetti e, per risparmiare la carta, si ponevano le parole una accanto all'altra, ciò che rende difficile la ricostruzione del testo originario. Al proposito, infatti, qualcuno dice che il testo è stato composto da tre, quattro, o addirittura da undici mani (diventa difficile capire quale sia l'intenzione dell'autore in un testo che si suppone scritto da undici autori). Ci sono poi incertezze sulla datazione, sulla figura di Salomone, sul luogo di origine (non intendo certo il luogo fisico, che è la Palestina, ma il contesto). Il secondo gruppo di incertezze riguarda i sospetti sugli effetti di proiezione, tanto da far sorgere il dubbio che giochino delle convinzioni personali, e allora sono preferibili le letture che spiegano il maggior numero di elementi. Quella, per esempio, che cerca di leggere di Cdc nel contesto sapienzale mi sembra la più fondata perché riesce a raccogliere il maggior numero di elementi e integra meglio il testo nel suo contesto canonico (in fondo, la problematica sull'inserimento del Cdc nel Canone non è indifferente per la comprensione del testo, checché ne dica il Duban in un articolo che, a suo tempo, fece scalpore). Un terzo gruppo di incertezze è l'importanza data all'origine del testo, se si tratta, cioè, di un testo orale oppure no.

Il secondo cerchio di problemi, secondo me più profondi, riguarda i problemi teorici della ricerca del senso del testo. Ci si vuole in qualche modo avvicinare ai testi cercando in essi un'ipotesi di lettura che sia il senso originario e, alla luce di questo, valutare tutti gli altri tentativi. Quando ci si avvicina a questi testi dobbiamo sempre ricordarci l'atteggiamento dal quale essi vengono generati. Ci sono due diverse modalità di lettura: in passato esisteva un atteggiamento per il quale, a partire dal testo, si cerca di generare altri testi; nella moderna lettura storico-critica, invece, si cerca questo lavoro passato come un'ipotesi sul senso da dare al testo. In fondo, i Padri non erano preoccupati di dare il senso al Cdc, ma di dare un senso alla vita. Che poi riuscissero a darlo o meno, lo dovremo valutare. Anche perché spesso noi facciamo dire ai Padri ciò che essi non avevano intenzione di dire. Credo che allora si tratti di elaborare una più consapevole teoria del senso, cioè una più consapevole semiotica: bisogna caratterizzare la teoria del senso che sottostà a simili disposizioni circa la storia.

Spesso nelle inchieste critiche sul Cdc si fa la ricerca del senso vero, fondato in riferimento al senso originale; ma questa concezione è del tutto motivata? Si pensa, per esempio, al senso come ad una proprietà del testo e si pensa al soggetto come a un soggetto trasparente che accoglie il senso. Penso che si tratti di un'idea molto illuminista di verità, molto razionalistica, sottratta all'idea di storia, alla volontà e all'interazione lettore-testo. La lettura non esiste, non esiste il senso del testo, esiste solo una lettura del soggetto reale. Anche quella che noi facciamo come esegesi critica, e che dobbiamo fare perché fa parte della nostra cultura, di fatto è una possibilità di lettura che non si sottrae alla storia.

 

2. Passo allora al secondo momento di questa riflessione, cioè la necessità di mettere in opera una nuova problematica nella lettura del Cdc. Non si tratta di fare una ricerca storico-critica, ma di comprendere che l'esegesi che ci ha preceduto ha posto domande diverse, una diversa idea di storicità e che, perlomeno, l'idea di storicità ha una nozione ben più complessa che ingloba sì l'origine del testo, ma che di essa fa soltanto un elemento, che in definitiva il senso del testo non è soltanto la sua origine. Se per esempio noi riduciamo una canzone partigiana all'intenzione di chi l'ha trascritta, povera canzone partigiana! È la storia di chi l'ha cantata e il contesto nel quale è stata pronunciata che è significativo. Credo allora che sia necessario riconquistare una coscienza della storicità del testo, quella che si chiama attualmente la storia dell'efficacia, in base alla quale un testo genera una tradizione di lettura, una serie di esperienze nelle quali il lettore viene più o meno coinvolto; il lettore è necessariamente situato e si crea un dialogo con il testo, una fusione di orizzonti.

