INTRODUZIONE

 

…finchè il Sole

Risplenderà su le sciagure umane,

 

il canto delle Muse

 

eternerà per quante

Abbraccia terre il gran padre Oceano

 

i “forti” che hanno vissuto e sofferto, mortali tra mortali, per tessere la storia patria; la poesia

 

vince di mille secoli il silenzio (Dei sepolcri),

 

la poesia trionfa sul duro “sonno della morte”.

La forza ammaliatrice di questi versi rende difficile non condividere la professione di fede del Foscolo nella potenza della parola poetica. Ma questa parola, che pur trascende l’individualità del singolo, resta imprigionata in quel «finchè», che smaschera il velleitario antropocentrismo sotteso al verbo al futuro, «eternerà», che s’impone al centro del verso.

 

Un  altro poeta, ebreo, non meno ispirato del poeta di Zacinto, molti secoli addietro cantava:

I cieli narrano la gloria di Dio,

e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.

Il giorno al giorno ne affida il messaggio

e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Non è linguaggio e non sono parole

di cui non si oda il suono.

Per tutta la terra si diffonde la loro voce

e ai confini del mondo la loro parola.

(…)

Ti siano gradite le parole della mia bocca,

davanti a te i pensieri del mio cuore.

Signore, mia rupe e mio redentore (Salmo 19, 2-5.15).

 

E a lui farà eco un pescatore della Galilea:

 

Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna (Gv  6, 68).

 

Di nuovo, il fascino della parola poetica, che non nasce però dalla riflessione filosofica sulla storia e neppure da una visione poetica del cosmo, ma dalla contemplazione religiosa dell’universo, dall’esperienza spirituale di un popolo, che incontra Dio nella propria storia.

Mi si permetta, a questo punto, nonostante la norma de «li retorici», secondo i quali parlare «di se medesimo pare non licito» (Convivio I, II, 2), una digressione autobiografica che dia la motivazione della ricerca che segue.

Per anni, ho insegnato letteratura italiana, ho presentato pagine di poesia che generano emozioni nuove ad ogni lettura. Per anni, ho letto, ho ascoltato pagine bibliche che interpellano il “cuore” in modo sempre nuovo. Per anni, un rovello mi ha accompagnato: la finzione poetica, che si conosce a scuola, sa incontrare la vita, parlare il linguaggio della verità, rivelare il senso profondo dell’esistere? O non rischia piuttosto di apparire tesa alla narcistica osservanza di regole proprie, all’ossequiente fedeltà ai canoni letterari?

Una domenica, durante la Messa, alla lettura della Prima Lettera ai Corinzi, un lampo interiore mi disse: il paolino «Considerate infatti la vostra vocazione, fratelli» ha generato il dantesco «Considerate la vostra semenza» del canto XXVI dell’Inferno.

Dante è il mio poeta, la poesia della Commedia è quella che mi è destinata!

Non posso non ripetere con Guardini: «Gli incontri e gli eventi della vita ci devono dare indicazioni sull’opera per la cui conquista siamo fatti, finchè verrà il momento in cui ci si rivelerà»[1].

Ora, finalmente, scopro perchè, fin dal mio primo soggiorno, sono stata ammaliata dalla luce dell’Engadina, da quella luce che Segantini ricrea con ammirabile maestria in tanti suoi quadri: quella chiara luce mi preparava alla «luce intellettual piena d’amore», che inconsciamente andavo cercando.

In Dante, i canoni letterari «non servono a una bella invenzione, ma alla vera realtà»[2].

Per il poeta medievale, cresciuto alla scuola dell’ordine universale, «è la verità della dottrina razionale che genera l’immagine sensibile e le dà vigore»[3] , ma la poesia «supera la filosofia dottrinale, che non può abbandonare e oltrepassare la ragione; essa sola è all’altezza della rivelazione e può esprimerla; ed essa esce dall’ambito della bella apparenza; (.....) la verità rivelata e la sua forma poetica sono una cosa sola».[4]

Se Tommaso nella Summa Theologiae costruisce un perfetto sistema, che comincia da Dio, esistente e immobile, per trattare poi delle creature, Dante, capovolgendo l’ordine della Summa, parte dall’uomo smarrito, in soccorso del quale è mandato non Aristotele, «lo Filosofo», ma Virgilio, «de li altri poeti onore e lume». A lui il viator, ostacolato dalla «bestia sanza pace», grida «aiutami da lei, famoso saggio»: Virgilio, non altri, conduce Dante alla verità rivelata e quindi a Dio.

Dante è «il poeta che porta nell’eterno l’uomo, il mondo, la storia, l’esistenza tutta, ma senza che la forma finita venga dissolta»[5].

La Commedia «mostra la verità divina quale sorte umana, l’esistente nella coscienza dell’uomo che erra»[6].

