Il Cantico dei cantici:

l'amore e le sue riletture

di Luciano Zappella

 

tratto da: Il mondo della Bibbia107 Marzo - Maggio 2011, pp. 60-63

«Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché  tutti gli agiografi (ketubîm) sono santi, ma il Cantico dei Cantici [= il canto per eccellenza] è il Santo dei santi [= il santo per eccellenza]» (Mishnah, Jadaijm 3,5). L’affermazione di rabbì Aqivà (50-135 ca. d.C.) costituisce la testimonianza più famosa e più autorevole contro chi considerava il Cantico dei cantici una sorta di masso erratico non degno di entrare nel canone dei libri biblici. I legami con il racconto delle origini (Gen 1,1-3), con la letteratura profetica (soprattutto Os 1–3 e Ez 16) e con quella sapienziale (Proverbi e Qohelet) sono lì a dimostrare quanto la presenza del Cantico nel corpus delle Scritture ebraico-cristiane non sia un incidente di percorso.

Non ci occuperemo in questa sede del contenuto, del messaggio teologico e delle interpretazioni[1], bensì delle risorse poetiche presenti in questo piccolo libretto, al fine di mostrare come la superlatività del Cantico sia evidente anche (e forse soprattutto) a livello retorico e come la retorica poetica sia strettamente unita a una «retorica della sessualità»[2]. “Canticissimo” in quanto “poeticissimo”, il Cantico è un poema che costituisce l’ipotesto (o sottotesto) di numerose riletture.

 

1. Amore per le metafore

La poesia d’amore ama le similitudini e le metafore. La loro presenza non risponde a esigenze puramente ornamentali, bensì alla consapevolezza che l’espressione dell’amore non può darsi senza uno scarto linguistico: la retorica non sostituisce l’espressione dell’amore, ma la potenzia.

Dal Petrarca in poi, la poesia d’amore segna il trionfo della metafora. Proprio nel Trionfo della morte Petrarca descrive Laura morta in questi termini: «Pallida no, ma più che neve bianca / che senza venti in un bel colle fiocchi, / parea posar come persona stanca. / Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi, / sendo lo spirto già da lei diviso, / era quel che morir chiaman gli sciocchi: / Morte bella parea nel suo bel viso» (I, 66-172).

I poeti barocchi, in continua oscillazione tra misticismo e sensualità (così ben rappresentata dalle sculture del Bernini), fanno esplodere il corredo metaforico dei loro testi, dando vita a compiacimenti virtuosistici, come fa Gian Battista Marino (1569-1625) descrivendo le bionde chiome della sua donna («A l’aura il crin ch’a l’auro il pregio ha tolto, / sorgendo il mio bel sol del suo oriente, / per doppiar forse luce al dì nascente, / da’ suoi biondi volumi avea disciolto»), ma anche alle espressioni sognanti dell’esperienza mistica, come il Juan de la Cruz (1542-1588) delle Canzoni fra l’anima e lo Sposo, vera e propria rilettura del Cantico (letto ovviamente in chiave allegorica): «Nella più interna segreta / dell’Amato ho bevuto, e quando ne uscii / in tutta la campagna / più nulla riconobbi / e perduto era il gregge, che pascevo. / Là mi aprì il suo petto /  e m’insegnò un’aromatica scienza; / tutta a lui nell’atto / mi donai, senza riserve: /  là gli promisi di essere sua sposa. / La mia anima si è votata / con tutti i miei tesori al suo servizio: / e non ho più greggi / né altro uffizio; / ormai solo in amore è il mio esercizio».

Anche nel Novecento, il secolo della complessità e del postmoderno, la poesia d’amore non rinuncia al dispiegamento di metafore e similitudini. Valga per tutti l’esempio di Pablo Neruda (1904-1973): «Nuda sei semplice come una delle tue mani, / liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, / hai linee di luna, strade di mela, / nuda sei sottile come il grano nudo. / Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, / hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, / nuda sei enorme e gialla / come l’estate in una chiesa d’oro. / Nuda sei piccola come una delle tue unghie, / curva, sottile, rosea finché nasce il giorno / e t’addentri nel sotterraneo del mondo. / Come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: / la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia / e di nuovo torna a essere una mano nuda» (Cento sonetti d’amore, 27).

 

2. Metafore dell’amore

La poesia d’amore ama le similitudini e le metafore. A questa regola non sfugge il Cantico, il quale però presenta un tratto peculiare. Se infatti si confrontano le metafore della tradizione poetica occidentale con le metafore presenti nel Cantico, si nota che nella prima la metafora ha prevalentemente una dimensione visiva, mentre nel secondo essa ha anzitutto una dimensione funzionale. La metafora «i tuoi occhi sono colombe» (Ct 1,15b) non rimanda alla forma degli occhi della colomba (dimensione visiva), ma al significato della colomba, messaggera d’amore (dimensione funzionale).

