Radici bibliche del Cantico delle creature

di Fabrizio Filiberti

 

1. Prospettiva

Questo intervento non consiste né in una disamina circa le modalità della presenza del tema creazione nella Bibbia, né in una esegesi puntuale del Cantico di san Francesco in rapporto al testo biblico. Il primo aspetto, esula dal contesto in cui ci collochiamo; il secondo, piega il tema verso il problema delle “fonti” che Francesco avrebbe utilizzato (ricerca delle citazioni, paralleli ecc.). Non vale la pena cercare “fonti”, perché un’operazione dotta di questo tipo non è nello stile del Santo. Lo scritto di Francesco nasce dall’istinto, dalla creatività di un uomo che ha, per sua natura, radici nello spirito biblico. Da questo mondo attinge l’atteggiamento spirituale che – quale uomo preoccupato rendere partecipi della scoperta amorosa del Cristo – lo fa passare necessariamente dalla contemplazione intima al canto.

Francesco è qui “poeta”, colui che trasforma in azione (poiesis) la sua esperienza interiore più profonda, al di là della contingenza – e sappiamo che il Cantico sgorga in un contesto segnato dal buio della cecità e della malattia. Anzi, proprio contro la contingenza, esso lascia trasparire un’esperienza fondamentalmente contrassegnata dalla gioia.

È un poeta gioioso quello che nell’opera ha trasformato la contemplazione in poesia. Per quanto - come ricorda il Siracide, al termine di una analoga esaltazione della gloria divina nel creato (42,15 – 43,26) – il divario tra ciò che è il Signore, la sua opera (43,2) e la forza della contemplazione (42,25b) e della lode (43,31) rimanga incolmabile:

 

Potremmo dir molte cose e mai finiremmo;

ma per concludere: «Egli è tutto!».

Come potremmo avere la forza per lodarlo?

Egli, il Grande, al di sopra di tutte le sue opere.

Il Signore è terribile e molto grande,

e meravigliosa è la sua potenza.

Nel glorificare il Signore esaltatelo

quanto potete, perché ancora più alto sarà.

Nell'innalzarlo moltiplicate la vostra forza,

non stancatevi, perché mai finirete.

Chi lo ha contemplato e lo descriverà?

Chi può magnificarlo come egli è?

Ci sono molte cose nascoste più grandi di queste;

noi contempliamo solo poche delle sue opere.

Il Signore infatti ha creato ogni cosa,

ha dato la sapienza ai pii (Sir 43,27-33).

 

 

2. Lode e benedizione

Su questa lunghezza d’onda si collocano le lodi salmiche delle opere della creazione (tra le più significative: Sl 8; 19,2-7; 29; 104; 148), cui possiamo avvicinare Dn 3,52-90. In questi testi, la benedizione (berakhā) ha valore “ascendente”, dall’uomo a Dio, così come le lodi dei salmi. Questa dimensione della benedizione non può essere disgiunta, però, da quella “discendente”, che celebra la priorità del dono divino all’uomo (anche relativamente all’opera umana del lavoro). Vediamo questi due aspetti.

La benedizione da Dio all’uomo si realizza primariamente (ed è il campo che qui interessa e al quale mi limito) mediante la creazione. Questo nesso è espresso anche dalla tradizione midrashica, secondo la quale Dio crea attraverso la lettera Bet, iniziale di berakhā , come è scritto «Bereschit – in principio Dio creò il cielo e la terra»[1].

La benedizione è il valore che regge il creato, principio e fine di tutto. La benedizione è quindi di Dio, il bene-fattore, colui che rende le cose non realtà inerti, ma portatrici di uno spessore di grazia. Tale bene-dizione è sottolineata, in special modo, verso gli animali e l’uomo (Gen 1,22.28) che, nella loro fecondità, esprimono maggiormente il ruolo di co-creatori. Ma è tutta la realtà che porta in sé la forza della berakhā. Non a caso, il trattato Berakot, che apre il Talmud, costituisce il primo volume dell’Ordine delle Sementi (non di quello dedicato alle “Feste”, apparentemente più attinente): infatti, solo un mondo che segue la berakhā divina produce frutti invece di “spine e cardi” (cfr. Gen 3,18)[2].

