Origine del Cantico delle creature

di fra Pier Giuseppe Pesce, ofm

 

L’approccio articolato con cui verrà presentato il Cantico delle creature di S. Francesco d’Assisi costituisce una sorta di trittico che ci permette di gustarne la bellezza artistico-letteraria e recepirne il contenuto teologico-spirituale.

Per integrare questa presentazione, sembra opportuno aggiungere una parola sulle sue origini: quando, dove e perché Francesco lo ha composto?

 

1. Dalle Fonti Francescane sappiamo che il Cantico fu composto in tre momenti distinti.

Il nucleo originario è costituito dall’esordio, dalle strofe che si riferiscono agli astri del cielo (sole, luna, stelle) e agli elementi della natura (vento, acqua, fuoco, terra) e dalla conclusione.

Dove e perché è nata questa prima e principale parte del Cantico?

La Leggenda perugina (FF 1590 ss.) riferisce che Francesco, «due anni prima di morire», si trovava a San Damiano presso le clarisse, dove viveva la sua pianticella Chiara, perché era molto sofferente e tribolato: era piagato nel corpo, ma anche afflitto nello spirito. Probabilmente aveva già ricevuto l’impressione delle stimmate sul monte della Verna (settembre 1224), che avevano lasciato nel suo corpo un segno non solo visibile, ma anche doloroso. Inoltre, soffriva atrocemente per una malattia agli occhi, che gli impediva di condurre una vita normale. A queste sofferenze fisiche si aggiungevano ulteriori tribolazioni provocate dal demonio.

Una notte, narra la Leggenda perugina, mentre pregava il Signore perché gli venisse in soccorso, ebbe dal cielo una risposta assicurante e rasserenante. A mattino seguente compose il Cantico:

«Alzandosi al mattino, (Francesco) disse ai suoi compagni: ‘Se l’imperatore donasse un intero reame al suo servitore, costui non ne godrebbe vivamente? Ma se gli regalasse addirittura tutto l’impero, non ne godrebbe più ancora?’. E soggiunse: ‘Sì, io devo molto godere adesso in mezzo ai miei mali e dolori, e trovare conforto nel Signore, e render grazie sempre a Dio Padre, all’unico suo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo e allo Spirito Santo, per la grazia e benedizione così grande che mi è stata elargita: egli infatti si è degnato nella sua misericordia di donare a me, suo piccolo servo indegno ancora vivente quaggiù, la certezza di possedere il suo Regno. Voglio quindi, a lode di Lui e a mia consolazione e per edificazione del prossimo, comporre una nuova lauda del Signore per le sue creature. Ogni giorno usiamo delle creature e senza di loro non possiamo vivere, e in esse il genere umano molto offende il Creatore. E ogni giorno ci mostriamo ingrati per questo grande beneficio, e non ne diamo lode, come dovremmo, al nostro Creatore e datore di ogni bene’. E postosi a sedere, si concentrò a riflettere e poi disse: “Altissimo, onnipotente, bon Signore...».

 

Non c’è bisogno di fare particolari commenti a questo testo della Leggenda perugina. È sufficiente aggiungere un particolare: Francesco utilizzò il Cantico anche come strumento apostolico. Così, infatti, continua la Leggenda perugina:

«Francesco compose anche la melodia, che insegnò ai suoi compagni. Il suo spirito era immerso in così gran dolcezza e consolazione che voleva mandare a chiamare frate Pacifico - che nel secolo veniva chiamato ‘il re dei versi’ ed era gentilissimo maestro di canto -, e assegnargli alcuni frati buoni e spirituali affinché andassero per il mondo a predicare e lodare Dio. Voleva che dapprima uno di essi, capace di predicare, rivolgesse al popolo un sermone, finito il quale, tutti insieme cantassero le Laudi del Signore, come giullari di Dio. Quando fossero terminate le Laudi, il predicatore diceva al popolo: ‘Noi siamo i giullari del Signore, e la ricompensa che desideriamo da voi è questa: che viviate nella vera penitenza’. E aggiunse: ‘Cosa sono i servi di Dio, se non i suoi giullari che devono commuovere il cuore degli uomini ed elevarlo alla gioia spirituale?’. Diceva questo riferendosi specialmente ai frati minori, che sono stati inviati al popolo per salvarlo».

 

E proprio in prospettiva apostolica, il Cantico ebbe una prima aggiunta poco dopo. Mentre ancora dimorava a San Damiano, venne a sapere che il podestà e il vescovo di Assisi erano in grave discordia tra loro. Amante come era della pace e della fraternità, compose la strofa del perdono, la fece cantare assieme all’intero Cantico alla presenza dei due contendenti ottenendo un felice risultato, come riferisce ancora la Leggenda perugina:

«Compose allora questa strofa, da aggiungere alle Laudi:

Laudato si, mi Signore,

per quilli ke perdonano per lo tuo amore

e sustengono enfirmitate et tribulacione.