Analogo discorso per la similitudine. Quando l’amato dice: «i tuoi seni sono come due cerbiatti / gemelli di gazzella» (Ct 4,5), non si deve pensare a un paragone tra i seni dell’amata e i caprioli (sarebbe un’immagine poco congruente), bensì alla modestia di lei, che non si fa avvicinare dal primo venuto, proprio come risulta difficile avvicinarsi a un capriolo. Quando afferma che «il tuo collo è come la torre di Davide» (Ct 4,4), non si riferisce alla sua forma slanciata (come i colli di Modigliani), ma, riferendosi al carattere difensivo della torre, all’orgogliosa coscienza di sé della donna.

Un altro tratto peculiare della metafora del Cantico è il suo valore performativo. L’immagine è cioè finalizzata a dettare un determinato comportamento, quasi a sottolineare che in amore, più che le parole, contano i fatti. In 2,3, per esempio, la similitudine dell’amato con il melo («Come un melo tra gli alberi della foresta / è il mio amore tra i ragazzi!») è subito seguita da un invito esplicito («Alla sua ombra mi piace sedermi / e il suo frutto è dolce al mio palato»): non si può paragonare l’amato a un melo senza agire di conseguenza, cioè sedersi alla sua ombra e mangiare i suoi frutti (con evidente metafora erotica). In 7,8-9 è l’amato, sempre con una similitudine, a esaltare la bellezza dell’amata: «Il tuo portamento assomiglia alla palma, / i tuoi seni ai grappoli» (v. 8); anche in questo caso, la similitudine non rimane fine a sé stessa, ma si trasforma in un invito dalla chiara connotazione sessuale: «Mi sono detto: “Voglio salire sulla palma / e afferrarne i rami!”» (v. 9). Si può quindi parlare di un vero e proprio «imperativo metaforico»[3].

Le similitudini e le metafore del Cantico si riferiscono all’ambito naturale (flora e fauna), all’ambito architettonico-artistico e a quello cosmetico. Natura e cultura sono intimamente uniti. E ciò vale sia con riferimento all’amore, che non è un puro affidarsi alla natura ma deve anche fare i conti con le necessarie mediazioni storico-culturali, sia con riferimento alla prassi poetica, che non è mera ispirazione ma deve essere sostenuta anche dal rigore della tecnica.

 

3. Tra cantica e Cantico: la rilettura dantesca

Una delle riprese più grandiose e impressionanti del Cantico è senza dubbio quella di Dante. Giunto nel Paradiso Terrestre e accolto da Matelda (Purgatorio XXVIII), Dante assiste a una solenne processione, intessuta di un’ampia simbologia biblica, al cui centro vi è un carro (la Chiesa) trainato da un grifone (XXIX). Introdotta dalle stesse parole del Cantico «Veni, sponsa, de Libano» (XXX, 11; Ct 4,8), fa la sua comparsa Beatrice, la quale rimprovera Dante accusandolo di traviamento (vv. 55-81.100-145).

Dante, e non può essere diversamente, legge in Cantico chiave allegorica[4]. Secondo una interpretazione che da Origene arriva sino al Medioevo, il Cantico rappresenta il culmine dell’opera salomonica, dopo il libro dei Proverbi e dell’Ecclesiaste: l’amore di cui si parla è quello dell’essere umano che, una volta rinunciato all’amore terreno, aspira al vero amore, quello divino. In questo senso, la vicenda dei due amanti non è altro che un percorso di purificazione, un cambiamento dell’oggetto d’amore, un passaggio dall’eros all’agape. Non è forse questa la stessa condizione di Dante, nel suo passaggio dalla «selva oscura» di un amore mal riposto (la Beatrice terrena) alla «divina foresta» di un amore purificato (la Beatrice celeste)? «In questa prospettiva la materia del Cantico diventa il sottotesto del dramma personale vissuto dal personaggio alla fine del Purgatorio» (Pertile, p. 239).

Ma la rilettura dantesca del Cantico si spinge sino alla parodia, cioè a una sorta di “contro-Cantico”. Lo si vede bene nella scena finale, una liturgia deformata in cui compare il carro trasformato in sette teste e dieci corna, sopra il quale appare una prostituta discinta (una “anti-Beatrice”) che scambia effusioni voluttuose con il gigante che le sta a fianco. Così la descrive Dante: «Sicura, quasi rocca in alto monte, / seder sovresso una puttana sciolta / m’apparve con le ciglia intorno pronte; / e come perché non li fosse tolta, / vidi di costa a lei dritto un gigante; / e basciavansi insieme alcuna volta. / Ma perché l’occhio cupido e vagante / a me rivolse, quel feroce drudo / la flagellò dal capo infin le piante; / poi, di sospetto pieno e d’ira crudo, / disciolse il mostro, e trassel per la selva, / tanto che sol di lei mi fece scudo / a la puttana e a la nova belva» (Purg. XXXII, 148-160).