La mia domanda è: qual è stata la fusione di orizzonte dei Padri? Non vorrei dare l'impressione di difendere i Padri, quando poi anch'io, quando faccio esegesi con i miei studenti, sposo i metodi moderni. Tuttavia, mi sembra che da questo a valutare con sufficienza l'impresa patristica debba correre una notevole distanza. Dal momento che negli studi recenti si polarizza l'attenzione sul senso originale come senso vero del testo, ne deriva la necessità di un duplice spostamento di attenzione. Il primo spostamento consiste nel vedere come sia esistito un testo nella storia (non si dimentichi che l'idea di una Bibbia che sta comodamente su un tavolino e che noi leggiamo abitualmente è relativamente recente): se il testo esiste sottoforma di citazione di inno o di parafrasi, non è la stessa cosa che se esistesse come testo liturgico: immediatamente assume un altro significato. Il secondo spostamento, conseguente al primo, riguarda l'uso che viene fatto del testo. Ripeto, questo mi sembra il difetto di noi esegeti: guardare soltanto i commenti ci impedisce di vedere le altre forme d'incontro con il testo biblico, in particolare con il Cdc. Noi dobbiamo porre attenzione a una serie di strategie enunciative che non entrano nello schema della semplice spiegazione. Noi abbiamo avuto circa 1500 anni di esegesi che non voleva affatto spiegare il testo (almeno per quanto riguarda il Cdc). Per esempio, quando noi parliamo della citazione e della parafrasi, ci riferiamo a due realtà molto complesse: se un testo esiste sottoforma di citazione, è importante sapere chi cita, perché cita, per chi cita; e anche la parafrasi non è solo la spiegazione di dati preliminari, ma cerca di elaborare una propria comprensione ed un vero atto di messa in opera del nostro linguaggio.

Passiamo ad una verifica di ciò. Nel Cdc ci sono delle proprietà che vengono in soccorso di questi spostamenti di attenzione che ho delineato. Innanzitutto, mi sembra che tutto il Cdc sia segnato dalla soggettività: c'è un io rapportato con un tu. Questo rapporto io-tu tende ad essere l'unica cosa di cui si parla. E se in tutta la Rivelazione c'è la parabola dell'amore, qui la parabola è pura enunciazione del rapporto tra amante e amato, è puro significante, senza che ciò permetta di trarre l'indicazione "questo significa che...". Dal punto di vista interpretativo, il testo si presenta come un invito a noi lettori ad entrare in uno scenario di enunciazione, non di spiegazione. Un conto è spiegare un testo, un conto è enunciarlo. Per esempio, se io spiego Giobbe, è un conto; ma se voglio enunciarlo, devo farne una rappresentazione drammatica, perché ciò è nello stile di Giobbe. Si tratta quindi di entrare in uno scenario enunciativo. Non bisogna eliminare il dialogo tra l'io e il tu sostituendovi un pronome di terza persona, del tipo "l'amato dice così", "l'amata dice così". Che senso avrebbe oggettivare l'amato e l'amata? "Mi baci con i baci della sua bocca" chi lo dice? L'amata all'amato? In questo senso il Cdc è uno dei testi più problematici, proprio per questa sua natura difficilmente definibile.

