To ears of flesh and blood (Hamlet 1.5.22).

Note sul rapporto tra Shakespeare e la Bibbia

di Alessandro Perduca*

 

 

[© per gentile concessione di: Parola & parole, anno V, giugno 2007,

numero 9, pp. 33-49]

 

 

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(a sinistra, l'unico ritratto di Shakespeare quando era ancora in vita, risale al 1610, 6 anni prima della sua morte)

 
 

1. Introduzione[1]

L'analisi del rapporto fra testo biblico e opera shakespeariana rap­presenta, specie a favore di un pubblico di non specialisti, un ostacolo arduo e insidioso. Indipendentemente dalla sterminata mole di materiale critico e testuale, difficilmente appannaggio di un singolo studioso (argomento che potrebbe apparire facile e retorica excusatio), stabilire dei criteri filologici di confronto testuale, tracciare una griglia erme­neutica di comprensione nella quale inquadrare la lettura del testo si configura di fatto come un vero e proprio percorso su "campo minato".

Partiremmo allora da alcune domande, all'apparenza banali, che il tema stesso di questo intervento pare suggerire: la Bibbia può essere considerata una "fonte" letteraria per i testi shakespeariani? In che mi ura e in quale contesto Shakespeare leggeva e conosceva la Bibbia? In quale versione?

Procederemo, poi, stabiliti alcuni punti fermi sempre supportati dagli sviluppi più recenti della ricerca, fornendo un esempio di lettura dalla quale far emergere il rapporto fecondo di questa complessa inter­testualità.

 

2. La Bibbia nei testi shakespeariani

Nella sua opera fondamentale, Naseeb Shaheen[2] cataloga le oc­correnze implicite o esplicite del testo biblico rinvenendone numerose centinaia e fornendo criteri di lettura adeguati per il rinvenimento di passi biblici quali fonti dei testi shakespeariani. Ci serviremo di alcuni esempi: un paio tratti dal volume citato, l'altro ad esemplificazione della metodologia utilizzata.

Quando i cospiratori raggiungono la dimora di Cesare per ac­compagnarlo al Senato, egli li saluta con le seguenti parole: «Good friends, go in, and taste some wine with me»[3]. Si possono considerare la parole di Cesare come un'eco del racconto evangelico dell'ultima cena: un invito rivolto da Cesare per l'ultima cena prima del tradimen­to? La lettura della principale fonte del dramma, la Vita di Cesare di Plutarco nella traduzione di T. Norths[4] ci rivela che il solo Decio Bruto Albino si reca a casa di Cesare per condurlo al Senato, persuaden­dolo ad ignorare gli infausti segnali e senza alcuna allusione a cene o bevande. L'intento shakesperiano parrebbe quello di una drammatiz­zazione dell'evento rivolta ad un pubblico in grado di comprendere il risvolto implicito nell'allusione al racconto evangelico e al sacrificio di Cesare.

Un primo criterio pare quello di cogliere l'eco biblica e la sua pre­senza testuale a partire dallo scarto rispetto alla fonti accertate dalle quali risulti la totale assenza del riferimento in questione. Ad esempio, e come lo stesso Shaheen rileva, sarebbe facile, procedendo per semplice accostamento analogico, leggere la relazione fra Macbeth e Lady Mac­beth come modellata sull'episodio narrato in 1Re 21 dove la regina Ge­zabele persuade re Acab ad assassinare Nabot. Una lettura delle fonti, se­gnatamente le Cronache di R. Holinshed[5] ci segnala non solo l'episodio in riferimento alla storia scozzese, ma che se un legame esiste, va cercato piuttosto in una costante o clichè narrativo comune a più culture.

Un ultimo esempio. Nel quarto atto di Henry V il re afferma «Every subject's duty is the King's, but every subject's soul is his own»[6], afferma­zione che pochi versi più sotto trova un completamento nelle parole del soldato Williams: «Tis certain, every man that dies ill, the ill upon his own head; the king is not to answer it»[7]. Difficile dopo aver esaminato le fonti primarie e averne esclusa la presenza, non rilevare il parallelo rispettivamente con Matteo 22,21: «Give therefore to Cesar, the things which are Cesars, and give unto God, those things which are Gods»[8] e Sal 7,17: «His trauel shal come upon his own head: and his wickednes shal fall on his own pate»[9].

A questo punto ci chiederemo: quali sono la funzione e il significa­to di questo effetto "drammatico" apportato dalla testualità biblica? La risposta si articola su un duplice versante che, da un lato pertiene alla struttura e alla funzione del «testo» teatrale elisabettiano (e del testo teatrale tout court), e dall'altro, al rapporto fra l'autore e la Bibbia nella propria epoca e formazione.

Abitualmente il lettore comune legge e cita Shakespeare a partire da un testo (tralasceremo qui la genesi del canone)[10], che in origine non nasce per una lettura privata dello spettatore, ma esclusivamente come testo di riferimento per l'azione drammatica, più simile dunque ad un copione o ad una sceneggiatura. Nulla di quanto ci resta può in defi­nitiva garantire una stesura autografa da parte di Shakespeare né una stabilità definitiva.