È primariamente questa benedizione ad essere invocata anche in ambito cultuale:

 

Ti benedica il Signore

e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te

e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto

e ti conceda pace (Nm 6,24-26).

 

Testo chiaramente assunto da Francesco nel rivolgersi a Frate Leone[3]

 

Il Signore ti benedica e ti custodisca

Ti mostri il suo volto

E abbia misericordia di te.

Volga a te il suo sguardo

E ti dia pace.

Il Signore benedica, frate Leone, te.

 

La benedizione dall’uomo verso Dio non perde questo iniziale riferimento. Nella prassi ebraica l’espressione «Benedetto tu, o Signore» s’interpone tra ogni cosa e la sua fruizione per dire che «chi usa di una cosa senza la benedizione è infedele e ladro». Ogni realtà, venendo da Dio, è Sua (Lv 25,23) in quanto ne è l’artista (più che il proprietario), quindi dono, non possesso umano. In questo modo, la benedizione «spezza l’immediatezza di rapporto tra l’io e le cose, risignificando sia l’uomo che le altre»[4].Così come non si lodano le cose in se stesse, ma solo Dio, non si chiede il bene prima di riconoscere il bene-già-detto nel creato.

Questo sguardo positivo sulla realtà è tale da avanzare anche rispetto alle sofferenze contingenti. In questa direzione, l’accostamento del Cantico a Dn 3 non è solo formale, ma di sostanza. Il canto dei tre giovani nella fornace, benché non intaccati dal fuoco, s’eleva riconoscendo anche nella prova quella bontà/bellezza (tov) dichiarata da Dio in Gen 1,31: «era cosa molto buona». Genesi s’oppone, nella sua contestualizzazione letteraria e teologica, a quelle prospettive coeve che considerano l’ambito materiale intrinsecamente negativo, segnato dall’indelebile presenza del caos originario. Anche al tempo di Francesco posizioni analoghe trovano spazio, in specie nel catarismo, espropriando Dio della creazione materiale e attribuendola all’Angelo ribelle, Lucifero. Ora, se un’istanza anticatara può essere implicitamente ipotizzata, ritengo che il tono del Cantico francescano sia più linearmente biblico: al termine della sua vita, l’esperienza di Francesco, che è anche di sofferenza, di partecipazione alla croce di Cristo, si riconferma avvolta dall’orizzonte benevolo dell’Altissimo. La Sua “buona” opera è fonte autentica di pacificazione e gioia, di attesa per la sollecitudine divina. La dichiarazione divina attesta che il creato è “meraviglioso”, “perfetto”, che porta in sé una esigenza di ordine e stabilità di cui Dio stesso gode[5]. Anche il Sl 104,31-32 mostra questa gioia in Dio, che s’alimenta del rigoglìo delle sue opere, in specie quelle che portano in loro motivi teofanici (come il terremoto ed i vulcani):

 

La gloria del Signore sia per sempre;

gioisca il Signore delle sue opere.

Egli guarda la terra e la fa sussultare,

tocca i monti ed essi fumano.

 

Anche la lode del Sl 148 echeggia questa valenza: la meravigliosa grandezza del creato lo rende idoneo ad esaltare l’opera divina, ad essere esso stesso “lode”, in forza del puro “comando” che l’ha fatto (v. 5; cfr. Gen 1,31 «Dio disse…»; anche Sl 33,6-9) e della stabilità assicurata (v. 6):

 

5Lodino tutti [gli elementi creati] il nome del Signore,

perché egli disse e furono creati.

6Li ha stabiliti per sempre,

ha posto una legge che non passa.

 

Il Sl 19,2-5 propone analoga immagine:

 

2I cieli narrano la gloria di Dio,

e il firmamento annunzia l'opera delle sue mani.

3Il giorno al giorno enuncia il detto

la notte alla notte dà notizia.