Beati quigli kel sosteranno in pace,

perché da te, Altissimo, sirano incoronati.

Poi chiamò uno dei compagni e gli disse: ‘Va’, e dì al podestà da parte mia, che venga al vescovado lui insieme ai magnati della città e ad altri che potrà condurre con sé’. Quel frate si avviò, e il Santo disse agli altri due compagni: ‘Andate, e cantate il Cantico di frate Sole alla presenza del vescovo e del podestà e degli altri che son presenti. Ho fiducia nel Signore che renderà umili i loro cuori, e faranno pace e torneranno all’amicizia e all’affetto di prima’.

Quando tutti furono riuniti nello spiazzo interno del chiostro dell’episcopio, quei due frati si alzarono e uno disse: ‘Francesco ha composto durante la sua infermità le Laudi del Signore per le sue creature, a lode di Dio e a edificazione del prossimo. Vi prego che stiate a udirle con devozione’. Così cominciarono a cantarle.

Il podestà si levò subito in piedi e a mani giunte, come si fa durante la lettura del Vangelo, pieno di viva devozione, anzi tutto in lacrime, stette ad ascoltare attentamente. Egli aveva infatti molta fede e devozione per Francesco.

Finito il Cantico, il podestà disse davanti a tutti i convenuti: ‘Vi dico in verità che non solo a messer vescovo, che devo considerare mio signore, ma sarei disposto a perdonare anche a chi mi avesse assassinato il fratello o il figlio’. Indi si gettò ai piedi del vescovo, dicendogli: ‘Per amore del Signore nostro Gesù Cristo e del suo servo Francesco, eccomi pronto a soddisfarvi in tutto, come a voi piacerà’.

Il vescovo lo prese fra le braccia, si alzò e gli rispose: ‘Per la carica che ricopro dovrei essere umile. Purtroppo ho un temperamento portato all’ira. Ti prego di perdonarmi’. E così i due si abbracciarono e baciarono con molta cordialità e affetto».

 

La seconda aggiunta è la strofa relativa alla morte. Ricaviamo implicitamente questa notizia dal Celano quando racconta in che modo Francesco si preparò ad accogliere sorella morte (FF 809):

«Trascorse i pochi giorni che gli rimasero in un inno di lode, invitando i suoi compagni dilettissimi a lodare con lui Cristo. Egli poi, come gli fu possibile, proruppe in questo salmo: Con la mia voce ho gridato al Signore, con la mia voce ho chiesto soccorso al Signore. Invitava pure tutte le creature alla lode di Dio, e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino. Perfino la morte, a tutti terribile e odiosa, esortava alla lode, e andandole incontro lieto, la invitava ad essere sua ospite: ‘Ben venga, mia sorella morte’».

 

2. A conclusione di questa veloce ricostruzione dell’origine del Cantico, possiamo rilevare che esso, pur essendo stato composto in momenti e in contesti diversi, ha una sua logica intrinseca sul filo conduttore delle virtù teologali.

La parte originaria, che riguarda più propriamente le creature in genere, è lo sguardo di fede che Francesco ha sul creato: guidato e ispirato dalla sua concezione di Dio come il vero unico e sommo Bene, ne vede il luminoso riflesso in tutte le creature. S. Bonaventura, che da teologo ha approfondito il tema della partecipazione e dell’immagine, ha sottolineato egregiamente, a livello dottrinale, questa profonda intuizione di Francesco (FF 1162): «Per trarre da ogni cosa incitamento ad amare Dio, esultava per tutte quante le opere delle mani del Signore e, da quello spettacolo di gioia, risaliva alla Causa e Ragione che tutto fa vivere. Contemplava, nelle cose belle, il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto. Di tutte le cose faceva una scala per salire ad afferrare Colui che è tutto desiderabile».

Nella prima aggiunta, la strofa del perdono, è facile scorgere un riferimento di Francesco alla storia salvifica che consiste essenzialmente nell’amore di Dio, che si riveste di misericordia e si manifesta nel perdono, e che nella Croce di Cristo ha raggiunto la sua piena e definitiva attuazione. Perdonando a noi, Dio ci chiede di fare altrettanto nei confronti dei fratelli. È lo sguardo di fede, che si vivifica e si esprime nell’amore misericordioso.

La seconda aggiunta, la strofa sulla morte, si colloca in un’evidente prospettiva escatologica. Solo chi, come Francesco, ha uno sguardo di fede su ciò che lo attende al termine della vita terrena ha il coraggio di chiamarla sorella nel momento stesso in cui gli viene incontro. È lo sguardo di fede che, animato dall’amore, si apre sereno e fiducioso alla speranza.

In definitiva, al di là della sua bellezza letteraria e dei suoi contenuti settoriali, nel Cantico riscontriamo una ricchezza teologale che tutto illumina ed avvalora. Abbiamo in ciò la conferma che Francesco, pur non essendo un teologo di professione, era un sapiente, di quella sapienza che viene da Dio e a Dio porta.

 
 
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