È pur vero che la filologia shakespeariana è in buona misura fi­lologia di testi stampati, ma la stampa nel suo caso obbediva più ad esigenze di copyright e di difesa da un'appropriazione indebita che non alla preservazione di una tradizione testuale. Il testo, affidato alla prodi­giosa memoria degli attori che all'epoca recitavano più parti di una me­desima opera, era fondamentalmente instabile, soggetto alle variazioni che l'atto performativo di volta in volta esigeva. Ad esso contribuivano l'invenzione dell'autore e la perizia consolidata degli interpreti, giocan­do sull'efficacia retorica della parola e sull'incastro dei tempi teatrali. Si consideri, inoltre, che la rappresentazione avveniva in spazi e condizio­ni completamente diversi da quelli che il lettore moderno ha in mente quando pensa ad uno spettacolo teatrale[11].

La genesi e la formazione dei "testi" della grande stagione elisa­bettiana segue un percorso tortuoso nel quale confluiscono tradizioni differenti per struttura e appartenenza socio-culturale. Esse, amalgamandosi, si compongono e si intrecciano, dando origine a propria volta a un insieme denso e stratificato, dalla polisemia sfuggente e voluta­mente ambigua, connotato da molteplici livelli di lettura e fruibile da un pubblico composito per cultura e appartenenza quale era quello dei teatri inglesi dell'epoca. Ecco allora che il teatro medievale, Mistery e Morality plays, il teatro popolare, la tradizione classica (Plauto e Teren­zio per la commedia, e Seneca come veicolo della tradizione tragica), il teatro concepito per gli ambienti nobiliari e universitari erano in grado di riverberare su ciascuno la ricchezza di questa fusione e di restituire a ciascuno, grazie a un'abilità retorica a volte strabiliante, tutto o parte dei significati in gioco. A tale proposito è difficile immaginare una testuali­tà densa e omnipervasiva del tessuto sociale culturale coevo quanto la Bibbia, intesa come deposito di materiale testuale e retorico in grado di catturare l'attenzione e di veicolare significati alla portata di un pubbli­co vasto e composito.

Si potrebbe, senza ingannarsi di molto, affermare che, di tutte le possibili fonti testuali per la composizione di un dramma o di una com­media, il Nuovo e l'Antico Testamento rappresentassero l'unica fonte davvero comune, in un certo senso infallibile dal punto di vista della referenzialità e della comprensibilità: chiunque, potenzialmente, avreb­be potuto coglierne, a livelli differenti, l'eco linguistica e il contesto, gli sviluppi tematici o narrativi.

 

3. La Bibbia ai tempi di Shakespeare

Gli anni dalla nascita (1564) alla sua apparizione sui palcoscenici londinesi (1594) racchiudono le tappe essenziali della formazione di Shakespeare. Sono anni che sanciscono il consolidamento del potere Tudor e, per quanto attiene alla nostra indagine, il laboratorio del­la fissazione di un testo biblico ufficiale per la Chiesa di Inghilterra, reduce da anni di sofferta elaborazione, scontro politico e diatriba confessionale.

L'idea di una traduzione del testo biblico[12] ha radici antiche nelle isole britanniche e predecessori illustri: basti pensare alle glosse del­l'epoca di re Alfredo, alle traduzioni di Aelfric o alla lirica di ispirazione biblica della letteratura antico-inglese ed è parimenti indubbio che la traduzione di John Wycliffe portata a termine fra il 1380 e il 1400 (condotta sulla Vulgata latina) ha notevoli analogie di ispirazione con l'opera dei traduttori posteriori.

Cionondimeno è solo con il pensiero della Riforma e la sua diffu­sione in Inghilterra che si consolida, preceduta dalle imprese editoriali di Lutero ed Erasmo, l'idea di una traduzione da testi originali vagliati criticamente con conseguente restituzione di un significato integro ed affidabile. Il cammino che fra poco ripercorreremo a grandi linee rap­presentò, con il contributo fondamentale della stampa, un apporto de­finitivo alla pedagogia nazionale e alla fissazione di uno standard lingui­stico. Il primo passo decisivo fu compiuto da W Tyndale (1494/5-1536) che nel 1526 tradusse e fece stampare a Worms il Nuovo Testamento. Operando sulla base della seconda e terza edizione critica del testo greco con traduzione latina del Nuovo Testamento di Erasmo e con­sultando parallelamente la Vulgata e la traduzione di Lutero del 1522, Tyndale segnò una svolta nella definizione di un linguaggio e di una sintassi di base per le traduzioni posteriori, oltre a stabilire espressioni e stilemi ancora patrimonio della lingua contemporanea[13]. Purtroppo non gli riuscì di completare l'intero testo biblico editando solamente il Pentateuco (1530) e il Libro di Giona (1531) prima della condanna al rogo nel 1536.