4Non è loquela, non sono parole,

non si ha percezione del loro suono;

5in tutta la terra uscì il loro richiamo

ai confini del mondo le loro parole (trad. NVDB, Paoline, 1984).

 

La gloria è l’opera stessa delle sue mani (il parallelismo dei vv. 2a-b); detto/notizia sono la perenne (giorno/notte) narrazione che s’annuncia. Non esplicita parola, ma potente e onnipresente richiamo (qaw, da qwh = radunare, convocare). Ecco ritrovata la pertinente annotazione francescana «Laudato sie [passivo], mi’ Signore, cum tucte le tue creature», e il «Laudato si’, mi’ Signore, per…». Non solo a motivo, (il “per” causale), ma (sulla scia del francese par, conosciuto dal Santo) “mediante”, “per mezzo” loro.

In tutto ciò non c’è solo la valenza estetica, di matrice greca, ma propriamente la forza del bene-dire divino, sempre rivolto al bene delle creature ed al ridire-bene di Dio da parte di esse e dell’uomo. Proprio della consapevole circolarità di prospettiva ascendente e discendente della benedizione/lode s’alimenta la coscienza biblica: dalla grazia viene il dire grazie. La separazione apparterrebbe solo ad una formale, se non addirittura sterile, ritualità, nella quale la formula di lode è proclamata senza la contemporanea vissuta apprensione del bene che la regge, senza l’esperienza della letizia che porta con sé. Francesco, invece, è colui che ha esplicitato questo nesso: la sua lode non è mai formalità liturgica, ma sostanza esistenziale, testimonianza di una verità profonda e invito ad analoga sperimentazione.

L’ultima strofa del Cantico – che leggo rivolta alle creature, nonché ai suoi frati – vuole invitare l’orante a servire Dio nella vita attiva, nel lodare, benedire, ringraziare con l’offerta del proprio canto, già partecipazione alla gioia escatologica con Dio:

 

Laudate et benedicete mi’ Signore,

et ringratiate et serviateli

cum grande humiltate

 

Giunga a lui gradita la mia meditazione;

nel Signore sarà la mia gioia (Sl 104,34)

 

Quale miglior premio, per un poeta della vita, sapere accolto il proprio canto dal Signore?[6] Occorre, però, «grande humiltate», perché siamo di fronte all’Altissimo, onnipotente, bon Signore, traduzione francescana della “maestà” divina la cui contemplazione è premessa sia in Dn 3,53-56, sia nel Sl 104,1-4.

 

53 Benedetto sei tu nel tuo tempio santo glorioso,

degno di lode e di gloria nei secoli.

54 Benedetto sei tu nel trono del tuo regno,

degno di lode e di gloria nei secoli.

55 Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli

abissi e siedi sui cherubini,

degno di lode e di gloria nei secoli.

56 Benedetto sei tu nel firmamento del cielo,

degno di lode e di gloria nei secoli.

 

1 Benedici il Signore, anima mia,

Signore, mio Dio, quanto sei grande!

Rivestito di maestà e di splendore,

2 avvolto di luce come di un manto.

Tu stendi il cielo come una tenda,

3 costruisci sulle acque la tua dimora,

fai delle nubi il tuo carro,

cammini sulle ali del vento;

4 fai dei venti i tuoi messaggeri,

delle fiamme guizzanti i tuoi ministri.

 

Gloria divina celebrata nella sua trascendenza inarrivabile (Dn) e nel suo immanente splendore (Sl 104) mediante il nesso tra la celeste dimora divina, pure descritta nel salmo, e il creato: luce, cieli (superiori), acque celesti, nubi, venti, folgori, descrivono il palazzo regale e le dotazioni “tecnologiche” dell’agire divino secondo schemi mesopotamici. È la potenza glorificante degli elementi cosmici ad essere in evidenza prima dell’esibizione dello sviluppo creativo (104,5ss.).