 

3. Con queste premesse entriamo nel merito del nostro discorso. Chi legga il megacommento al Cdc di G. Ravasi resterà forse stupito nel vedere, in un'ampia appendice, la sterminata mole di commenti, sermoni e inni che il Cdc ha suscitato nella tradizione cristiana. Vediamo dapprima quali sono stati gli usi del Cdc. Il primo uso è quello liturgico, il secondo è quello innologico e il terzo quello omiletico (per quanto concerne l'uso epistolare non ci sono elementi particolarmente significativi). A proposito dell'uso liturgico, occorre ricordare lo statuto liturgico della Sacra Scrittura: nella liturgia la ripresa di un testo biblico non è mai una semplice citazione, ma una riassunzione negli atti di oggi di una parola passata, della quale si riconosce l'attualità. Atto costitutivo della liturgia è: non si fa memoria di un fatto passato, ma si celebra un presente. Come direbbero i rabbini, "quando noi siamo passati in mezzo al mare, i ventri delle donne divennero di cristallo trasparente", che significa: siamo passati tutti. L'esistenza liturgica della Sacra Scrittura fa, per così dire, il passaggio dalla scrittura alla lettura (non a caso, gli Ebrei chiamano la lettura della Bibbia "miqrà"). Bibbia e liturgia sono legati dalla loro stessa origine.

a. Ora, il fatto di legare il Cdc alla liturgia non è un'operazione ideologica di addomesticamento del testo. Esso veniva usato in determinati contesti: il Battesimo, la velatio virginum e, sorprendentemente, il martirio (nel Cdc c'è un amore che combatte contro la morte ed è più grande della morte: se non è amore quello del martire che offre se stesso e sfida la morte per un amore più grande!). I due autori che bisogna ricordare per l'uso liturgico del Cdc sono Cirillo di Gerusalemme e Ambrogio di Milano. Il presupposto della rilettura liturgica del Cdc è il seguente: si è introdotti in una nuova situazione di cui il Cdc offre una enunciazione; il sacramento del Battesimo introduce in una vita nuova e il battezzato può far propria la voce della storia e usare il Cdc per capire la nuova situazione in cui si trova. In questo uso della liturgia si ha a che fare con un agire giusto che mi consente di dire il Cdc: il Battesimo mi pone in una novità di vita e solo la novità dell'amore e dell'innamoramento può dire la novità di vita. Devo usare il linguaggio degli innamorati per esprimere questa novità, così come l'offerta di sé del martire per la quale il Cdc offre l'idea del dono pieno del corpo, il dono fisico dell'amore, simbolo di un dono pieno che può anche passare attraverso le fiamme della morte. Nei primi secoli, quindi, la liturgia ricorre al Cdc, anche se con parsimonia, con la convinzione che il Cdc, prima ancora di essere oggetto di spiegazione, spiega. Esso ha la capacità di suscitare presso il lettore un discorso nuovo; noi ci chiediamo: "cosa vuol dire il Cdc?", mentre i Padri dicevano: "come si può dire questa nuova situazione di esistenza (il battesimo)? come dire che uno di noi ha avuto il coraggio di consegnare se stesso al martirio? qual è il linguaggio adeguato?": questo linguaggio veniva trovato proprio nel Cdc.

b. Suscitando nuove enunciazioni, nuove scritture, il Cdc viene usato anche per gli inni, spesso dedicati a Maria oppure alla Chiesa. Ve ne propongo uno, nella traduzione di Ravasi. Si tratta di un inno siriaco a commento di Cdc 1,5-6 ("Nera sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma. Non state a guardare che sono nera, poiché mi ha abbronzato il sole"): "Perché uno diventa nero? Perché sta al sole. È adorando quel sole che son diventato nero, mi son bruciato. Il fumo degli olocausti mi ha colpito, il vapore dei sacrifici mi ha contaminato la fisionomia, il fumo mi ha reso nera e detestabile. Figlie di Gerusalemme, venite a vedere la mia gloria perché il mio sposo mi ha sposata, sono diventata più bianca della neve e della luce. Lo sposo mi ha presa quando ero nera e detestabile; fece scendere in me, durante il battesimo, il fuoco e lo spirito e all'uscita dalle acque mi ha dato un viso splendente: quanto sei bella ora, figlia di Amorrei, quanto sei bella! Le tue parole sono più dolci del miele stillante. Le tue parole sono dolci, il tuo sguardo è luce, la tua parola è vita e soavità, e il tuo sposo è il tuo ornamento, il suo sangue è sul collo della tua collana, la sua croce vivente è il glorioso diadema che egli ti ha posto sul capo".