L'opera di Tyndale fu continuata da uno dei suoi collaboratori Mi­les Coverdale (1488-1568) che nel 1534 aveva ricevuto dal mercante luterano Jacob van Meteren di Anversa la commissione di tradurre integralmente la Bibbia. Il testo fu stampato nel 1535 e successivamente importato in Inghilterra. La terza edizione del 1537 fu la prima Bibbia inglese a ricevere una patente reale. La traduzione non era condotta sugli originali, ma sulle più accurate versioni latine, inglesi e tedesche disponibili. Di particolare pregio è la traduzione dei Salmi che verrà ri­presa nella Great Bible e inserita nel Salterio della Chiesa di Inghilterra, cantato o proclamato negli uffici mattutini e serali. Si consideri che le citazioni shakespeariane statisticamente più frequenti della Bibbia pro­vengono dai Salmi e, qualora vengano riferite ad una versione precisa, coincidono con quelle del Salterio.

Passando per le revisioni-collazioni di John Rogers (1500-1555) e del grecista Richard Taverner (1505-1575), l'opera di traduzione culmi­na nella Great Bible del 1539 commissionata dall'arcivescovo Cromwell nel 1538 e affidata a Miles Coverdale. Egli, infatti, facendo uso delle versioni precedenti operò un controllo testuale sulla versione parallela ebraico-latina dell'ebraista Sebastian Münster, professore a Basilea, ri­correndo alla Vulgata e ad Erasmo per il Nuovo e alla versione comple­ta della Poliglotta Complutense del 1520. Fu pubblicata in più edizioni che si differenziano sul piano testuale per l'inserimento di correzioni e di composizioni tipografiche differenti[14].

La corona, preoccupata che le numerose versioni ormai in circo­lazione ingenerassero confusione nell'interpretazione, bandì gradual­mente le versioni precedenti e fece della Great Bible un testo uniforme nella dottrina e nel culto tanto comunitario quanto individuale. L'inter­regno della cattolica Maria (1553-1558) segnò un periodo di persecu­zione per i protestanti e non dovrebbe essere difficile intuire la politica della sovrana nei confronti del testo biblico e della sua traduzione. Ciò permise, paradossalmente, agli esuli protestanti rifugiati a Ginevra di portare a termine la versione più elaborata e completa dell'intero XVI sec.: la Geneva Bible. Tradotta da W. Wittingham, A. Gilby, T. Sampson correggendo dai testi originali e con il supporto di G. Calvino (autore della lettera dedicatoria), essa beneficiò di un clima estremamente fa­vorevole.

Nella Ginevra del tempo, oltre a Calvino era presente Teodoro di Beza e venivano contemporaneamente approntate traduzioni francesi e italiane permettendo il confronto fra umanisti e traduttori di alto livello. Stampata per una vasto pubblico anche in formati che oggi de­finiremmo "tascabili"; questa versione possedeva un comodo sistema di consultazione per capitoli e versetti e, importante strumento, un sistema di note marginali di commento e di varianti testuali basata sui significati originali greci ed ebraici. Fra il 1560 e il 1616 ne furono stam­pate novanta edizioni[15].

L'ascesa al trono di Elisabetta I nel 1558 ripristinò la Great Bible come testo ufficiale, ingiungendo nel 1559 che ogni parrocchia d'Inghil­terra ne possedesse un esemplare. Tuttavia la concomitante edizione della Geneva Bible ne rese evidenti alcuni limiti (la mancanza di una divisione in versetti, ad esempio) e una revisione fu approntata sotto la supervisione del vescovo Parker e pertanto conosciuta come Bishops' Bible. Basata sulla Great Bible venne corretta dove necessario sui testi originali e prodotta in un volume in folio nel 1568 diventando de facto Bibbia ufficiale della Chiesa d'Inghilterra. Seppur non uniforme nella resa e nell'accuratezza della revisione delle parti, probabilmente inferio­re alla Geneva Bible per fedeltà e precisione nel confronto con gli origi­nali, vieppiù sprovvista di note, deve la sua fortuna all'utilizzo liturgico e alla sua capillare presenza nelle chiese del regno.

Nel breve spazio di questo intervento non è possibile menzionare altri contributi che pur inserendosi nella storia della traduzione della Bib­bia in Inghilterra meno hanno a che fare con l'intertestualità shakespeariana[16]. Unica eccezione è la versione del Nuovo Testamento elaborata dagli esuli cattolici a Rheims nel 1582 (completata dall'aggiunta dell'An­tico Testamento nel 1609-1610 nel collegio di Douay)[17]. È una traduzione profondamente influenzata dalla versione latina autorizzata dal Concilio di Trento e strettamente aderente al vocabolario e alla sintassi latina.

