2. LA  “VOCATIO”  IN PAOLO E IN DANTE

 

L’epistolario di Paolo «fu dunque aperto sullo scrittoio  del poeta in ogni età»[1].

La «gentilissima» della Vita Nuova «benignamente d’umiltà vestita» è già un’eco dell’«Induite... benignitatem, humilitatem» di Col 3,12, eco destinata a diventare presenza costante e “inquietante”, anche se, a volte, solo sotterranea, nell’itinerario spirituale e artistico dell’Alighieri.

La parola tutt’altro che consolatoria dell’Apostolo, la parola che ferisce per salvare, la parola «efficax et penetrabilior omni gladio ancipiti» di Eb 4,12 (che richiama «os meum quasi gladium acutum» di Is 49,2) prende la forma, dietro il carro della Chiesa nella processione simbolica del Paradiso terrestre, di «una spada lucida e aguta»: la parola paolina ha «la lucentezza dell’eloquio e l’acutezza del ragionamento, è idonea a colpire gli avversari ma anche a difendere il regno di Cristo»[2].

La dottrina di Paolo nutre il pensiero di Dante: un popolo unico, la visione provvidenziale della storia, l’azione dello Spirito che parla per mezzo dei profeti di ogni tempo, l’universalità del peccato, la redenzione nella pienezza dei tempi sono tutti elementi che fondano la concezione profetica della Commedia.

Il triplice esame cui “il baccellier” è sottoposto in Paradiso è sì in stretto rapporto con i tre “baroni” interroganti, le tre “columnae”di Gal 2,9, «ma la saldatura delle risposte in quanto propriamente legate al programma salvifico dell’agens è offerta dalla reminiscenza paolina della tre virtù e dall’opera incessante del battesimo come rigenerazione dell’intera umanità, come palingenesi della parola di Dante comunicata per volontà superiore agli altri uomini in un combattimento col male che è ricordo anch’esso paolino della vita come lotta»[3]. Il poeta-teologo confessa sì la propria  fede a Pietro, «l’alto primipilo», che è, però, subito associato a Paolo, il

                                      caro frate (cfr 2 Pt 3,15)

che mise teco Roma nel buon filo (Pa  XXIV, 62-63)

 

(secondo la tradizione attestata da Ireneo, Roma fu evangelizzata da Pietro e Paolo), a quel Paolo, il cui «verace stilo» fornisce all’esaminando la risposta:

 

fede è sustanza di cose sperate

e argomento de le non parventi (Pa  XXIV, 64-65;  cfr  Eb  11,1)

 

e all’esaminatore l’argomento per procedere nella disputatio:

 

                         Questa cara gioia      

sopra la quale ogne virtù si fonda,

                               onde ti venne? (Pa  XXIV, 89-91; cfr. Rm; Gal; Eb).

 

Una sorta di deposito di memoria paolina attraversa i canti  XXIV, XXV, XXVI del Paradiso, canti dottrinali, teologici eppure non privi di sofferti accenti personali.

Il canto XXV, dedicato alla speranza,

 

uno attender certo

de la gloria futura, il qual produce

grazia divina (Pa  XXV, 67-69),

 

si apre con uno struggente ricordo del

 

fonte // de lo [suo] battesmo (Pa  XXV, 8-9),

 

grazie al quale entrò

ne la fede, che fa conte

l’anime a Dio (Pa  XXV, 10-11),

 

e si chiude con una significativa analogia: per aver «adocchiato» «l’ultimo foco», l’apostolo Giovanni che lo esaminerà sulla carità, il Poeta «non vedente diventa» tanto che, pur essendogli Beatrice molto vicina, non la può vedere.

Che questa sia la Damasco di Dante è confermato dal canto successivo, dove Giovanni gli rivela che

la vista [è] smarrita e non defunta

e che

la donna che per questa dia

region [lo] conduce, ha ne lo sguardo

la virtù ch’ebbe la man d’Anania  (Pa  XXVI, 9-12).                    

 

Alla luce di questi versi, possiamo, dobbiamo rileggere la discesa agli inferi e il raptus ai cieli, che costituiscono la struttura del “sacrato poema”.

La perentoria affermazione che apre l’esperienza del poeta-pellegrino («Io non Enea, io non Paolo sono», Inf  II, 32) suona allora non tanto confessione di modestia intellettuale e spirituale quanto chiave offerta al lettore perchè prenda coscienza che l’incipiente avventura impegna a più livelli tutti coloro che, in modi diversi, la vivranno.