c. Passiamo adesso ai commentari. Il commento nasce come esercizio pastorale di predicazione, come esercizio di lettura pubblica della Scrittura, soprattutto in relazione al dibattito sullo statuto delle scritture giudaiche (penso, per esempio, a Giustino per il quale il commento coincide spesso con il movimento stesso della comprensione cristiana delle scritture). Il commento è nato anche con la preoccupazione dei cristiani che si chiedevano: come facciamo a leggere le scritture degli Ebrei che non erano nostre, ma lo sono diventate grazie a Cristo? Credo che questo sia il primo contesto del Cdc, perché è anche il contesto con cui i cristiani per secoli hanno tentato di leggere le Scritture. In fondo, erano scritte da un popolo diverso da loro; non avevano la stessa tradizione, ma ad un certo punto hanno detto: questo libro parla anche di noi. Quando, per esempio, nel Cdc si dice "Viene saltando sui monti" (2,8), i cristiani vedevano tutti i salti del verbo di Dio: ha fatto un salto e si è tuffato nel grembo della vergine Maria, ha fatto un salto ed è venuto al mondo, ha fatto un salto ed è salito sulla croce, ha fatto un salto ed è finito negli inferi a liberarmi, ha fatto un salto ed è risorto. Si tratta, ovviamente, di una forzatura, ma serve a darci un'idea di come i primi cristiani si sono avvicinati alla Bibbia: questi testi dovevano parlare della vita in Cristo; essi non hanno preso la Bibbia, specialmente quella ebraica, come un documento erudito della cultura ebraica, ma come un libro che parlava loro di Cristo.

Il primo commentario al Cdc è quello di Ippolito, il quale fa un tentativo che in fondo non è tanto diverso da quello compiuto dagli Ebrei: leggere la storia della salvezza nel Cdc, quindi la liberazione, l'esilio, il ritorno, il tutto, però, riferito a Cristo, alla Pasqua di Cristo, la nostra liberazione, mentre nella lettura ebraica si insiste sullo schema: entrata nella terra, perdita della terra, nuovo esilio, ritorno alla terra (sono le fasi della storia della salvezza). Il Cdc, del resto, richiama continuamente questa storia: la sposa non è paragonata solo a degli elementi naturali, ma sullo sfondo c'è sempre la terra promessa: "Tu sei bella come Gerusalemme e sei leggiadra come Tilsa" (6,4). Per leggere l'amore umano bisogna riferirsi alla storia dell'amore di Dio per l'uomo, perché è solo quell'orizzonte che conferisce pieno spessore all'amore umano e l'amore umano è il linguaggio più adeguato per dire davvero ciò che si gioca nella storia tra Dio e l'uomo (si vedano gli esempi di Osea e, nel Nuovo Testamento, di Giovanni).