Ne facciamo menzione perché esiste una polemica da parte di alcuni studiosi che sostengono l'appartenenza di Shakespeare alla fede cattolica e una sua conoscenza diretta di tale versione. Molto più probabilmente era a conoscenza della confutazione del polemista anticat­tolico W. Fulke. Egli nel 1589 aveva infatti pubblicato una Confutation nella quale il Nuovo Testamento della Bishops' Bible e della Rheims apparivano su colonne parallele e non è da escludere che Shakespeare abbia potuto trarre vantaggio da varianti significative che si confaceva­no ad esigenze compositive.

Quale fu, allora, il testo utilizzato dall'autore? È possibile stabilir­lo? Generalmente dal confronto testuale è accettato dagli studiosi che la versione di riferimento più utilizzata è sicuramente la Geneva Bible accanto al testo dei Salmi contenuto nel salterio, ma le due versioni ufficiali dell'epoca Tudor (Great Bible e Bishops' Bible) seguono imme­diatamente. È forse più corretto concludere che gli anni di formazione dell'autore trascorsero a ridosso di un processo di consolidamento te­stuale della traduzione della Bibbia in inglese dal quale egli, attraverso i risultati migliori, ha saputo trarre il massimo beneficio linguistico e drammaturgico.

 

4. Shakespeare e la Bibbia

Un contributo significativo all'approccio di Shakespeare al testo biblico proviene però anche da altre fonti. Mette conto, infatti, segna­lare gli anni della formazione scolastica e la frequentazione della chiesa con la costante presenza del Book of Common Prayer, del Book of Ho­milies e dei sermoni.

La liturgia anglicana conosciuta da Shakespeare[18], ormai conso­lidata da quasi mezzo secolo, era fondamentalmente imperniata sul Book of Common Prayer nella versione del 1559 promossa dalla regina Elisabetta I. Esso rappresenta una sintesi di alto valore letterario vo­luta dalla neonata chiesa autocefala d'Inghilterra in cui confluiscono adattamenti della liturgia pre-riformata (Messale, Pontificale, parti del breviario), passi biblici e materiale originale o di provenienza orientale (ad esempio, la preghiera di San Giovanni Crisostomo). La versione del 1559 rappresenta un compromesso fra diverse istanze e spinte all'inter­no della comunità dei fedeli nella quale elementi cattolici e riformati mantenevano un tasso costante di conflittualità.

Il ciclo liturgico prevedeva la lettura del salterio completo nell'arco di un mese, del Nuovo Testamento tre volte l'anno e dell'Antico in uno. La domenica e durante le feste solenni era prevista una omelia da leggersi fra quelle contenute nel Book of Homilies qualora la chiesa non avesse a servizio un predicatore ufficialmente autorizzato.

La progressiva riforma della Chiesa inglese aveva inizialmente sofferto la mancanza di pastori e predicatori adeguatamente preparati e così le autorità avevano approntato una serie di omelie apparse in tre fasi (rispettivamente il First Book of Homilies nel 1547e il Second Book of Homilies nel 1563 e un completamento nel 1571 con la pubblicazione dell'omelia Against Disobedience and Wilfull rebellion).

Esse, nel loro complesso, sottolineano l'importanza delle scritture, istruiscono sui fondamenti della confessione anglicana, sul significato delle feste, sull'obbedienza all'autorità, la vita cristiana e gli "errori" cattolici. Shakespeare ebbe sicuramente modo di ascoltarle a Stratford dove probabilmente mancavano predicatori autorizzati mentre a Londra è più probabile che predicatori autorizzati tenessero sermoni in oc­casione degli uffici domenicali e festivi nonché per la commemorazione di eventi di particolare importanza.

Esistevano anche numerose versioni a stampa di sermoni pre­dicati che costituiscono un'ulteriore fonte di contatto con i testi delle scritture. Facendo un piccolo passo a ritroso, non dobbiamo trascurare l'importanza che la Bibbia ebbe durante la formazione scolastica di Shakespeare. Alla grammar school di Stratford gli scolari iniziavano il loro curriculum all'età di circa sette anni, ma questa era preceduta dalla cosiddetta petty school dove si apprendevano i rudimenti della scrittura, della lettura e le preghiere.

I testi di riferimento erano l'ABC with Catechism e il Primer. Il pri­mo conteneva l'alfabeto e le preghiere, il secondo testi dei Salmi e passi biblici completi (poi sostituito dal Book of Common Prayer).

Successivamente alla grammar school si passava a testi catechetici più completi, ma è facile intuire come i ragazzi imparassero a leggere sui testi biblici e la Bibbia costituisse la fonte principale di iniziazione al concetto di testo scritto.

In questo Shakespeare non rappresentò un'eccezione rispetto ai suoi coetanei, ma è altresì lampante quanto la testualità biblica fosse fondamentale e fondante nell'istruzione come nella vita quotidiana del suo ambiente.