Grandezza e onnipotenza, dominio assoluto, attirano lode e gloria in eterno (Dn). Esse spettano di diritto a Dio («Tue so’ le laude, la gloria, l’honore et omne benedictione»), giustificando l’attribuzione originaria a Lui della stessa lode, perché tale è la grandezza divina che «a te solo, Altissimo se konfano», ma anche perché «nullo homo ene dignu te mentovare». Francesco coglie qui la prospettiva ultima e sottile della contemplazione: l’indegnità e la pochezza umana nel lodare è supplita dalle creature, viste come più innocenti (belle/buone). Ma esse sono di Dio, e la lode che possono esprimere diviene, alla fine, la stessa lode e gloria di Dio a se stesso. Tue so’, di te, proprie di Dio.

È la linea interpretativa (Giovanni Pozzi) secondo la quale Francesco riprende la tradizione di Agostino e Gregorio Magno, nella quale la lode possibile a Dio è solo quella pronunciata da Dio stesso; tesi che si trova in Francesco anche nella Regola non bollata (cap. 23):

 

«Siccome noi, miseri e peccatori, non siamo nemmeno degni di nominarti, ti preghiamo e supplichiamo, perché il Signore nostro Gesù Cristo […] ti renda grazie per ogni cosa in modo degno e a te gradito»[7].

 

Francesco coglie la mediazione “divumana” del Cristo, che unisce in se stesso titolarità («Tue so’»), destinazione («a te solo») e dignità del locutore della lode degna e gradita: in Lui è presente Dio che loda se stesso, nonché la modalità propria del lodarsi di Dio: nel Figlio e, si può aggiungere, nella creazione fatta «per mezzo di lui» (Col 1,16). La lode dell’uomo (Ecce homo, Gv 19,5) al suo Signore, nella piena obbedienza filiale.

 

3. Le creature

Sul piano contenutistico, possiamo notare che lo sguardo di Francesco non è, ancora biblicamente, sul cosmos, quanto sulle creature che lo abitano.

Nella cultura biblica[8] non c’è astrazione tra il mondo come “contenitore” e il mondo come “contenuto”: il mondo – cielo e terra – è sempre visto come evento in divenire, storicamente, nel quale è attiva l’opera di Dio. Più che la “natura” armonica e finalizzata in se stessa (che sarà oggetto della theoria, opera del logos), l’uomo biblico ha di fronte a sé una realtà in cui “semina e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno fino a quando durerà la terra” (Gen 8,22). Ciò, non per un meccanismo naturale inscritto, ma per la fedeltà della parola creatrice, per la parola-promessa di benedizione.

Anche gli elementi cosmici (cielo, terra, inferi) sono letti in funzione dell’attiva presenza di Dio. In questo modo si spiega la mancata elaborazione, in Israele, di una teoria astronomica e di una geofisica, e, al contrario, la sottolineatura costante dell’intenzionalità divina nel reggere le cose: è Lui che traccia il limite alle acque (Sl 104,9), dà acqua come pioggia (v. 13), fa crescere il fieno (v. 14), pianta i cedri del Libano (v. 16), pone le tenebre e fa spuntare il sole (vv. 20.22).

Più che una provvidenziale positività del cosmo (che nel suo ritmo necessario sacrificherebbe comunque qualcosa al negativo) l’israelita vede una attiva provvidenza, impenetrabile disegno divino (sapienza) che concede sempre alla speranza dell’affermarsi della sua giustizia (tzedaqà):

 

Quanto sono numerose le tue opere, Signore!

Tutte le hai fatte con sapienza;

è piena la terra delle tue creature (Sl 104,24, NVDB).

 

Da questo punto di vista – prescindendo dai temi demitologizzanti di Genesi – rileva il sostanziale realismo delle creature: sia in quanto riferite all’uomo, al quale il tutto è affidato (Gen 1,28), sia in quanto desacralizzate (soprattutto dal senso magico) e ricondotte alla convivialità con l’umanità. L’opera creativa non solo fa cose “buone”, ma è “bontà” fruita.