Origene ci ha lasciato due omelie sul Cdc. Egli aveva scritto un commento in dieci libri, dei quali però ci restano solo i primi quattro relativi ai capp. 1-2. È noto che il metodo di Origene si basa sulla allegoria. Per coloro che ritengono l'allegoria un procedimento un po' oscurantista, che serve ad adattare il testo ai proprio bisogni, bisogna ricordare che Origene, prima di tutto, spiega il senso letterale, per evitare che l'allegoria si trasformi in arbitrio. L'idea di fondo è che il testo non serve a spiegare se stesso, ma deve far crescere la carità e quindi dev'essere in funzione della vita cristiana. E allora c'è un senso per chi è all'inizio del cammino, per chi sta camminando (i proficientes) e un senso per chi è perfetto. La concezione di mistero in Origene è, sostanzialmente, platonica (il sensibile rimanda all'intellegibile) e si differenzia, quindi, dall'idea biblica, secondo la quale il mistero è un piano nascosto nel cuore di Dio che si rivela storicamente: il mistero è ciò che è rivelato e conosciuto, che era nascosto ma che ora è noto. E tuttavia l'etichetta di platonico non rende giustizia allo sforzo origeniano, secondo il quale il sensibile non è tanto ciò che cade sotto i sensi, ma sono i fatti e gli eventi della storia, compreso l'amore umano, mentre invece l'intellegibile non sono le idee, bensì una persona, il Figlio di Dio. La nostra storia, le nostre vicende, il nostro amore, le nostre sofferenze parlano di lui. Lo schema, insomma, è platonico, ma il contenuto non più di tanto. E allora Origene sottopone ad un'indagine rigorosa il senso letterale con i mezzi che aveva a disposizione.

Per dare un assaggio della lettura origeniana, prendo il commento a Cdc 1,2 ("mi baci con i baci della sua bocca"). Origene così commenta: "Si ricordi quanto abbiamo osservato nella prefazione, che cioè questo libro ha forma di carme nuziale, che è stato scritto a modo di azione drammatica in cui sono introdotti alcuni personaggi a parlare e intanto ne sopraggiungono altri, altri si allontanano, altri entrano in scena e così tutta l'azione si svolge con cambiamenti di personaggi. Tale è la forma dell'intero libro. Su questa base, noi adotteremo, nei limiti delle nostre capacità, l'interpretazione letteraria; l'interpretazione spirituale, invece, sempre secondo quanto abbiamo indicato nella prefazione, ha per oggetto la Chiesa che va a Cristo sotto la figura dello sposo e della sposa e l'anima che si unisce al verbo di Dio". Faccio notare che Origene faceva sempre due tipi di lettura, la lettura personale (ognuno si deve leggere in questa storia) e quella ecclesiale. "Introduciamo, perciò, il significato letterale di «mi baci con i baci della sua bocca». E' una sposa che ha ricevuto doni degnissimi a titolo di doni nuziali e di dote da parte del suo nobilissimo sposo, ma non ha lo sposo. Poiché lo sposo indugia molto a lungo, essa è presa ed eccitata dal desiderio del suo amore e si strugge giacendo in casa e fa di tutto perché possa finalmente rivedere l'amato sposo e godere tutti i suoi baci. E poiché essa vede che il suo amore soffre e indugia e che non può ottenere ciò che desidera,  si volge alla preghiera e supplica Dio, sapendo che egli è il padre dello sposo. Osserviamola perciò che innalza le mani sante, vestita decorosamente con sobrietà, donna di più degni ornamenti che si addicono a nobile sposa, ardente per il desiderio dello sposo, agitata da ferite interiori d'amore, mentre rivolge la preghiera a Dio e dice del suo sposo «che mi baci con i baci della sua bocca». Questi argomenti composti a modo di azioni drammatica presenta l'interpretazione letterale. Ma vediamo come si possa adattare questo ad un significato più profondo. Immaginiamo che la sposa sia la chiesa che desidera unirsi con Cristo e che per chiesa si intenda l'insieme di tutti noi santi; perciò questa chiesa sia come un personaggio che rappresenti tutti e parli così: tutto posseggo, tutta sono piena di regali, a titolo di doni nuziali, ma voglio lo sposo". Segue poi il terzo argomento relativo all'anima.