 

5. Un esempio di analisi testuale: l'Apocalisse e la letteratura apoca­littica in Antonio e Cleopatra

Per concludere vorremo fornire un breve esempio di lettura e ana­lisi[19] dal quale emerga la capacità dell'autore di far interagire la testualità biblica in un complesso dialogo con le dinamiche culturali e politiche del proprio tempo, mostrandone al contempo la necessaria implicazio­ne. Premettiamo che non si tratta di evidenziare un impegno ideologico e religioso di Shakespeare, ma di mostrare come la letteratura, e il codi­ce della tragedia in particolare, siano capaci di polarizzare ed esplicita­re, a livelli differenti di lettura e fruibilità le tensioni delle contingenze storiche nel quale l'autore vive e sul quale medita con la propria opera (nel caso specifico la transizione Tudor-Stuart).

Prenderemo ad esempio Antony and Cleopatra e cercheremo di analizzare come viene delineata la figura di Ottaviano quale modello di sovranità. Le vicende storiche oggetto della tragedia - la profonda crisi dell'identità romana, la transizione dalla repubblica al principato, la missione di Augusto, il confronto-scontro Roma-Egitto (The Clash of Civilizations, lo "scontro di civiltà" si direbbe oggi, seguendo la nota formulazione di Huntington) - ben si prestano a valutare la ricezione dei valori classici e la loro riappropriazione-trasformazione, nella pe­culiarità dell'assetto inglese, in termini riconducibili all'espressione di contenuti che oggi sbrigativamente definiremmo «ideologici».

Il cambiamento epocale, la condotta dei sovrani doveva allora ri­condursi ad una «logica» superiore, la cui tensione drammatica ne­cessitava di risolvere al contempo in un progetto che trascendesse la contingenza degli accadimenti umani. L'attesa escatologica, che echeg­gia nella mentalità coeva al cambio di sovrano e a un mutato progetto politico, trova una chiave di lettura efficace nelle direttrici della storia tracciate dalle Scritture e nel libro dell'Apocalisse un percorso simboli­co e tematico carico di aspettative e «segni» di portata epocale.

L'autore, il drammaturgo in particolare, non poteva non cogliere l'occasione offerta di intrecciare le vicende degli uomini a un destino loro trascendente, mostrandone il tortuoso e drammatico conflitto, in special modo attraverso un codice di comunicazione condiviso secon­do le dinamiche che abbiamo esposto precedentemente. L'analisi che seguirà intende verificare a livello microtematico come il rapporto fra stasi e moto nei movimenti dei personaggi e la loro dinamica e dialogo intertestuale con le Scritture contribuiscano a illuminare e a delineare con maggiore chiarezza la fenomenologia e la rappresentazione del potere da un lato, e la sua contestualizzazione storico-culturale dal­l'altro.

Ottaviano, che in Plutarco tradotto da North compare «scarcely described»[20] e viene raffigurato come mero «instrument of fate»[21], riap­pare, in Shakespeare, nell'ordine e nel fine del suo muoversi, rimodellato in chiave apocalittico-profetica, figura di monarca universale, saggio e giusto: Davide, Salomone, Cristo. Questa concezione della regalità e la forza della sua dimensione ideologica si proiettano sul testo attraverso una complessa relazione di rapporti testuali con le scritture, e in par­ticolar modo con il libro dell'Apocalisse. Tali rapporti permettono una significativa sovrapposizione del modello classico (Plutarco in partico­lare) e biblico:

• Antonio, nobile generale, menomato nella sua gravitas e constan­tia, abbandonato dal dio e vicino al Saul biblico abbandonato da Dio;

• Cleopatra, monarca orientale, ma metafora della grande prosti­tuta di Babilonia (e della Chiesa corrotta);

• Ottaviano, fondatore e rinnovatore della romanità, ma modella­to sul paradigma davidico-salomonico del re guerriero e legislatore;

• vecchia e nuova Roma che al contempo è nuova Gerusalemme e nuovo Israele.

Con l'entrata di Cesare Ottaviano nella quarta scena del primo atto, Roma, fino a quel momento allusa, richiamata o fantasticata si pre­senta con tutta la sua solidità e compattezza. Tale compattezza si iscrive in una dimensione profetico-apocalittica che sostanzia i movimenti di Cesare e ne esplicita la logica interna attraverso una complessa serie di relazioni testuali con l'apocalittica cristiana. Nel quarto atto prima di dare inizio alla battaglia, Ottaviano evoca con echi virgiliani la pax augustea e la concordia del regno futuro:

«The time of universal peace is near.

Prove this a prosperous day,

the three-nooked world Shall bear the olive freely»[22].

Sin dalla sua comparsa in scena rinsalda tale dimensione politico­-ideologica a quella morale. Sotto gli occhi di Lepido si delinea la gravi­tas di Cesare (parallelamente alla denigrazione di quella di Antonio sotto gli occhi di Demetrio), la sua natura aliena dal vizio, la sua naturale metriòtes (= moderazione).

«You may see, Lepidus, and henceforth know

It's not Cesar's natural vice to hate

our great competitor»[23].