L’andata di Enea «ad immortale secolo» e quella di Paolo «al terzo cielo», mentre rimandano alle fonti della Commedia, il poema pagano quale riferimento letterario e il testo scritturale, cui si deve obbedienza, suggeriscono i due fini cui l’umanità è ordinata ab aeterno.

Libro VI dell’Eneide e 2Cor 12,1-6 si implicano, ma non si confondono in questa ripresa del capitolo finale della Monarchia, che sta per diventare esperienza reale di un uomo, chiamato, in un preciso momento della storia dell’umanità e della sua stessa vita, alla missione di “viator escatologico”.

Il suo viaggio sarà ripetizione, anzi superamento delle uniche due precedenti esperienze concesse dall’«etterno Valore», tanto che, alla reiterata incertezza paolina («sive in corpore  sive extra corpus nescio, Deus scit», 2Cor 12, 3), Dante contrappone la propria monolitica certezza, fondata su Dio che lo «ha in sua grazia rinchiuso»:

 

Nel ciel che più de la sua luce prende

fu’ io (Pa I, 4-5). 

 

L’“io” di Paradiso I,4-5 illumina e definisce il doppio “io” di Inferno II, 32.

È però innegabile che il raptus

 

in pro del mondo che mal vive (Pur XXXII, 103)

 

rimandi soprattutto a quello del “Vas d’elezione”, che «raptus est in paradisum» (2 Cor 12,4)

per recarne conforto a quella fede

ch’è principio a la via di salvazione (Inf  II, 29-30).

 

Analoga è la situazione di partenza dei due “rapiti”: la conversione, nell’accezione medievale del termine.

“Conversio” è movimento della volontà con il quale la creatura ragionevole si volge verso Dio, movimento reso possibile da un «divinum auxilium», «auxilium gratuitum», che Dio nella sua sovrana libertà concede a qualcuno «subito», come a Paolo, fulminato sulla via di Damasco (esplicitamente citato in Summa Theologiae, Ia-IIae q 112 a 2), ad altri «paulatim», come a Dante, pellegrino attraverso Inferno e Purgatorio.

«Subito vel paulatim» non può esserci “conversio” senza “vocativo”.

Tommaso, commentando Rm 8, 30, scrive: «Et  haec vocatio necessaria est, quia cor nostrum non se ad Deum converteret nisi ipse Deus nos ad se traheret» (Super Epistolas S. Pauli, 707); e ancora: «Vocatio refertur ad auxilium Dei interius moventis et excitantis mentem ad deserendum peccatum» (Summa Theologiae, Ia-IIae  q 113  a 1  ad 3).

 

Paolo presenta la propria esperienza spirituale con categorie bibliche:

Galati 1,15 («qui me segregavit ex utero matris meae, et vocavit per gratiam suam») è una rilettura di Is 49,1: «Dominus ab utero vocavit me, De ventre matris meae recordatus est nominis mei;

1Cor 1, 1-2 (come Rm 1,1ss): «Paulus vocatus Apostolus Iesu Christi per voluntatem Dei (....) sanctificatis  in Christo Iesu, vocatis sanctis» dice che punto di partenza è la benevolenza di Dio;

1Tim 1, 13 ss: «misericordiam Dei consecutus sum, (...) superabundavit autem gratia Domini nostri» apre il cuore del peccatore.

 

Dante è già “vocatus” quando nel I canto dell’Inferno guarda in alto e vede i

 

raggi del pianeta

che mena dritto altrui per ogni calle (Inf  I, 17-18).  

 

Non si spiegherebbe altrimenti come possa risuonare «nel gran diserto» quel grido di angosciata speranza (Miserere di me, Inf  I, 65) che costituisce le prime parole in assoluto pronunciate dall’agens, che sta per essere «ripinto» dalla lupa «là dove ‘l sol tace».     

La rivelazione di Virgilio che

 

tre donne benedette

curan di [lui] ne la corte del cielo  (Inf  II, 124-125)

 

conferma Rm 8, 30, al cui proposito Agostino dice «quos predestinavit, vocat in poenitentiam» (In Ps. CXLVII Enarratio).


 

[1] G. PETROCCHI, San Paolo in Dante, in G. BARBLAN, op. cit. 235

[2] Ivi, 244

[3] Ivi, 236

 
Indice  

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