3. L'EREDITA' DI AGOSTINO

 

Che Dante conosca Agostino è fuor di dubbio. Secondo Freccero, il poeta fiorentino è nel Medioevo il più grande erede letterario dell’opera autobiografica dell’autore africano.

Confessiones e Commedia sono opere letterarie e, insieme, documenti di una crisi spirituale che si risolve nella conversione. «Praticamente alla stessa età, entrambi gli autori si allontanarono dall’orgoglio letterario e filosofico della loro gioventù per cercare una felicità soprannaturale. L’antico retore aveva cercato la verità nei libri dei platonici, mentre al tempo di Dante la felicità secolare sembrava più facilmente disponibile nelle opere degli aristotelici radicali, ma in entrambi i casi l’avventura intellettuale era un viaggio da intraprendersi senza guida, da soli. In retrospettiva, entrambi gli autori ripudiarono questi tentativi di trovare una felicità puramente intellettuale come esempi di presunzione»[1].

Una lettura comparata di Liber VII e Inferno I mostra una sorprendente affinità tematica e retorica, per illustrare la quale basti un esemplare parallelo.

Il brano

 

Et aliud est de silvestri cacumine videre patriam pacis et iter ad eam non invenire et frustra conari per invia circum obsidentibus et insidiantibus fugitivis desertoribus cum principe suo leone et dracone, et aliud tenere viam illuc ducentem cura caelestis imperatoris munitam (Conf. VII, 21, 27)[2]

 

rivive nella drammatica scena del prologo infernale, che prepara l’incontro dello “smarrito” con la “guida” mandata da «lo imperator che là su regna».

Nello stesso Liber VII, contrapponendo all’orgoglio intellettuale greco l’ubbidienza fino alla morte del Figlio di Dio, Agostino sottolinea la differenza tra la presumptio della filosofia classica e la confessio della creatura salvata, la differenza «inter videntes, quo eundum sit, nec videntes qua, et viam ducentem ad beatificam patriam non tantum cernendam sed et habitandam. (VII, 20, 26)[3].

Non è difficile, a questo punto, pensare ad Ulisse, alla «nova terra» vista, ma non abitata dal temerario Laerziade, soprattutto se si tiene presente il passo delle Confessiones immediatamente successivo: la lettura di Paolo, grazie alla quale Agostino scopre che quanto di vero si legge nei filosofi, nella Scrittura:

 

cum commendatione gratiae tuae dici, ut qui videt non sic glorietur, quasi non acceperit non solum id quod videt, sed etiam ut videat - quid enim habet quod non accepit? - et ut te, qui es semper idem, non solum admoneatur ut videat, sed etiam sanetur ut teneat, et qui de longiquo videre non potest, viam tamen ambulet, qua veniat et videat et teneat (Conf. VII, 21, 27)[4].

 

L’Ulisse dantesco rimanda anche ad un’altra pagina di Agostino, al prologo al De beata vita, che presenta la ricerca della felicità attraverso la metafora della navigazione e del naufragio. Fra le tre categorie «navigantium», la seconda

 

«est eorum qui fallacissima facie maris decepti, elegerunt in medium progredi, longeque a sua patria peregrinari audent et saepe eius obliviscuntur. Hos si nescio quo et nimis latente modo a puppi ventus, quem prosperum putant, fuerit prosecutus, penetrant in altissima miseriarum elati atque gaudentes, quod eis usquequaque fallacissima serenitas voluptatum honorumque blanditur» (De beata vita I,2).


 

[1] J. FRECCERO, Ironia e mimesi: il disdegno di Guido, in G. BARBLAN, op. cit. 47

[2] «Altro è vedere da una cima selvosa la patria della pace e non trovare la strada per giungervi, frustrarsi in tentativi per plaghe perdute, sotto gli assalti e gli agguati dei disertori fuggiaschi guidati dal loro capo, leone e dragone insieme; e altro tenere la via che vi porta, presidiata dalla solerzia dell'imperatore celeste».

[3] «La differenza che intercorre fra la presunzione e la confessione, fra coloro che vedono la meta da raggiungere, ma non vedono la strada, e la via che invece porta alla patria beatificante, non solo per vederla, ma anche per abitarla».

[4] «Iniziata la lettura, trovai che quanto di vero avevo letto là, qui è detto con la garanzia della tua grazia, affinché chi vede non si vanti, quasi non abbia ricevuto non solo ciò che vede, ma la facoltà stessa di vedere. Cos'ha infatti, che non abbia ricevuto? E poi, non solo è sollecitato a vedere te, che sei sempre il medesimo, bensì anche a guarire per possederti. Chi poi è troppo lontano per vederti, intraprenda tuttavia il cammino che lo condurrà a vederti e a possederti».

  
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4. Il greco Ulisse e il poeta cristiano >>>>