Egli, infatti, è in grado di valutare la vera portata della colpa di Antonio isolandola dalla mera contingenza. Obiettando all'osservazione di Lepido:

«I must not think there are

Evils enough to darken all his goodness»[24],

osserva che se essa consistesse nel semplice prevalere della passio­ne sulla razionalità, ebbene, egli rientrerebbe nel novero di coloro che "la ragion sottomettono al talento". Ma il suo comportamento costantemente stigmatizzato nella sua staticità (cfr. i verbi fishes, sit, stand), incostanza e disordine (wastes, tumble, keep the turn, reel)

«He fishes drinks and wastes

The lamps of night in revels»[25].

«Let's grant it is not

Amiss to tumble on the bed of Ptolemy, To give a Kingdom

for a mirth, to sit and keep

the turn of tippling with a slave

To reel the streets at noon and stand the buffet

with knaves that smells of sweat»[26],

contravviene all'ordine universale, rischia di non portare a compi­mento il télos (= fine) ultimo, il ristabilimento della pace universale per­ché il movimento, non finalizzato secondo il lògos che ordina e regola l'universo intero e la catena dell'essere, porta alla morte.

«This common body

Like to a vagabond flag upon the stream

Goes to and back, lackeying the varying tide,

To rot itself with motion»[27].

Si tratta di un finalismo di matrice neostoica[28]. Esso si configura nella teoria lipsiana del Fatum ex Providentía «per cui il fato non è altro che il dispiegarsi nel tempo dell'eterno disegno di Dio assumendo il volto della necessità che inerisce ad ogni realtà rispettandone la natura»[29] e dal quale procedono l'imperturbabilità, la gravitas e la constantia del saggio.

E dopo l'esortazione

«Leave thy lascivious wassails»[30]

e un richiamo al valore perduto ecco espressa la necessità di pas­sare all'azione

«Tis time we twain

Did show ourselves I'th field»[31]

come assunzione consapevole di un compito universale. «Tis Tí­me» (è giunto il tempo) e for The time is at hand recita la Geneva Bible e reciterà la Authorized Version[32] di lì a pochi anni nel primo capitolo dell'Apocalisse. Numerosi sono i richiami al sigillo delle scritture, disse­minati nell'intero testo. Essi paiono convergere su Ottaviano come mo­narca universale, modello davidico e salomonico al contempo di abilità guerresca, pace e saggezza, analogo di Giacomo I teso alla definizione di una via media capace di affermare l'autorità regia e, al contempo, ap­pianare i contrasti dottrinali e politici, operazione non priva di marcati contorni escatologici. A questo riguardo è impossibile non ricordare che Antony and Cleopatra fu composto fra la Conferenza di Hampton Court del 1604 e la pubblicazione nel 1611 di uno dei manifesti ideolo­gici del suddetto programma: l’Authorized Version appunto.

Lord of Lords lo saluta Cleopatra nell'ottava scena del quarto atto con la titolatuta di Ap. 17,14 e 19,16. Titolatura questa che nei due versetti citati si accompagna a quella di "King of Kings" accentuando al contempo la figura sacerdotale e quella regale del Cristo.

Il modello valoriale rappresentato da Ottaviano combina dunque tratti neostoici: la conformità al dovere, la logica (intesa come confor­mità al lògos) dell'azione, la saggezza e finanche l'opportunismo, con le caratteristiche del sovrano universale preconizzato dall'apocalittica cristiana. Si tratta del kathékon (= dovere) stoico e delle sue virtù cri­stianamente rilette: saggezza pratica, giustizia, temperanza e fortezza, finalizzate al compimento di una giustizia superiore dalla forte conno­tazione escatologica.

Nel terzo atto, dialogando con l'amata sorella, dice di Antonio

«He hath given his empire

Up to a whore, who are now levying

The kings o'th' earth for war»[33].

Vi è un richiamo ulteriore ai primi due versetti del cap. 17 del­l'Apocalisse, che citiamo interamente:

«Come: I will shew thee the damnation of the great whore that sitteth upon many waters, with whome haue committed fornication the kings of the earth»[34].

Si insituisce qui un complesso tessuto di relazioni testuali con rife­rimento alla regalità, all'autorità e alle prerogative del monarca. Consi­derando l'offesa subita dalla sorella, Ottaviano afferma:

«And the high gods

To do you justice, makes his ministers

Of us»[35],

riprendendo nella sostanza il finale di 2Cronache 9,8 («Therefore made he thy king over them to do judgement and justice»[36]), Romani 13,4 («For hee is the minister of God for thy wealth...»[37]) e 13,6 («...For they are Gods ministers»[38]).

Una nota della Geneva Bible così commenta il versetto tratto dal libro delle Cronache: «Kings are the liutenantes of God, which ought to graunt unto him the superiority, and minister justice to all»[39].

È questo un chiaro argomento scritturale per la giustificazione che «civil governments are God's ministers instituted to execute pu­nishment on evildoers»[40]. L'incontro con la regina, iscrivendosi nel codice che regola il comportamento fra sovrani di pari rango, sottolinea l'aspetto cerimoniale della vittoria di Cesare, la cui superiorità viene sancita dall'obbedienza:

«I hourly learn

A doctrine of obedience»[41].