Propongo adesso il passo relativo a Cdc 2,8 ("La voce del Diletto: Ecco egli viene, correndo per i monti, balzando per i colli"; inutile dire che i Padri vedranno in quel "diletto" il Cristo e nella "collina" il monte dell'amore; ma del resto è Giovanni stesso che presenta la morte di Cristo come un giorno nuziale): "Più volte è stato opportuno ricordare che questo libro è composto in forma di azione drammatica, così questo versetto indica che la sposa, mentre parla alle giovani figlie di Gerusalemme, improvvisamente, come da lontano, ode la voce dello sposo che parla con qualcuno; allora interrompe di parlare con le fanciulle, porge l'orecchio alle parole che la raggiungono e dice «è la voce del mio amato». In quanto poi allo sposo, immagina che prima di mostrarsi agli occhi della sposa, egli si fa riconoscere solo con la voce, poi si mostra allo sguardo di lei,  mentre sale su alcuni monti vicini al luogo dove si trova e valica colli a mo' di cervi e capriolo, e così si affretta con tutta sollecitudine verso la sua sposa. Quando arriva alla casa dove si trova la sposa, egli indugia ancora un po' dietro la casa,  così che ella percepisca la sua presenza, senza però entrare dentro manifestamente, volendo prima osservare la sposa, quasi come fa un amante attraverso la finestra. Immagina ancora che presso la casa della sposa siano stati collocati dei lacci e delle reti per catturare la sposa o qualcuna delle compagne delle figlie di Gerusalemme se mai fosse uscita. A queste reti arriva lo sposo, sicuro di non essere catturato; essendo più forte, le rompe e, avendole rotte, ci passa sopra e guarda attraverso di loro. Dopo aver fatto ciò, dice alla sposa: «alzati, tu che mi sei vicina, mia sposa, mia colomba, mia bella, vieni»". Continua poi con la spiegazione spirituale dicendo che il capriolo non può che essere il verbo di Dio; i balzi sono quelli della missione cristiana; la sposa è la chiesa che lo attende, ma lui la guarda con tanta tenerezza e la spia come  un amante spia l'amata.   

Se dobbiamo fare un bilancio su questi usi di cui abbiamo dato un assaggio (ma bisogna ricordare anche i nomi di Gregorio di Nissa, S. Agostino, S. Girolamo e molti padri siriaci), possiamo riconoscere questo elemento: che un testo non lo si riceve dall'esterno, per cui bisogna trovarne un senso; non si riceve in determinate circostanze, in luoghi discorsivi che già danno il significato e il senso del testo. Se il testo è difficile, non lo è per motivi di ordine intellettuale, ma per motivi di ordine spirituale: il testo è adatto ad essere compreso dai perfetti e deve far progredire il lettore. La lettura all'interno di una situazione vitale non è vista come una costrizione, ma costituisce un luogo di risonanza (è come se questa voce dovesse continuare a risuonare). Il Cdc, quindi, come tutti gli altri testi biblici, è capace di spiegarsi al suo interno (si noti che questa è anche la tesi di Lutero: "Scriptura per se facillima"): in qualche modo, la prima esegesi del testo si ha nel testo stesso; il testo si spiega, ovviamente non isolato, ma nella catena dei testi biblici. Origene non pensava di isolare il Cdc dal canone, che vedeva nella Prima lettera di Giovanni il suo culmine (quando Bernardo di Chiaravalle scriverà le famose 86 omelie sul Cdc, l'abbinamento è tra Cdc e Prima lettera di Giovanni). È infine utile ricordare il rapporto essenziale del commento con la predicazione: non si scrive il commento tanto per la pubblicazione scientifica, ma in vista della predicazione.

 

4. Questo tipo di incontro si prolunga anche nelle fasi successive alla cosiddetta "epoca patristica". Il Medioevo non è solo il periodo che vede la produzione di summe, di glosse, di catene, ma soprattutto il periodo dei commentari; in fondo,  le opere maggiori di s. Tommaso non erano le summe, ma i commenti. Ebbene, nel Medioevo il Cdc ha avuto un interesse vastissimo, ma con una novità. Con Uberto di Doiz, per esempio, si è cominciato a dare molta importanza alla lettura mariologica, la quale comincia a coesistere con la lettura ecclesiologica e quella antropologica. Si tratta, però, di letture che non saranno mai all'altezza di quelle che le hanno precedute: Anselmo d'Aosta, infatti, si riporta all'interpretazione del Cdc in chiave ecclesiologica.

