Introduzione

di Milena Simonotti

  

Non avvenne di notte, ma fu il seguito di una notte e di un sogno.

Le notti di Francesco, tra le pietre e le capanne a San Damiano, non furono le magiche notti di Assisi che ci piacerebbe immaginare: quelle ventose che fanno musicare gli ulivi, quelle limpide che fanno più tonda la luna, quelle tiepide che fanno germogliare i bulbi dei giacinti o quelle nebbiose che coccolano le castagne; furono notti «infestate da topi che saltellavano e correvano intorno e sopra di lui che gli riusciva impossibile prender sonno» (Leggenda perugina, 1591).

Notti passate nella cecità, tanto da dover stare costantemente nell’oscurità, non potendo neppur sopportare il chiarore del fuoco o delle candele; una cecità che lo fece soffrire di atroci dolori; notti in cui il pensiero prende il colore viola della follia, notti che conobbero la disperazione e l’afflizione, la solitudine e la pietà verso se stesso.

E poi, il dialogo con il Suo Signore, la richiesta di misericordia, la Sua mano per poter sopportare, riacquistare pazienza e forza, virtù indispensabili per una accettazione non passiva della sofferenza, per rendere il dolore, mitigato dai colori della Resurrezione, non fine a se stesso.

Fu in quegli attimi che la notte divenne magica, misteriosa, parlante: «Fratello, sii felice ed esultante nelle tue infermità e tribolazioni, d’ora in poi vivi nella serenità, come se tu fossi già nel mio Regno» (Leggenda perugina, 1591). La promessa già fatta al buon ladrone: «Io ti dico in verità che oggi tu sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).

Da tanto bene Francesco si riscosse e volle quindi «a lode di Lui e a sua consolazione e per edificazione del prossimo comporre una nuova Lauda del Signore per le sue creature» (Leggenda perugina, 1591).

 

Così nacque il Cantico: da un sogno, perché «c’è un Dio nei cieli che rivela i misteri» (Dn  2,28). Nacque un poema che porta in sé poesia, lode e santità, un testo ontologico e non romantico, capace di far suo un messaggio trascendente, cosmico e sacro. Una lode abbracciante la Creazione in quanto madre e sorella (volto femminile di Dio), dove il sole, la luna, l’acqua, non sono altro che simboli di un lungo itinerario interiore che Francesco ha scavato, contemplato, impastato di fango e terra, di povertà e silenzio, un cammino che l’ha portato a stare con le creature, non sopra di esse, affratellato, annaturato con loro, una creazione umanizzata, così che l’uomo non ne sia padrone, ma fratello; un’unica famiglia dove la legge primordiale è quella del rispetto e della non violazione: «Pose l’uomo nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15).

L’azione di bontà di Dio sta proprio, agli occhi di Francesco, in questa forza creatrice dove il creato nella sua interezza è luce ed epifania di grazia, perché negare le creature significherebbe negare Dio, così come negare Dio significherebbe negare le creature.

Una democrazia cosmica che ci lascia stupefatti per la bellezza con cui frate Francesco l’ha cantata, con un’innocenza che San Bonaventura definisce mattinale in una spogliazione del/dal mondo, in una scelta individuale di povertà, divenuta poi comunitaria, (la carità pura del santo sta proprio in questa sua decisione), dove si consente che le cose siano quelle che sono, rinunciando ad un desiderio di potere e di assoggettazione, per riacquistarle in maniera totale nella fraternità universale: «Per l’amichevole unione che aveva stabilita con tutte le cose, sembrava fosse tornato al primitivo stato d’innocenza mattinale» (S .Bonaventura).

Nella grandezza dei disegni di Dio, la Creazione occupa un posto privilegiato, è l’habitat dove pone la principale della sue creature, l’uomo. Come si legge in Gn 2, 19, «in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi quello doveva essere il suo nome». Ciò non significa esercitare un dominio, essere il padrone di ciò che in realtà è stato donato, ma innamorarsi di un dono e benedire, ad ogni alba che sorge, la possibilità di essere insieme al mistero della terra proiettati al mistero del cielo.

«E finalmente chiamava tutte le creature col nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro, perché aveva conquistato la libertà della gloria riservata ai figli di Dio. Ed ora in cielo ti loda con gli angeli, o Signore, colui che sulla terra ti predicava degno di infinito amore a tutte le creature» (1 Cel. 46).

Il Cantico non è altro che una lode benedicente: «per trarre da ogni cosa incitamento ad amar Dio, esultava per tutte quante le opere delle mani del Signore e da quello spettacolo di gioia, risaliva alla Causa e Ragione che tutto fa vivere» (Leggenda Maggiore IX, 1; 1161).

 

Per leggere nella sua interezza e profondità il Cantico, a mio parere, credo vada analizzata proprio la scelta di “signora donna Povertà” – per usare il linguaggio cortese della cavalleria in uso al tempo di Francesco –, colei che gli fece ridurre il possesso al minimo: lo stretto necessario per gli arredi sacri, il breviario, pochi arnesi per il lavoro, una tonaca. L’interpretazione di questa scelta aiuta a comprendere lo stato di completa libertà che il santo conobbe e sperimentò: lontano dalla cupidigia dell’avere, che è ostacolo alla tenerezza e alla convivialità, divenne un uomo riconciliato con Dio e il Creato, dove il ripudio del possesso non significa rinuncia o allontanamento dal mondo, ma una conquista maggiore e libera di ciò che giornalmente i nostri sensi possono sperimentare.