«My master and my lord

I must obey»[42].

I sudditi di qualsiasi rango sono richiamati al rispetto dovuto al sovrano e così come sancito dalle omelie del periodo Tudor[43].

Se è vero che la grandezza d'animo e la scelta del suicidio della sovrana vengono cavallerescamente e comunque esaltate come prero­gative di rango («beeing royal took her own way»[44]), nei versi finali Ottaviano circoscrive l'intera vicenda nella aura di exemplum e sancisce quel High Order[45] che si estenderà ben oltre le esequie materiali della coppia, ma non tace tensioni apocalittiche che, qui preconizzate, mostreranno la loro drammatica attualità negli anni successivi che condurranno alla guerra civile.


 

*Nato a Milano nel 1969, sposato e padre di una figlia e due figli, è docente di lingua e let­teratura inglese nei licei con esperienza di ricerca e didattica universitarie. Si è occupato di letteratura inglese moderna e contemporanea (Shakespeare, Conrad, Wordsworth, Auden, Heaney), pubblicando vari saggi e interventi critici. I suoi interessi riguardano principal­mente l'analisi dei testi letterari in chiave comparatistica e di storia delle idee. Per le Edizioni San Paolo ha tradotto Ali spezzate (2000) e La tempesta (2002) di Kahlil Gibran e La vita di Nostro Signore di Charles Dickens (2001).

[1] Il titolo delle opere citate in inglese dalle edizioni Arden viene così abbreviato: Julius Caesar (JC); Antony and Cleopatra (AC); Henry V (Hen.V); le citazioni bibliche provengono dalla Geneva Bible, come appare in Shaheen, Biblical References in Shakespeare's Plays vedi nota 3. Le traduzioni da Antony and Cleopa­tra provengono dalla versione di Agostino Lombardo (Feltrinelli, Milano 2000) con qualche lieve modifica funzionale all'analisi testuale, altre traduzioni sono a cura dell'autore del con­tributo. I passi biblici seguono la versione delle Edizioni San Paolo, con qualche adattamento dalla versione inglese.

[2] N. Shaheen, Biblical References in Shakespeare's Plays, University of Delaware Press, 1999. Vera miniera di informazioni. Con un'ampia introduzione storico tematica cataloga le oc­correnze bibliche di tutti i testi del canone shakespeariano con riferimenti alla letteratura liturgica e religiosa coeva.

[3] «Entrate, buoni amici, a gustate del vino con me» (JC, 2.2.126)

[4] Sir T. North, The Lives of the noble Grecians and Romanes, 1579, apparsa in edizioni suc­cessive era una traduzione condotta sulla versione francese di J. Amyot del 1559.

[5] R. Holinshed, Chronicle of England, Scotland and Ireland, 1577. Rivista, corretta e aumen­tata nel 1587 dall'autore stesso fornì a Shakespeare materiale per la seconda tetralogia di drammi storici.

[6] «Ogni suddito risponde al re quanto al suo dovere, ma solo a se stesso per la propria ani­ma» (Hen. V, 4.1.175-176).

[7] «Di sicuro ogni uomo che muoia compiendo il male, lo vedrà ricadere su se stesso; il re non ne risponderà» (Hen V 4.1.185-186).

[8] «Date dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

[9] «Ricade la sua malvagità sulla sua testa / e sul suo capo la sua violenza discende».

[10] Cfr. G. Melchiori, Shakespeare, Laterza, Bari 2000°, pp. 14-25; G. Baldini, Manualetto shakespeariano, Einaudi, Torino 1964, pp. 61-87.

[11] Il lettore curioso può consultare L. Innocenti (a cura di), Il teatro elisabettiano, Il Mulino, Bologna 1994.

[12] Un panorama completo è contenuto in D. Daniell, The Bible in English, Yale University Press, New Haven, 2003.

[13] Si pensi a vocaboli come passover (Pasqua), scapegoat (capro espiatorio) e alla popolare (ancorché scorretta) forma Jehovah per il tetragramma divino. Per ulteriori informazioni consulta N. Shaheen, Biblical References in Shakespeare's Plays, p. 18.

[14] La qual cosa pone problemi al riferimento preciso delle fonti perché in diverse edizioni venivano spesso impaginati quaderni differenti e con differenti impostazioni tipografiche.

[15] Viene spesso identificata come la Bibbia dei Puritani, ma non è del tutto esatto. Per una di­samina attenta si consulti N. Shaheen, Biblical References in Shakespeare's Plays, pp. 25-26.

[16] Viene esclusa dalla trattazione la prestigiosa Authorized Version o King James Bible del 1611 che pur rappresentando il punto terminale e più prestigioso della storia delle traduzioni moderne è, per limiti temporali, al di fuori del contesto qui trattato. Per un'ottima introdu­zione vedi D. Danìell, The Bible in English, pp. 427-460.

