EPILOGO

 

Dante, “smarritosi” nella «selva oscura» della filosofia greca di Ulisse e della retorica classico-borghese di Brunetto, si salva nella “divina foresta” della teologia di Paolo e della parola di Isaia, che informano l’incandescente progetto morale, politico e religioso, incarnato nel “sacrato poema”

 

sì che dal fatto il dir non [è] diverso (Inf  XXXII, 12).

 

Alla condanna platonica della poesia «tre volte lontana dalla verità» (Repubblica, X), e del poeta, che non sa veramente nulla, altrimenti dovrebbe preferire di compiere le imprese che canta, il poeta fiorentino risponde con la propria

 

guerra

sì del cammino e sì de la pietate

che ritrarrà la mente che non erra (Inf   II,  4-6),

 

con il fiat creatore di Isaia

 

Et quomodo descendit imber et nix

De caelo, et illuc ultra non revertitur,

Sed inebriat terram, et infundit eam,

Et germinare eam facit,

Et dat semen serenti,

Et panem comedenti:

Sic erit verbum meum quod egredietur de ore meo;

Non revertetur ad me vacuum,

Sed faciet quaecumque volui,

Et prosperabitur in his ad quae misi illud (Is 55, 10-11).

 

Lasciamo, a questo punto, le conclusioni a un letterato, la cui meditazione sull’indissolubilità pensiero-arte in Dante si può far coincidere con tutta la sua vita di studioso: 

«Oggi molti non sanno credere che Dante abbia avuto davvero la profetica visione ch’egli narra e ne considerano la finzione quasi un romanzo teologico, inconsciamente irretiti dal pregiudizio illuministico di “ciò che è vivo e ciò che è morto”; e non paiono rendersi conto che morto è solo ciò che è stato vivo, e quello che è vivo è destinato ad esser sommerso nell’onda incalzante del fiume leteo, mentre eterna dura solo la vicenda dello Spirito che cova sulle acque fluenti e spira ove vuole»[1];

 

a un teologo, che legge l’opera di Dante, «poeta e uno dei pochi sommi», in sintonia con le cattedrali del Medioevo e le summae dei filosofi scolastici «in cui la ricchezza dell’esistenza perviene all’unità»: 

«Dante non è “poeta” nel senso nostro, ma costruttore di un mondo. La sua vera volontà non mira a esprimere un sentimento o a creare un’immagine, ma ad erigere un ordine nel quale mondo ed esistenza umana siano tali quali devono essere davanti a Dio (…) Forse ci è lecito dire che egli è uno dei primi laici cristiani creativi; di coloro cioè che sentono la sollecitudine per il mondo come un dovere cristiano (…) L’impresa di Dante nasce da questa serietà. Egli vuol costruire un mondo giusto davanti a Dio, un’esistenza  umana fondata sul retto ordine dei valori. In questa prospettiva, il fatto che tutto il mondo dantesco culmini nei valori del non-utile, del nobile e della pura libertà tocca il suo significato più alto; ed è appunto questo il significato che si esprime nel primato della bellezza»[2].


 

[1] B. NARDI, op. cit. 124

[2] R. GUARDINI, op. cit. 115-117

  

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