La povertà radicale vissuta in completata solidarietà con i poveri e da povero (il povero, come scrive Leonardo Boff, è visto come manifestazione della divinità) attiva in Francesco un processo di liberazione tale da renderlo completamente emancipato, ricco – proprio perché povero – di un amore gratuito in grado di compromettersi e di fargli vivere una libertà che non stringe, che non vincola, che non soffoca, ma che, anzi, gli permette di affratellarsi senza potere e pregiudizi con tutti gli esseri viventi. (Anche se nel poema, gli animali non vengono nominati, sono comunque per lui sorelle e fratelli: basti dare uno sguardo ai Fioretti [1852-1853], alla Leggenda Perugina [1640-1669], Celano, Vita prima [424] ecc., per rendersi conto della passione che nutriva per loro).

In questo stato di uomo-povero-libero c’è un Francesco divenuto frater minor, uomo nudo, che alla domanda di frate Masseo: «Perché a te tutto il mondo viene dirieto?” risponde:”Dio non ha trovato più vile creatura sopra la terra, e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo» (I Fioretti, 1838).  

 

Francesco “uomo biblico”, inteso come uomo che risponde alla chiamata «Va, e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina» (2 Cel. 593) (avvenuta dopo tre anni di stretta convivenza con i lebbrosi e i poveri), che riuscì a stare in comunione con l’universo intuendo e sperimentando la giusta distanza da porre tra Dio e l’uomo: Altissimo omnipotente bon Signore, tue son le laude, la gloria et omne benedictione, tanto che l’uomo non è neppur degno di nominarlo. Proprio lo stabilire questa distanza permette a Francesco, quindi poi ad ognuno di noi, di prostrarsi davanti a Dio in una lode perenne con tutto ciò che ha creato – cum tucte le sue creature –, lo stesso parametro di lode che troviamo nel Cantico di ringraziamento dei fanciulli nella fornace (Dn 3, 52), dove lodate e benedite si rincorrono per tutta la preghiera con ritmo poetico e profondamente esaltante ad una unica, sola voce che poi è quella dell’umanità intera. Millenni di storia e preghiera intercorrono tra i due canti e sembra che in realtà solo un soffio di vita sia tra essi; il cuore dell’uomo si abbandona a Dio immutabile nel tempo.

Il canto che avviene quindi con le creature, non per mezzo di loro, dove Francesco non canta di esse, ma con esse, rompe lo schema rigido della gerarchia feudale; tutto è assunto nella qualità di fratelli e sorelle nella lingua che lui stesso ha appreso fin da piccolo aggrappato alle ginocchia di Madonna Pica nelle lunghe fresche sere umbre, lo stesso linguaggio usato nelle scanzonate serenate con gli amici tra i vicoli di Assisi, nei suoi smarrimenti iniziali, nelle sue predicazioni poi, abbandonando il latino per il quale aveva sempre bisogno dell’aiuto di un traduttore e di un amanuense.

In completa libertà d’espressione collocò il Cantico nella storia, la sua storia.

 

Lo sguardo dei santi non si ferma alla nuvola: vede l’infinito, non si blocca davanti alla maestosità dell’onda: spazia sull’oceano, coglie l’alba per poter vederne il giorno, gode della luna per conoscere l’universo.

I santi contemplano sì la neve, risorsa preziosa per il grano che in terra matura, ma scorgono i germogli del bucaneve e il primo roseo fiore del pesco. Il loro sguardo è fisso nel-sul presente ma scagliato nel futuro, che è attesa, speranza, eternità.

Decifrare, codificare la santità, cercare di catalogarla credo sia impresa rischiosa e azzardata, umanamente impossibile, soprattutto non è ciò che ci proponiamo di fare attraverso questo lavoro.

Dinanzi a Francesco ci fermiamo in ascolto del suo Cantico: da qui possiamo calarci nella profondità del mistero, sognare le distese argentee degli ulivi che facevano corona a San Damiano, vedere il Santo che prega Frate fuoco di non fargli male, sentire la dolce voce di Chiara e vederne le preziose cure, camminare tra le pietre del convento; possiamo tra le parole scaturite dal suo cuore, sognare.

La poesia del Cantico è altissima proprio perché non è solo poesia, le parole tratte dall’uso comune della lingua sembra che scaturiscano la luoghi affascinanti, in realtà i luoghi non sono altro che la visibilità della quotidianità., Francesco fibra dell’universo  canta la nudità degli esseri viventi in rapporto al Suo creatore. Ma non possiamo dimenticare che il Cantico delle creature, (chiamato anche Cantico di frate sole o Laudes Creaturarum) non è solo sogno, è frutto e compimento di una vita scomoda, faticosa, povera, umile, libera, ricca di una perfetta imitazione del Cristo incarnato.

 

Da queste righe ringraziamo chi ha voluto mettere a disposizione la propria sensibilità e passione, la propria ricerca e conoscenza, il proprio amore e la propria vocazione francescana, in questi incontri ottobrini dedicati a un Santo che è significazione dell’Altissimo.

Gli interventi che seguiranno non sono altro che un cammino biblico, letterario e spirituale che ci porterà in viaggio, un viaggio che ha il sapore sconfinato di un artista segreto: Dio.

 

Tu sei un liuto, Francesco,

ma è Dio che suona il liuto;

tu sei un flauto, Francesco,

ma il soffio è del tuo Signore;

tu sei un monte sopra la valle, Francesco,

ma l’Eco, l’Eco

è la voce sua

e del suo silenzio.

 

D.M. Turoldo.

 
 
 
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