L’immagine dell’Adam che dà il nome agli animali è emblematica di un riconoscimento e di una relazione alla realtà più che in termini di superiorità e possesso, quale connaturalità con il significato profondo di essa.

È quanto esprime l’innovativa “umanizzazione” delle creature operata da Francesco: rendendole “frate” e “sora” va al di là dell’invenzione poetica. Indica una consapevole “fratellanza cosmica” che attinge alla radice ontologica di ciascun essere, ben più olistica di una semplificatrice coscienza ecologica cui è stata sovente ridotta.

In Francesco non troviamo gli elementi celesti e angelici, presenti in Dn e nei salmi: i tre corpi celesti (sole, luna, stelle) e i quattro elementi naturali (aria, acqua, fuoco, terra) sono ricondotti alla loro sfera, direi, secolare. Rispetto a Dn che include, oltre ai citati elementi, un’ampia sezione (vv. 82-90) dedicata all’uomo (che Francesco riassume e di cui dirò dopo), il salmo 104 ripercorre più da vicino lo schema di Genesi e ne articola gli elementi con la vita quotidiana, in modo da considerarli come sfondo su cui si muovono le altre creature. Evoco alcune immagini parallele al Cantico di Francesco.

Del sole, innanzitutto, se ne ricorda due dimensioni: quella di luminare che, insieme alla luna, scandisce il tempo e le stagioni (o le feste del calendario lunare, Gen 1,14) (104,19); e il fatto che è la sola creatura (eccetto l’uomo) che «porta significazione» dell’Altissimo. Lo splendore della luce (104,2, creata prima di ogni cosa: cfr. Gen 1,3-5) e, quindi, di conseguenza, lo splendore del sole (cfr. anche Sl 84,12), hanno un posto di rilievo nella Bibbia. Si evoca, senza divinizzare[9], ciò che nelle mitologie antiche è il sole di giustizia, l’occhio divino che tutto vede e provvede: il Sl 19,6-7 va in questa direzione

 

Là pose una tenda per il sole

che esce come sposo dalla stanza nuziale,

esulta come prode che percorre la via.

Egli sorge da un estremo del cielo

e la sua corsa raggiunge l'altro estremo:

nulla si sottrae al suo calore.

 

Gli elementi atmosferici (aria, vento, e il correlato tempo sereno e nuvoloso) sono direttamente connessi all’habitat necessario per la vita complessiva fissando il ritmo delle stagioni nella sua consistenza biologica (non temporale, come nel caso precedente). Ciò si sposa con il ricordo della funzione primaria dell’acqua (i cui aggettivi francescani: utile, preziosa, umile, casta, varrebbe la pena contemplare) e della onnicomprensiva funzione materna della terra. È la sua ancestrale riconosciuta fecondità che la qualifica come Madre Terra, mistero sacro che la Bibbia però desacralizza e Francesco riconduce alla dimensione di “sorella” (forse maggiore e mamma).

Bellissime altre immagini del Sl 104 che spaziano più in là del Cantico francescano:

  vv. 7-8: sono le acque primordiali che ricoprono la terra (v. 6) ed ora, rese innocue, confluiscono nel luogo loro assegnato, mantenendo il limite che garantisce l’emergere della terra asciutta;

  vv. 10-12: le acque terrestri delle sorgenti che dissetano gli animali;

  vv. 13-16: le acque pluviali che, irrigando naturalmente il suolo, consentono la produzione di fieno, erba, frutti, cereali, da cui gli alimenti tipici, vino, olio, pane;

  vv. 17-18: le condizioni favorevoli alla vita garantiscono la sussistenza anche agli animali più deboli: uccelli, camosci, iràci (porcospino);

  vv. 23-26: e assicurano vita anche nel mare, non più simbolo del caos ma rigoglio di vita, spazio utile e praticabile (cfr. le navi), ove anche il Leviatan (altrove mostro primordiale, Gb 40,10-27) diventa gioco per Dio (si pensa al coccodrillo, ma a me viene in mente il delfino!).

