1. LA  “RICERCA”  IN CONVIVIO E MONARCHIA

 

«Una vita come ricerca» fu quella di Dante: così scrive O. Capitani nella Premessa alla ristampa dei saggi Dal Convivio alla Commedia di B. Nardi, il cui merito «è stato proprio quello  di aver condotto alle estreme conseguenze questo postulato, (...) di averne sottolineato la genuinità e l’originalità».[1]

Le opere dantesche testimoniano un continuum  nella diversità, «un tutto vitale, con potenzialità attuatesi prevalentemente in una, ma senza che questa attuazione volesse dire impossibilità per altri fermenti germinali di accennarsi, anche con anticipo rispetto al momento della piena realizzazione»[2].

In quest’ottica, è possibile conciliare le caratteristiche proprie di Convivio, Monarchia, Commedia con i «ritorni su se stesso dell’autore: ritorni, non necessariamente contraddizioni»[3]; riconoscere nel Convivio un travaglio filosofico, un carattere problematico e sperimentale tali da indurre l’autore a interromperne la stesura; dimenticare i pur preziosi studi sulla precisa collocazione cronologica della Monarchia; limitare l’indagine alla Commedia, privilegiando come via d’accesso quella degli echi biblici.

Studiosi, quali Nardi, Petrocchi, Vasoli, hanno autorevolmente sottolineato il valore delle presenze bibliche nel corpus dantesco, studiandone la frequenza, ma soprattutto la disposizione in contesti di particolare valore dottrinale, a testimonianza dell’effettiva conoscenza dei testi sacri da parte dell’Alighieri.

Concludendo il Trattato secondo del Convivio, opera che si apre con l’autorità de «lo Filosofo», per il quale «la scienza è l’ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitate» (I, I, 1), Dante afferma di essersi innamorato de «la bellissima e onestissima figlia de lo Imperatore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia» (II, XV, 12).

Continuando la riflessione, termina il Trattato terzo con la citazione:

 

si dice nel libro di Sapienza: “chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice”: che è privazione de l’essere felice. Per l’abito de la sapienza seguita che s’acquista e[ssere] felice - [che] è essere contento - secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come ne l’aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: “Essa è candore de la etterna luce e specchio sanza macula de la maestà di Dio” (III, XV, 5).

 

È, ormai, evidente il punto nodale del Convivio: l’identificazione della Filosofia, «non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima (...) de lo Imperatore del cielo» (III, XII, 14), con la Sapienza, di cui Salomone tesse le lodi nel libro dei Proverbi, che Dante cita volgarizzando Pr 8, 27-30 (III, XV, 16).

È, però, nel Trattato quarto che le citazioni diventano particolarmente frequenti: dall’Ecclesiaste di IV, II, 8 a Isaia di IV, V, 6 e IV, XXI, 11-12 a Proverbi di IV, XXIV, 16.

Ma è soprattutto ai testi paolini che Dante affida il compito di legittimare il giusto desiderio della conoscenza e l’incomparabile superiorità della «perfezione» che viene dalla scienza rispetto a quella che viene da «le maladette ricchezze»: «Paulo dice: “Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura”» (IV, XIII,9), e più avanti: «io voglio dire come l’Apostolo: “O  altezza de le divizie de la sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudici e investigabili le tue vie!” (IV, XXI, 6).

Ancora: 1Cor 9,24 in IV, XXII, 6; Col 3,20 in IV, XXIV, 17; Rm 2, 28 in IV, XXVIII, 10.

La qualità delle presenze bibliche e la loro collocazione accanto, e non certo in subordine, a testi di Aristotile, Tullio, Boezio, Alberto non possono non essere lette come spia di un mutamento in fieri nell’autore, ormai mosso da preoccupazioni spirituali e, insieme, etico-politiche, dalle quali nascerà la Monarchia, manifesto di una concezione provvidenziale della storia e del destino umano, documento della profonda vocazione religiosa, meglio, profetica del suo autore.

Tema di fondo dell’opera è la teoria del doppio fine dell’uomo, terreno e celeste, teoria che Dante formula «in maniera assai univoca», mentre Tommmaso, scrive H. von Balthasar, «aveva lasciato in consapevole sospensione»[4].