Al di là delle tradizionali identificazioni della prostituta con la curia romana (cfr. la meretrice di Ap. 17,1-5) e del gigante con Filippo il Bello di Francia, a un occhio attento appare, come in filigrana, una rilettura parodistica della coppia del Cantico, coppia che entra in scena ex abrupto con il famosissimo incipt: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ct 1,2a). Come fa notare L. Pertile, «il baciarsi della puttana e del gigante nell’episodio dantesco altro non è che la parodia perversa e sacrilega, l’antitesi figurale, se vogliamo, del sacro bacio della Bibbia, il bacio con cui, sacrificandosi sulla croce, Cristo sposa la Chiesa e riscatta l’umanità perduta da Adamo» (p. 214). Il rapporto perverso tra il gigante e la prostituta è antitetico (è in sostanza un rapporto sadico: «la flagellò») non solo rispetto al Cantico (un amore tanto fisico quanto spirituale), ma anche rispetto al rapporto tra Beatrice e il carro trainato dal grifone (XXXII 34-63).

Un’altra spia, questa volta linguistica, della rilettura parodistica del Cantico è la scena finale in cui il gigante porta il carro e la prostituta nella foresta. Dante usa l’espressione «trassel per la selva» (v. 158), che rimanda inevitabilmente al «portami via con te, corriamo» del Cantico (1,4a), la cui traduzione latina (Vulgata) dice: «trahe me post te». Ma anche la selva, che nel Cantico è il luogo di un amore riconciliato («Le travi della nostra casa sono cedri / e i soffitti, pini»: 1,17), qui diventa una “anti-selva”.

Non resta che concludere, con L. Pertile (p. 224), che «l’episodio dantesco della puttana e del gigante è disposto e costruito deliberatamente in antitesi alla scena precedente in cui il grifone tira soavemente il carro e lo lega alla pianta. E […] entrambi gli episodi sono concepiti ed eseguiti artisticamente sul modello drammatico elaborato dalla secolare esegesi dei primi tre versetti del Cantico dei cantici».

 

4. La donna e gli animali

A mo’ di postilla, mi piace chiudere con una poesia tanto famosa quanto poco compresa, perfino dalla persona cui era stata dedicata. Si tratta di  A mia moglie di Umberto Saba (1883-1957). In questo testo, il poeta triestino paragona la moglie («Tu sei come…») alle femmine di animali domestici e mansueti: galline, mucche, cagne, coniglie, rondini, formiche, api. È lo stesso Saba a raccontare lo sconcerto dei lettori: «La poesia provocò, appena conosciuta, allegre risate […] Ma nessuna intenzione di scandalizzare, e nemmeno di sorprendere […]. La poesia ricorda piuttosto una poesia “religiosa”; fu scritta come altri reciterebbe una preghiera […] Pensiamo che sia una poesia “infantile”; se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa» (Storia e cronistoria del Canzoniere).

Gli studiosi hanno visto in queste parole il riflesso di un rapporto non risolto con la madre e con la balia di Saba. Tutto vero, certo. Ma forse nell’ebreo Saba ha giocato anche il ricordo della zoologia del Cantico, in cui si parla di cerbiatti, caprioli, volpi, gazzelle, colombe, capre, pecore, leoni e leopardi come di referenti naturalistici della bellezza femminile. Non è forse vero che molti lettori moderni trovano banali, se non addirittura offensiva, le similitudini tra la fanciulla del Cantico e gli animali? Se Adamo impone un nome «a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici» (Gen 2,20), l’amante del Cantico paragona la sua amata agli animali della creazione. Non è forse la stessa cosa che fa Saba con l’adorata moglie Lina, con la quale dividerà quasi cinquant’anni della sua esistenza?


 

[1] Per tutto questo, cfr. G. Ravasi, Il cantico dei cantici. Commento e attualizzazione, EDB, Bologna 1992 e G. Barbiero, Cantico dei cantici, Paoline, Milano 2004.

[2] Riprendo qui l’espressione di Ph. Trible, God and Rhetoric of Sexuality, Fortress Press, Philadelphia 1978.

[3] J.-P. Sonnet, Le Cantique: la fabrique poétique, in Les nouvelles voies de l’exégèse. En lisant le Cantique des cantiques, Cerf, Paris 2002, p. 171.

[4] Per ciò che segue, mi baso sull’acuto studio di L. Pertile, La puttana e il gigante. Dal Cantico dei cantici al Paradiso Terrestre di Dante, Longo ed., Ravenna 1998.