La singolarità del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» è, del resto, suggerita dall’autore stesso, che, a scanso d’equivoci, nell’Epistola a Cangrande, ce ne offre la chiave di lettura:

 

Ad evidentiam itaque dicendorum, sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, immo dici potest polysemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per literam, alius est qui habetur per significata per literam. Et primus dicitur literalis, secundus vero allegoricus, sive moralis, sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in his versibus: «In exitu Israel de Aegypto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudaea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad literam solam inspiciemus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Aegypto, tempore Moysi; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio animae de luctu et miseria peccati ad statum gratiae; si ad anagogicum, significatur exitus animae sanctae ab huius corruptionis servitute ad aeternae gloriae libertatem. Et quamquam isti sensus mystici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, quum sint a literali sive historiali diversi. (Ep. XIII, 7)

 

Per chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di quest'opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perchè risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: "Durante l'esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio". Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benchè questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perchè sono traslati dal senso letterale o narrativo.

 

Per illustrare la polisemia della propria opera, Dante non solo cita il Salmo 113, ma lo interpreta secondo l’ordine «adèquat au mystère chrètien», facendo propria la dottrina teologica ed esegetica corrente, lapidariamente sintetizzata nel distico attribuito ad Agostino di Dacia:

Litttera gesta docet quid credas allegoria

moralis quid agas quo tendas anagogia.

 

Lo specificum dell’allegoria biblica, «on ne la trouvera pas à proprement parler dans le texte, mais dans les rèalitès dont le texte parle; non pas dans l’histoire en tant que rècit, mais dans l’histoire en tant qu’èvènement; ou, si l’on veut, l’allègorie est bien dans le rècit en tant qu’il relate un èvènement  rèel».[7]

È l’allegoria in factis di Agostino, la quale «è ben altro che un puro sistema ermeneutico per la lettura dei  testi sacri: essa coincide piuttosto con la totalità di senso che l’occhio provvidente e onniveggente di Dio (...) coglie nell’intero arco della storia della salvezza».[8]

È l’«allegoria dei teologi», menzionata ma non praticata nel Convivio, dove ancora il favore va all’«allegoria dei poeti», è l’allegoria definita da Tommaso:

 

Auctor Sacrae Scripturae est Deus, in cuis potestate est ut non solum voces ad significandum accomodet, quodetiam homo facere potest, sed etiam res ipsas. Et ideo cum in omnibus scientiis voces significent, hoc habet proprium ista scientia, quod ipsae res significatae per voces, etiam significant aliquid. Illa ergo prima significatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensus historicus vel litteralis. Illa vero significatio qua res significatae per voces, iterum res alias significant, dicitur sensus spiritualis, qui super litteralem fundatur et eum supponit (Summa Theologiae, I q 1,a 10 . Resp).

 

L'autore della sacra Scrittura è Dio. Ora, Dio può non solo adattare parole per esprimere una verità, ciò che può anche l'uomo; ma anche le cose stesse. Quindi, se nelle altre scienze le parole hanno un significato, la sacra Scrittura ha questo in proprio: che le cose stesse indicate dalla parola, alla loro volta ne significano un'altra. L'accezione ovvia dei termini, secondo cui le parole indicano la realtà, corrisponde al primo senso che è il senso storico o letterale. Usare invece le cose stesse espresse dalle parole per significare altre cose si chiama senso spirituale, il quale è fondato sopra quello letterale e lo presuppone.

 

Nell’Epistola, Dante mostra chiaramente di voler «assimiler son ouvre, autant qu’il est possible, quant’à l’intention simbolique, à la Bible elle-meme».[9]

Dante in questo non è blasfemo, ma in linea con i poeti medievali, dai quali «la parola di Dio veniva spesso invocata per ornare e per sostenere la parola dell’uomo, e altrettanto spesso invocata da uomini di parole per criticare gli uomini di Dio che abusavano la parola di Dio».[10]

Non solo, ma, come ben documenta Fornasari, al tempo della riforma gregoriana del sec. XI l’esegesi biblica diventa esegesi militante, «spesso finalizzata ad esiti di politica ecclesiastica o, talvolta, di politica tout court»[11], esegesi che fonda l’esortazione ai laici ad intervenire per correggere le storture di una gerarchia venuta meno ai suoi compiti istituzionali. Ne sono esempi sintomatici:

    Umberto di Silvacandida, che nell’Adversus Simoniacos utilizza l’oportune importune di 2 Tim 4,2 per giustificare l’appello ai laici;

    Andrea di Strumi, che nella Vita Sancti Arialdi fonda la denuncia di corruzione della gerarchia ecclesiastica sui canes muti non valentes latrare di Is 56,10;

    per non parlare dell’opera di quel Pier Damiani, che nel XXI canto del Paradiso opporrà Cephas e il vas electionis «magri e scalzi» a «li moderni pastori» corpulenti e superbi.