 

Duos igitur fines providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vite, que in operatione  proprie virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vite ecterne, que consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine  divino adiuta, que per paradisum celestem intelligi datur. Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam per philosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando; ad secundam vero per documenta spiritualia que humanam rationem trascendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fidem spem scilicet et karitatem.Has igitur conclusiones et media, licet ostensa sint nobis hec ab humana ratione que per philosophos tota nobis innotuit, hec a Spiritu Sancto qui per prophetas et agiographos, qui per eius discipulos supernaturalem veritatem ac nobis necessariam revelavit, humana cupiditas postergaret nisi homines, tamquam equi, sua bestialitate vagantes “in camo et freno” compescerentur in via. Propter quod opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scilicet summo Pontefice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam, et Imperatore, qui secundum philosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret. Et cum ad hunc portum vel nulli vel pauci, et hii cum difficultate nimia, pervenire possint, nisi sedatis fluctibus blande cupididatis genus humanum liberum in pacis tranquillitate quiescat, hoc est illud signum ad quod maxime debet intendere curator orbis, qui dicitur romanus Princeps, ut scilicet in areola ista mortalium libere cum pace vivatur (Monarchia  III, XV, 7-11).

 

Da questa lunga citazione, che mal sopporta balbettanti parafrasi, emerge con chiarezza il pensiero dell’autore:

    la filosofia, forma particolare della Sapienza, con i suoi «documenta» porta alla «beatitudo huius vite»;

    la rivelazione con i «documenta spiritualia» porta alla «beatitudo vite ecterne»;

    conditio sine qua non per perseguire entrambe le beatitudines è la realizzazione della pacis tranquillitas ad opera dell’Imperatore, il cui ufficio assume un originale valore sacrale: «In tal modo si forma, a partire da questo altissimo e chiarissimo punto di vista, tutta l’etica imperiale come un’etica del servizio libero e disinteressato»[5].

 

Affinchè tale ordine terrestre si attui, l’altro luminare, la Chiesa, non può dimenticare che l’unico fondamento su cui essa poggia è Gesù Cristo:

 

unde Apostolus ad Corinthios: ‘Fundamentum aliud nemo potest ponere preter id quod positum est, quod est Cristus Iesus’ (III, X, 7).

 

L’affermazione di Paolo, rafforzata da Ct 8,5, si arricchisce poi con Mt 10,9-10, Lc 22,35-36 (III, X, 14 ) e con ben quattro passi di Gv (III, XIV, 3-6) tutti orientati a mostrare che

 

Ecclesia omnino indisposita erat ad temporalia recipienda per preceptum prohibitivum expressum (III, X, 14).

 

Ma è il Paolo di Atti 25,10; 27,24; 28,19 chiamato a legittimare il rigoroso sillogismo che dimostra l’indipendenza dell’auctoritas imperiale da quella della Chiesa (III, XII, 3-6).

Del resto, già nel Libro primo Dante mostra particolare attenzione agli scritti paolini, ricordando la fedeltà dell’Apostolo al saluto di pace del Salvatore (I, IV, 4), «ut omnibus  manifestum esse potest», in Gal 1,3 e Ef 1,2; rinvenendo la «plenitudinem temporis» di Gal 4,4 nella «pacis universalis tranquillitate» del regno di Augusto, durante il quale l’«humanum genus [fuit] felix» (I, XVI, 2).

La Monarchia ci fa conoscere sì un “filosofo”, ma anche «un “fidelis”, che vive con estrema tensione un’altissima esperienza spirituale nutrita proprio dai testi biblici ed evangelici e, in particolare, dall’ispirazione di alcune pagine dei libri “sapienziali”, del vangelo giovanneo e delle epistole paoline»[6].


 

[1] B. NARDI, Dal “Convivio” alla “Commedia”, XIII-XIV

[2] Ivi, XV

[3] Ivi, XV

[4] H. von BALTHASAR, Gloria III, Stili laicali, 11

[5] Ivi, 12

[6] C. VASOLI, La Bibbia nel Convivio e nella Monarchia, in G. BARBLAN, op. cit. 38.

 

Indice  

2. La "vocatio" in Paolo e Dante >>>>