Il Cantico di Francesco nella letteratura

di Carlo Carena

 

Comincerò citando ciò che disse uno dei filologi più illustri degli ultimi nostri anni, Gianfranco Contini, il quale nel 1970 pubblicò un saggio dedicato alle Lodi delle Creature dal titolo: Un’ ipotesi sulle Laudes Creaturarum. Contini, che era ormai al termine di una profonda e ricca carriera, scrive all’inizio di quel saggio: «Appannaggio dei testi gloriosissimi, e si dica pure incresciosa controparte della celebrità, è che essi, mandati a mente sin dall’infanzia, si fossilizzano e isteriliscono nel ricordo, finché un giorno, nel tornare a sfiorare uno di questi individui canonici, non si trasecola di ravvisarvi qualche contrassegno prima occultato dal bagliore della loro stessa familiarità».

Il Cantico, diceva Contini, è uno di quei testi che tutti abbiamo imparato fin dalla fanciullezza, e che, un bel giorno riprendendoli ci accorgiamo di non avervi capito niente. E infatti quel breve testo, che sembrava semplice, facile, lucido, in realtà è di una complessità straordinaria. Sappiamo come è stato composto, in quale circostanze e perché; ma visto da vicino e con coscienza avanzata, salta fuori la complessità della sua chiarezza adamantina; si pensa di conoscere tutto, e in realtà, andando a fondo, ci si accorge che è un testo estremamente complesso.

San Francesco poteva non essere un teologo profondo, ma questa sua breve produzione poetica dimostra un’intelligenza e una preparazione letteraria raffinate, e anche una preparazione e attitudine filosofica di altissima qualità.

Infatti la lettura ci porta a scoprire una ricchezza di elementi che ci lasciano ammirati sia sotto il profilo del contenuto, sia sotto il profilo della forma; sia per la sostanza morale, teologica ecc., sia per la  forma e la qualità letteraria.

Il titolo non è uniformemente tramandato, esistono più forme: Cantico di Frate Sole, Laudes Creaturarum, Cantico delle Creature. Il codice più antico non risale nemmeno all’età propria di San Francesco, ma è più tardo, e si trova in un manoscritto della Biblioteca comunale di Assisi, dove all’inizio di questa pagina uno spazio è riservato alle annotazioni musicali: il che testimonia che se ne faceva anche uso come canto. Questo fatto è anche testimoniato dall’andamento melodico che ha questa poesia, perché alla lettura si evidenziano rime interne o finali, strofe organizzate, distici ecc.

La prima parte presenta una struttura che si potrebbe addirittura dire filosofica. Nella tradizione filosofica classica si comincia attraverso un moto discendente, si parte dall’alto e poi si scende pian piano. E qui si comincia a parlare del sole. Il sole è il più vicino a Dio ed è rappresentato come la luce divina; dal sole si scende a tutti gli altri astri, non solo: la discesa avviene attraverso i quattro elementi fondamentali della struttura tradizionale dell’universo: prima si comincia con l’aria, poi l’acqua, poi si arriva al fuoco e poi alla terra. Sono i quattro elementi fondamentali che sin dalla filosofia presocratica e aristotelica costituivano la struttura dell’universo. Prima il sole dunque, poi la luna, le stelle, frate vento, l’are e sereno; e poi “laudato sii mì Signore per sora acqua” – secondo elemento della natura -, poi “laudato sii mì Signore per frate focu” – terzo elemento -, “laudato sii mì Signore per sora nostra madre terra” – quarto elemento costitutivo dell’universo -. Infine si arriva agli uomini, che vengono citati con un formulario tipico delle beatitudini: beati quelli che perdonano per lo tuo amore; beati quelli kel sosteranno in pace, ecc. si trovano nelle beatitudini evangeliche, ossia quelli che perdonano, che piangono, quelli pacifici ecc.

In tale contesto il punto chiave di difficilissima interpretazione, e spiegato in modo diverso dai commentatori e dai critici, è il PER. Cosa vuol dire PER? “Laudato sii mì Signore PER frate vento, PER sora acqua”, ecc. Naturalmente non dobbiamo per questo fermarci al significato che diamo oggi alla particella PER, ma dobbiamo riportarci alla ricchezza di significato che essa aveva non solo nel latino classico, ma anche nell’uso volgare di quel tempo, per cui appare agli interpreti della poesia e ai critici in diversi sensi. Per alcuni, dunque, PER, ed è la spiegazione più ovvia, va inteso come ‘a causa di’, cioè “noi Signore Ti ringraziamo e Ti lodiamo a causa dell’acqua, del vento, dell’aria…”. Per altri quel PER è un complemento di mezzo, cioè “noi o Signore ti lodiamo per mezzo delle tue creature, attraverso le tue creature, per il tramite di quelle cose che Tu hai creato e ti sono care”.