Meritano di essere rilette le immagini dell’energica fecondità divina consegnate a Genesi 1 (anche Gen 2,9-14):

 

E Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: terzo giorno. (11-13).

 

Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra». E fu sera e fu mattina: quinto giorno.

Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona (20-25).

 

Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne (29-30).

 

C’è un comune afflato paradisiaco nel Salmo, in Genesi ed in Francesco, che non deve preclude altre legittime riflessioni (il male, la violenza insita nella natura). Qui prevale il leit-motive della provvidenza del Padre, che nella terra madre sostenta e governa, produce frutti, fiori, erba, sazia gli animali, i quali, nel ruggire in cerca di preda, «chiedono a Dio il loro nutrimento» (104,21).

 

Tutti da te aspettano

che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.

Tu lo provvedi, essi lo raccolgono,

tu apri la mano, si saziano di beni.

Se nascondi il tuo volto, vengono meno,

togli loro il respiro, muoiono

e ritornano nella loro polvere.

Mandi il tuo spirito, sono creati,

e rinnovi la faccia della terra (104,27-30).

 

Tutti aspettano qualcosa dal loro Creatore, consapevoli che da lui, dal suo rivolgere il volto, dipende ogni cosa. Dare e togliere lo spirito è significativamente avvicinato all’uso del verbo bara’ (creare), unicamente riferito a Dio. Atto non passato, bensì presente in ogni evento, da guardare come fiducioso «rinnovo della faccia della terra» (v. 30). Per questo a Francesco non è sfuggita – nella condizione sofferente in cui si trovava – l’opportunità di convocare alla lode anche “frate fuoco”, colui che in mano all’uomo è utile illuminazione, bello, giocoso, ma parimenti forte e robusto, invincibile distruttore, capace di ferire come di curare (gli occhi cauterizzati).

In questo quadro, vanno segnalate due apparenti assenze nel Cantico di Francesco, sulle quali è inutile speculare: gli animali e gli uomini. Alla più dettagliata elencazione di Dn, si contrappone un sommario riferimento a «tucte le creature». Così, non c’è alcun accenno all’uomo come vertice del creato (Gen 1,26-28; Sl 8). Riguardo agli animali, mi paiono lontani dalla sua preoccupazione un silenzio anti-cataro, per via dell’ambiguità della legge dell’alimentazione in sé violenta (che l’eresia ricondurrebbe appunto alla malvagità della creazione) e le speculazioni circa la condizione pre-peccato originale di tipo vegetariano[10]. Preferisco semplicemente pensare che l’occhio contemplativo cada più sulle forme ed i contorni di fondo (cielo, terra, monti, piante, fiori, frutti) che sul dettaglio delle presenze quali, appunto, animali e persone! E’ il quadro complessivo, l’orizzonte, più che la trama e il particolare, che qui si osserva.

 

4. Figure evangeliche

Di grande rilevanza, piuttosto, è la presenza nel Cantico delle Creature di due strofe finali apparentemente estranee al tema: quella in cui si parla dell’uomo che perdona, che sopporta infermità e difficoltà, dell’uomo pacifico, e quella dove, più che la morte fisica (connaturale al mondo), ci si preoccupa della “morte seconda”, quella che può venire dal giudizio conseguente allo stato di peccato mortale.

Si tratta di strofe sicuramente posteriori alla stesura della prima parte[11] le cui circostanze di composizione non occorre qui richiamare. È opportuno, invece, far notare come annuncino due temi profondamente biblici, dei quali dobbiamo fare memoria. Probabilmente, è qui che si può trovare la più degna menzione dell’uomo: nelle figura di coloro che, forse unici, possono sottrarsi all’indegnità che impedisce la lode all’Altissimo:

    coloro che vivono in pienezza la pagina evangelica delle beatitudini (Mt 5,3-12) e del discorso della montagna, riassunto nella sopportazione della afflizione, della fame e della sete (anche della giustizia); coloro che aspirano alla pace, che sopportano ogni cosa per amore di Cristo/Dio e che perciò giungono a quella perfezione propria del Padre (l’Altissimo bon Signore) che è il perdono (Mt 5,43-48). Di coloro che in tal modo vivono la “povertà in spirito” matteana, si proclama la destinazione privilegiata del regno dei cieli (5,3), cioè l’incoronazione/esaltazione;