Tra le varie letture del Cdc in epoca medievale, ricorderò solo quelle che mi sembrano più significative. La prima è quella di Gertrude di Efta, una beghina, che ha scritto sette esercizi di preghiera in cui fa rileggere i vari momenti della nostra vita passata a partire dal battesimo, letti però tutti nella chiave nuziale offerta dal Cdc. La seconda è quella di Guillaume de Saint Thierry: pur non allontanandosi dalla lettura origeniana, in essa si avverte la nuova soggettività che si organizza nel XII sec..

Tuttavia, il massimo dell'esperienza medievale è costituito dai Sermones Cantici Canticorum di Bernardo di Chiaravalle, 86 prediche da lui rivolte ai monaci del suo monastero nel corso della propria attività. Apparentemente si tratta di una lettura tradizionale e il linguaggio sembra essere quello di Origne; ma è lo spirito ad essere diverso: sono testi carichi di passione, di desiderio, di struggente devozione. In questo senso, credo che la grande novità sia l'idea che tra Cristo e noi ci debba essere una relazione d'amore e, come l'amato prende l'altro come modello da imitare, così l'amante imita l'amato per forza d'amore. Propongo alcuni stralci del Sermone XXIII, relativo a Cdc 1,4 ("mi introduca il re nelle sue stanze"): "Ecco donde proviene l'odore, ecco il luogo verso il quale si deve correre. Perché correre? Non aveva detto in quale direzione bisogna correre verso le stanze, e si corre attratti dal profumo che dalle stanze emana. La sposa è la prima a sentire il profumo dell'amato, data la finezza del suo odorato, e brama di essere introdotta nella pienezza di esso. E cosa pensiamo si possa dire di queste stanze? Immaginiamocele come degli ambienti profumati nelle vicinanze dello sposo: le cose migliori che provengono dall'orto e dai campi vengono riposte in questa specie di magazzino per esservi conservate. Verso quale luogo dunque tutti corrono? Chi sono? Le anime rese infiammate dallo Spirito, come la sposa, come le giovanette; ma colei che ama di più corre più veloce e arriva prima" (sembra di leggere Giovanni, quando racconta della corsa verso il sepolcro: il discepolo che Gesù amava arriva per primo, proprio perché spinto dall'amore). "Arrivando, non solo non riceve un rifiuto, ma neppure la si fa aspettare; senza indugio, le vengono aperte le stanze. E le giovinette seguono da lontano perché, essendo ancora inferme, non possono correre con devozione pari alla sposa, né imitare il fervore e il desiderio di lei, perciò arrivano tardi e purtroppo restano fuori, ma la carità della sposa non la lascia tranquillo".

Gli ultimi due autori su cui vorrei soffermarmi sono Teresa d'Avila e il suo amico e fratello nella fede Giovanni della Croce (siamo ormai in epoca rinascimentale e in ambiente spagnolo). Teresa d'Avila prende spunto dal Cdc per elevare le sue preghiere a Dio. Leggo una di queste preghiere ispirate al Cdc: "Mi baci con i baci della sua bocca. Mio Dio, ma cos'è che ci fa meravigliare? La realtà non è forse più ammirabile? Mi sono infatti domandata se qui la sposa non chiede questa grazia che poi Gesù Cristo ci ha concesso. Mio Signore, se il bacio significa pace ed amicizia, perché le anime non dovrebbero chiedere di accordare loro questa pace? Quale preghiera migliore possiamo rivolgervi se non quella che io faccio ora, mio Signore, di darmi questa pace con il bacio della vostra bocca? Signore del cielo e della terra, è possibile che, anche stando in questa vita mortale, si possa godere di voi con così grande, eccezionale dignità?". E Teresa d'Avila, si sa, visse questa fortissima intimità mistica.