Ma oltre e al di là di questi primi aspetti di linguaggio, ci sono i problemi di senso, quale quello di lodare la “natura”, protagonista della prima parte della poesia, e secondo la singolarità dell’autore, di uno che visse tra la fine del dodicesimo e l’inizio del tredicesimo secolo, in mezzo ad eventi e a modi di vita di una ristretta e modesta realtà quale Assisi. Come può anche un animo poetico di altissima qualità, assumere un atteggiamento verso la natura isolato quasi assolutamente nel suo tempo e del tutto diverso da quelle che sono le interpretazioni che l’uomo medioevale dava del mondo e della natura? Questo mi sembra essere il nocciolo, non soltanto di santità ma anche di poesia. Quale mai altro uomo d’allora poteva avere della natura una concezione di questo tipo, chi altro mai poteva trarre dalla natura una poesia cos’intima, lirica, spirituale?

Cito a confronto una pagina di un’opera allora famosa e assolutamente contemporanea a quella di san Francesco, e scritta anch’essa da un uomo di religione, il papa Innocenzo III. Innocenzo III, tra la sua produzione teologica, ha anche un breve scritto intitolato Il disprezzo del mondo. Una pagina che bisognerebbe leggerla mettendo fianco a fianco quello che Francesco canta della natura, delle cose, degli avvenimenti e quello che il papa scrive delle stesse cose negli stessi anni. Scrive Innocenzo III:

«La morte entra per le finestre, l’occhio tradisce l’anima, il mondo intero fa guerra, i popoli si combattono fra di loro, i regni si contrastano, grandi terremoti si diffondono e pestilenze, carestie, procelle; la terra produce spine e rovi, l’acqua produce tempeste e fiotti, l’aria è fonte di bufere e tuoni, il fuoco produce lampi e fulmini; è in agguato il cinghiale nella selva, il lupo e l’orso sono in agguato per l’uomo, la pantera,  il leone, la tigre, il coccodrillo, lo sparviero, il serpente, la biscia, l’aspide, il drago, lo scorpione, le vipere; e poi tormentano l’uomo le pulci, le cimici, i pidocchi, i tafani, le mosche, gli scarabei, le vespe, i pesci, gli  uccelli, perché tutti siamo stati creati per dominare i pesci del mare, gli uccelli del cielo e tutti gli animali che si muovono sulla terra e invece siamo preda e cibo di essi. Infelice dunque sono io uomo, chi mi libererà da questo corpo mortale? Certo non vuole uscire dal carcere chi non vuole uscire dal corpo; il corpo è il carcere dell’anima e Lui, dice il salmista, fa uscire dal carcere l’anima mia, non vi è mai quiete e tranquillità su questa terra, non vi è  mai pace e sicurezza;, dappertutto tremore, timore, dappertutto affanno, dolore ed infine la carne soffrirà e piangerà nella morte.

Credo sia difficile trovare contrasto così forte tra due spiriti pur animati da sentimenti simili o uguali; trovare un atteggiamento così diverso di fronte alla natura e alle cose. Ciò che distingue e fa di Francesco un poeta rispetto agli altri scrittori di quel tempo e di questo tipo, è il fatto che egli si incanala, e questa poesia è fondamentalmente incanalata, non tanto nella tradizione di pensiero quanto nella tradizione del sentimento poetico, tipico piuttosto della mistica che non della teologia; e qui entrano in funzione per ispirare la forma e il contenuto di questa poesia, i Salmi.

Il Cantico delle Creature ha l’andamento formale tipico del salmo, strofe ripetitive con un numero limitato di vocaboli; i vocaboli del Cantico infatti non sono assolutamente molti, piuttosto sono la ripetizione continua – mezzo con cui la poesia veniva mandata più facilmente a memoria –, e almeno due o tre salmi sono il richiamo immediato alla poesia del Cantico. Tutti fanno riferimento almeno al famoso salmo 148: Lodate il Signore dei cieli …/ lodatelo sole  e luna…/ lodatelo voi tutte fulgide stelle  /voi acque al di sopra dei cieli/.. Lodate il Signore dalla terra/…fuoco e grandine, neve e nebbia/.. .voi fiere e tutte le bestie/ rettili e uccelli alati.

Ma queste lodi che la poesia contiene e che vengono rivolte a Dio onnipotente, all’eterno, chi le dice? Sembra un’altra domanda strana, peregrina. Ma, sono lodi dette dal poeta, o da noi quando recitiamo? Sant’Agostino afferma che per lodare Dio bisogna essere Dio, cioè soltanto Dio è degno di lodare se stesso: frase diffusa anche ai tempi di Francesco. Questo cantico, questa poesia, per cui viene spontaneo dire che è il poeta che parla o che siamo noi a parlare, in realtà soggiace al problema che se nella tradizione teologica la lode a Dio è lode ad un essere talmente alto e sublime che nessuno ene dignu te mentovare, evidentemente non ne è degno né il poeta né noi: e allora sulla base di questi elementi è la seconda persona a lodare il Padre: cioè che chi parla, chi recita, chi scandisce queste parole è Gesù Cristo stesso, l’unico, come Figlio di Dio e Figlio del Padre degno di recitare la lode di Dio, la lode del Padre.