    accanto a questi, e di conseguenza, coloro che “fanno la volontà del Padre mio” (Mt 7,21-28), coloro che costruiscono sulla roccia e che per questo non temono nulla (Lc 7,46-49): né nel corso della vita (torna il tema della provvidenza: Mt 6,25-34), né di fronte alla morte, che toglie il corpo, ma non la vita piena (Mt 10,28).

 

Il Cantico completa così, in modo teologicamente elevato, la sua radicata atmosfera biblica. Mentre Dn 3,86-87 richiama giusti, umili, santi, il salmo 104,35, dopo il quadro creaturale descritto, introduce il motivo della caduta (Gen 3; Gen 6,11). Come a dire che il creato tutto soffre del peccato dell’uomo, della sua violenza (hamas). In Paolo, tutto è sottomesso a disobbedienza (Rm 11,32) e in attesa di redenzione (Rm 8,19-25):

 

La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio;essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.

 

L’imperativo del salmo non è che anticipo di questa opera ricreatrice che compete al Signore:

 

Scompaiano i peccatori dalla terra

e più non esistano gli empi (v. 35).

 

Il Cantico svela la sua centralità cristologia: l’uomo evangelico è colui che vive da “figlio di Dio”, che assume l’insegnamento di Cristo, che mostra come il male presente può essere superato nell’amore, nella speranza cristiana della salvezza, allorché Egli ritornerà. Attesa che assume il volto e la prassi ardua, ma praticabile, di quell’alter Christus che Francesco incarna cantando a gloria di Dio.


 

[1] Il racconto si può leggere in L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei. 1. Dalla creazione al diluvio, (or. 1925). Milano, Adelphi, 1995, 25-28. Le citazioni bibliche sono dalla bibbia CEI o da A. Lancellotti, I Salmi, Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali (NVDB), Roma, Ed. Paoline, 1984.

[2] Si veda C. Di Sante, Spiritualità ebraica, Quaderni di Sant’Apollinare, n. 11, Fiesole, 1987.

[3] Cfr. Scritti di San Francesco, traduzione di Giorgio Racca, Assisi, Edizioni Porziuncola, 1984, 53. Per l’inquadramento letterario L. Leonardi, F. Santi, La letteratura religiosa, in Storia della letteratura italiana. Dalle origini a Dante. 1. Le origini, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2005, 339-404.

[4] C. Di Sante, cit., 22-23. Si veda anche P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, Brescia, Queriniana, 1995, 150-155. Si fa qui notare la vicinanza tra la benedizione ebraica e la basmala islamica (“Nel nome di Dio, Misericordioso e Compassionevole”) che introduce ogni sura coranica e mette sotto tutela divina ogni espressione o azione del muslim.

[5] Cfr.L. Ryken, J.C. Wilhoit, T. Longman III (a cura di), Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 2006 in specie le voci Benedizione, Bene, Creazione, Cosmologia, Sole, luna, stelle.

[6] L.A. Schökel, Tecnologia, ecologia, contemplazione, in La Civiltà Cattolica, quaderno 3290 (1987), 113.

[7] Cfr. Scritti di San Francesco, cit., p. 80.

[8] Cfr. A. Bonora, Cosmo, in Nuovo dizionario di teologia biblica, Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1988, 322-339.

[9] Si può ricordare come Genesi 1,16 non cita nemmeno sole e luna (sēmeš e yārēah) ma usa un giro di parole onde evitare la confusione con le analoghe divinità.

[10] Cfr. P. Stefani, La radice biblica. La Bibbia e i suoi influssi sulla cultura occidentale, Milano, Bruno Mondatori, 2003, 43-48.

[11] R. Manselli, San Francesco d’Assisi, editio maior, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 2002, cap. XII e XIII.

 
 
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