[17] Conosciuta come Bibbia di Douay-Rheims.

[18] Ricordiamo che vigeva l'obbligo di presenziare alle funzioni domenicali e alle feste. La domenica prevedeva anche la sospensione degli spettacoli teatrali.

[19] Cfr. anche A. Perduca, "The time of universal peace is near”: movimento e stasi in Antony and Cleopatra, in Aa.Vv., To Go or not to Go: catching the moving Shakespeare, Isu-Università Cattolica, Milano 2004, pp. 257-276.

[20] In Antony and Cleopatra, ed. J.Wilders, Routledge, London 1995 p. 61.

[21] Ibidem.

[22] «Vicino è il tempo della pace universale / Se questo giorno sarà propizio / il mondo tripar­tito sarà coronato dall'ulivo» (AC 4.6.5-7).

[23] Puoi ben vedere, Lepido, e d'ora in poi rammentarlo / Che non è vizio naturale di Cesare odiare / il nostro grande socio» (AC 1.4.1-3). Si noti l'ambiguità di competitor che nell'inglese del­l'epoca vale come socio senza peraltro tacere, nell'etimologia, la valenza polemica del contrasto.

[24] «Non posso credere / Che esistano abbastanza mali da oscurare tutte le sue virtù» (AC 1.4.10-11).

[25] «Va a pesca, beve / E consuma le luci della notte in gozzoviglie» (AC 1.4.4-5).

[26] «...ammettiamo che non sia grave / voltolarsi nel letto di Tolomeo, regalare un regno / In cam­bio di un festino, starsene sdraiato / Con una schiava vuotando a turno il bicchiere, / Barcollare per le strade a mezzogiorno e battersi / Con canaglie puzzolenti di sudore» (AC 1.4.16-21).

[27] La gente comune, come giunco vaga / Sulla corrente, va avanti e indietro / Seguendo il variare della marea finché / Marcisce col suo stesso movimento» (AC 1.4.44-47).

[28] La formulazione e diffusione dei principi della filosofia neostoica, attraverso gli scritti di G. Lipsio (1546-1606) e della sua edizione delle opere di Seneca, fornisce un sostrato filosofico e ideologico fondamentale al dibattito al quale abbiamo accennato poc'anzi. La pubblicazione del De Constantia nel 1584, del Politicorum sive civilis doctrinae libri sex nel 1589 e della Manuductionis ad stoicorum philosophíam libri tres nel 1604 quale propedeutica all'edizione delle opere, contribuirono, infatti, da un lato ad una nuova circolazione e considerazione di concetti e valori della morale stoica quali: kathekon, gravitas, firmitas, constantia, decorum in chiave cristiana, dall'altro, alla consapevolezza «que le rois sont les protecteurs naturels de la religion» e che «pour éviter les troubles publics, il ne devrait y avoir qu'une seule religion par Etat» (J. Lagrée, Juste Lipse et la restauration du Stoicisme, Vrin, Paris 1994, p. 18).

[29] F. Buzzi, La filosofia di Seneca nel pensiero cristiano di Giusto Lipsio in «Aevum Anti­quum» 13 (2000), 381.

[30] «Rinuncia alle tue orge lascive» (AC 1.4.57).

[31] «...È tempo che noi due/Si scenda in campo» (AC 1.4.74-75).

[32] Cfr. nota 13.

[33] «Lui ha dato / il suo impero a una puttana, e adesso arruola / Tutti i re dell'universo per farci la guerra» (AC 3.6.67-69).

[34] «Orsù, voglio mostrarti il castigo della grande meretrice, che sta assisa su acque copiose; con essa i re della terra hanno fornicato»

[35] «...e i sommi dei, / Per renderti giustizia, rendono noi i loro sacerdoti» (AC 3.6.89-91).

[36] «Per questo ti ha posto quale re sopra di loro per esercitare il diritto e la giustizia».

[37] «È infatti a servizio di Dio in tuo favore».

[38] «Sono infatti i servitori pubblici di Dio».

[39] «I re sono luogotenenti di Dio che debbono riconoscere a Lui la superiorità e amministra­re la giustizia per tutti».

[40] «I governi sono ministri di Dio istituiti per comminare pene ai malvagi». Cfr. N. Shaheen, Biblical References in Shakespeare's Plays, p. 649.

[41] «A ogni ora apprendo / una lezione di obbedienza» (AC 5.2.30-1).

[42] «Al mio padrone e signore / devo obbedire» (AC 5.2.115-6).

[43] In particolare Concernine Good Order and Obedíence to Rulers and Magistrates e Against Disobedience and Wilfull rebellion, inserita nel Book of Homilies nel 1571 a seguito della repressione della ribellione del nord del novembre 1569.

[44] «Essendo regale ha seguito la sua strada» (AC 5.2.335-6).

[45] «Ordine supremo» (AC 5.2.365).