Anche se ci addentriamo nell’aspetto formale della poesia, ciò che sembra del tutto facile e spontaneo in realtà è costruito sopra dei ritmi che fanno parte della più alta tradizione retorica sia dell’antichità sia poi del Medioevo. Gli antichi non scrivevano a vanvera, non parliamo della poesia, chiusa dentro a forme rigide di sillabe, di accenti, di rime ecc.; ma anche scrivendo in prosa gli antichi seguivano un ritmo soprattutto nella parte finale della frase o del periodo, per cui le ultime due o tre parole dovevano avere una certa cadenza, dovevano battere su determinati accenti e dovevano avere sillabe che si succedevano con varie quantità e con dei suoni ora chiusi ora aperti. La lettura del Cantico delle Creature presenta spesso dei ritmi che fanno parte di questa struttura retorica molto forte e molto rigida. I ritmi consueti erano tre o quattro; per comporre e recitare un discorso ricco, solenne, pesante, una bella predica davanti ai cardinali, si adoperava un ritmo planus, cioè molto solenne; se invece si voleva scuotere il pubblico, si adottava un sistema diverso; anziché avere delle sillabe lunghe distanziate negli accenti, si componevano sillabe brevi con accenti molto battenti, un ritmo velox. Ebbene, nel Cantico delle Creature i due ritmi, il ritmo piano e quello veloce, si alternano a seconda dei momenti. Sembrano accenti normali, in realtà sono dettati da una sapienza costruttiva di altissima scuola retorica. Esempio di un ritmo veloce: Altissimo si konfano, Santissima voluntati; ritmo piano : dignu te mentovare; frate vento, sereno et omne tempo. Ritmi non soltanto esteriori ma confacenti al contenuto, come nelle stupende forme dei finali morte corporale, vivente può scappare, peccata mortali.

Con ciò voglio dire che non siamo di fronte soltanto a una poesia spontanea, anche se poi costruita in momenti diversi e in fasi diverse; è attraverso tutti questi strumenti interni ed esterni, nella costruzione iniziale e in quello che segue, nella struttura ritmica che regge dall’inizio sino alla fine, che il Cantico raggiunge una straordinaria unità, non si può tralasciarne nessuna parte. La conclusione della morte è la conclusione di tutto un processo anche formale discendente dall’alto verso il basso; partiti dall’alto, dal cielo, dall’aria, dal sole, non si può che concludere in quel modo, con una morte che si illumina attraverso la luce del punto di partenza.

In realtà ciò che chiamiamo poesia è un poema, ha la struttura di un poema; il fatto che sia breve non incide, perché l’impalcatura e la struttura sono pari alla struttura e all’impalcatura di una composizione ben più ampia.

Se a queste dovessimo aggiungere poi l’analisi linguistica, ci troveremmo anche qui di fronte a un documento letterario senza uguali per il suo tempo. Se pensiamo che il Cantico di Francesco è stato scritto cent’anni prima della Divina Commedia, questo dato cronologico assume un significato specifico: se cent’anni prima di Dante si è arrivati a strutturare una poesia di questo tipo, essa prova e deriva dalla cultura dell’autore. Quando si parla di san Francesco è facile dire che era un frate mendicante capace soltanto di parlare agli uccelli del bosco oppure di stringere la zampa al lupo; in realtà davanti a documenti come questo bisogna riflettere alla cultura e alla capacità d’animo necessarie per creare e strutturare una poesia di questo tipo. La bellezza e la grandezza delle lodi delle creature non è soltanto nella qualità del sentimenti che contengono, dell’idea e del sentimento che esprimono, ma è anche nell’aspetto formale, nel modo come questa poesia è strutturata, che è di altissima qualità. E quanto alla lingua, si vada a vedere l’analisi che ne fa un altro grande studioso dei nostri tempi, il cappuccino di Lugano Giovanni Pozzi, collega di Gianfranco Contini, in un saggio assai ampio pubblicato nella Storia della letteratura italiana di Einaudi.  Attraverso l’esame della sintassi, dell’aggettivazione, della ripresa di elementi biblici, del valore documentario di determinati termini, si configura il passaggio dal latino volgare all’italiano, e il linguaggio personale di un artista, una lingua parlata (centro meridionale: ellu è bellu…) e una lingua scritturale e liturgica.

Per tutto ciò e con tutto ciò si ritrovano o si rispecchiano nel Cantico le spinte le sorgenti e gli aneliti della spiritualità medievale francescana.

 
 
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