Ma il vertice di questa rilettura del Cdc è costituito dalle strofe del Cantico tra l'anima e lo sposo di Giovanni della Croce. Nel "ventre della balena" della prigione nella quale si trovava, in condizioni difficilissime e penose, fioriscono queste strofe, che poi egli stesso parafrasa, nell'andamento classico della parafrasi giovannea che è raffinata e rude al tempo stesso. E i versi sul Cdc sono da considerarsi tra i vertici della letteratura spagnola. La sposa dice dell'amato: "L'amato è le montagne, le valli solitarie, ricche d'ombra e le isole remote, le acque rumorose, il sibilo delle auree rumorose o amorose, è come notte calma, molto vicina al sorgere dell'aurora, notte silenziosa, solitudine sonora e cena che mi ristora e che mi innamora; fiorito è il nostro letto, da tane di leoni circondato, in pace edificato, di mille scudi d'oro incastonato. Nell'intima cantina Jobel vide l'amato,  quindi,  uscita la fiamma bella, tutto dimenticai, anche il gregge smarrii che prima avevo seguito. Lì mi dette il suo petto, lì una scienza mi infuse saporosa, e io a lui mi donai senza tralasciar cosa e gli promisi di essere sua sposa. Se da oggi nel prato non sarò più né vista né trovata, ditegli che mi sono perduta e che essendo innamorata mi sono persa volendo". Ecco cosa significa leggere il Cdc: non spiegarlo, ma ridire l'esperienza d'amore che fiorì in Giovanni della Croce nella prigione di Toledo. Questo è sicuramente il vertice della mistica occidentale e per questi canti Giovanni dovette patire persecuzioni, tanto che morì maltrattato continuamente dai suoi confratelli. Nell'orto che coltivava, spesso diceva: "è bello trattare delle creature inanimate piuttosto che essere trattato dagli uomini!".

 

5. Vorrei chiudere facendo una specie di ripresa finale. Si è visto che, per i Padri, il Cdc non si presenta come un enigma da sciogliere; non è un testo da spiegare, ma un testo da enunciare perché spiega la vita. Tutto questo ci porta alla riscoperta dell'importanza del lettore, la vita del quale è coinvolta nella lettura e pertanto il testo gli consente di enunciare la sua esistenza, di ridirla, di ricomprenderla. Questo legame tra lettore e testo i Padri lo hanno ben posto in rilievo.

Il secondo elemento evidenziato dalla lettura patristica è che il Cdc non può essere letto in modo desoggettivato. Le letture soggettivate sono quelle in cui si accoglie la dinamica tu-io e il lettore si identifica con il tu, il destinatario; le letture desoggettivate, invece, sono quelle in cui si parla di lui-lei, l'amato e l'amata, senza sentirsi coinvolti, cercando di dare una spiegazione dei versetti (chi parla? chi risponde?). I Padri hanno preferito la lettura soggettivata. Questo tipo di lettura, ci domandiamo, è necessariamente non scientifica? Io direi di no. Innanzitutto, credo che anche una lettura scientifica vada sempre alla ricerca di una sintesi del senso e quindi cerchi di non fare solo una lettura archeologica del testo, ma una lettura teologica: dove va il testo? in che direzione di muove? L'esegesi antica non disdegnava la critica, anche se aveva pochi strumenti, ma la inglobava in una sintesi più ampia, una specie di atto di lettura nella quale non viene messa in concorrenza la soggettività con l'oggettività, l'intelligenza con l'amore, ma vengono tenuti compresenti.

Penso che dai Padri ci venga l'invito non tanto a tornare al loro metodo (sarebbe un procedimento antistorico), ma a sviluppare la nostra esegesi critica in cui il testo non sia più sostanzialità, ma stimolo per la riattualizzazione nel presente. Essi vedono il testo come qualcosa di vivo, dinamico, in continua azione.

 
 

 

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