Nel servirsi della Bibbia, Dante non fa quindi niente di straordinario: forse è soltanto il più audace degli autori medievali, in quanto non si limita a seguire la Bibbia, ma scrive quello che Dio gli detta, come se la Commedia fosse il Terzo Testamento: «Entra nel petto mio, e spira tue» (Pa  I, 19).

Non si dimentichi, inoltre, l’altissima considerazione che il Medioevo riserva al genere letterario delle visiones tanto da considerare i termini visio e revelatio come equivalenti. La letteratura visionaria tende ad avere con la rivelazione attestata nella Bibbia un rapporto dinamico e complementare: «Poichè le informazioni contenute nelle visiones venivano intese come provenienti direttamente da Dio, non c’è da meravigliarsi che venissero considerate da molti alla stessa stregua delle  Scritture».[12]

E a Dante, il beato Cacciaguida, venuto dal «martiro» per la fede nel «mondo fallace» alla «pace» del cielo di Marte, ordina con indiscutibile fermezza:

 

                          Coscienza fusca

o della propria o dell’altrui vergogna

pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov ‘è la rogna (Pa XVII, 124-125),

 

evidente eco delle parole di conforto avute da Paolo per visionem: «Noli timere, sed loquere et ne taceas; propter quod ego sum tecum» (Atti 18, 9-10).[13]

Le parole del trisavolo suonano autorevole conferma della missione profetica già affidata da Beatrice al poeta-pellegrino sulla cima della montagna del Purgatorio:

 

Però, in pro del mondo che mal vive

(…)                      quel che vedi,

ritornato di là, fa che tu scrive (Purg XXXII, 103-105).

 

La tesi che mi propongo quindi di dimostrare è che la poesia di Dante nella Commedia è un esempio supremo di “imitazione” della Sacra Scrittura.

Nella piena consapevolezza che «nei confronti della Commedia [e, a fortiori, della Bibbia], noi restiamo nella posizione di minorenni, senza riuscire mai a portarsi alla sua altezza»[14], limiterò la mia indagine ad alcuni debiti di Dante nei confronti di Isaia e di Paolo, cercando di evidenziare non solo e non tanto la presenza di puntuali citazioni bibliche nel testo dantesco, quanto la sua qualità di collatio occulta, secondo il concetto di Goffredo di Vinsauf, per il quale tale collatio è un’insita mirifice transumptio «dove qualcosa prende il suo stato nella trama come se fosse nata dal tema stesso - eppure è stata presa d’altrove, ma sembra essere di là (....) così oscilla dentro e fuori, lontana e vicina, remota e presente».[15]

Dante innova à partir du connu  per giungere, attraverso il recupero di loci communes consolidati, ad esiti non sempre rilevabili a livello di esegesi, ma non per questo meno affascinanti e convincenti[16] .

E proprio la loro natura di imitatio (ed aemulatio) della grande tradizione biblica mi sollecita a un tentativo d’ermeneutica che, lungi dal proporsi con l’autorevolezza dello studioso, vuole liberamente rispondere all’indeclinabile invito del «poeta cristiano, che non identifica il concreto con il puramente empirico, ma lo vincola all’Assoluto-Eterno; e, d’altro canto, non risolve l’esistenza nell’ideale, ma la conserva nella storia».[17]


 

[1] R. GUARDINI, Studi su Dante, 367

[2] E. AUERBACH, Studi su Dante, 139

[3] Ivi, 141

[4] Ivi, 90-91

[5] R. GUARDINI, op. cit., 371

[6] E. AUERBACH, op. cit., 85

[7] H. de LUBAC, Exègèse mèdièval. Les quatre sens de l’Ecriture, Paris 1959-1964, I partie 493

[8] C. PAOLAZZI, Dante e la “Commedia” nel Trecento, 47

[9] H. de LUBAC, op. cit. 323

[10] J. FERRANTE, Usi e abusi della Bibbia nella letteratura medievale, in G. BARBLAN (ed.), Dante e la Bibbia, 225

[11] G. FORNASARI, L’esegesi gregoriana, in G. CREMASCOLI – C. LEONARDI (edd.), La Bibbia nel Medio Evo, 210

[12] G.P. MAGGIONI, La Bibbia nella letteratura visionaria, in G. CREMASCOLI-C.LEONARDI (edd.) op. cit. 378

[13] Le citazioni scritturistiche, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, sono tratte dalla Vulgata, testo nel quale Dante, che non conosceva il greco, nè, tanto meno, l’ebraico, leggeva la Bibbia. (cfr. F. MAZZONI, Un incontro di Dante con l’esegesi biblica, in G. BARBLAN (ed.), op. cit. 81).

[14] C. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, 216

[15] P. DRONKE, L’Apocalisse negli ultimi canti del Purgatorio, in G. BARBLAN, op. cit., 81.

[16] Cfr F. MAZZONI, op. cit. 190 ss.

[17] R. GUARDINI, op. cit. 370

 

 
 
Indice  

1. La ricerca in Convivio e Monarchia >>>>