4. IL GRECO ULISSE E IL POETA CRISTIANO

 

Ulisse, il personaggio forse più problematico e intrigante della Commedia, la sofferta rappresentazione del Dante del Convivio: «il viaggio di Ulisse deriva in parte il suo soffio eroico da un alto motivo autobiografico: anche Dante ha sentito gli stimoli prepotenti dell’ingegno e il pericolo di lasciarlo correre orgogliosamente senza un freno superiore» (Momigliano), tanto che al ricordo dell’incontro infernale dell’agens, l’auctor esclama

 

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,

e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio

perchè non corra che virtù nol guidi;

sì che, se stella bona o miglior cosa

m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi  (Inf   XXVI, 19 - 24).

 

Nessuna «altezza d’ingegno», nessuna «semenza» permettono di sfuggire alla «gola del fosso» infernale, se «miglior cosa» non è concessa e accolta. Il benigno influsso delle stelle natali non è che l’attuazione dei decreti provvidenziali di Dio.

Nel cielo di Saturno, il Poeta saluta i Gemelli, la sua stella, seguendo la quale non può «fallire a glorioso porto» gli aveva assicurato Brunetto, riconoscendola

 

lume pregno

di gran virtù, dal quale io riconosco

tutto, qual che sia, il mio ingegno (Pa  XXII, 112-113),

 

ma legandola subito alla

 

grazia largita

d’entrar ne l’alta rota (Pa  XXII, 118-119).

 

«L’intero itinerario viene di continuo interpretato come una grazia, anzi come una inconcepibilmente alta grazia»[1].

Agli iracondi del terzo girone del Purgatorio, il pellegrino risponde

 

Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,

tanto che vuol ch’i veggia la sua corte

per modo tutto fuor del moderno uso (Purg  XVI,40-42)

 

con la doppia allusione a Is 6 e 2Cor 12.

«In ogni momento del suo pellegrinaggio, Dante può tendere al suo fine solo perchè è chiamato e come portato (...) non perchè sia debole - cristianamente autonomo, mentre l’eroe pagano è ardito - ma perchè l’uomo tanto più diviene se stesso, quanto più la grazia domina in lui. Appunto in questo suo osare con la grazia stanno l’eroismo e l’ardimento»[2].

Con il passaggio dalla filosofia del Convivio alla poesia della Commedia attraverso la chiamata della grazia, con la rottura con il passato per protendersi ad un futuro già presente e, infine, con il sofferto impegno di tutte le sue forze nel cammino verso il «fine di tutt’i disii», Dante accoglie l’autorevole invito di Paolo ai Filippesi: «Imitatores mei estote fratres, et observate eos qui ita ambulant, sicut habetis formam nostram» (Fil 3, 17).

Ulisse e Paolo, la classicità autosufficiente e la storia «umbra futurorum» (Col 2,17): due modelli entro cui Dante si muove, salendo da «l’acqua perigliosa» all’esperienza in corpore del «trasumanar», sempre guidato e sorretto dal lumen gratiae.

Prima di Dante, nessuno parla di un viaggio senza ritorno di Ulisse, tanto che molti commentatori lo ritengono un’invenzione dello stesso Dante. Baldelli ipotizza che suo fondamento reale sia la spedizione, nel maggio 1291, dei fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, i quali pure non fecero mai ritorno.

Ma non è la res empiricamente intesa che ci interessa, bensì il senso configurato dalla fictio, della quale esso dice la verità.

Virgilio, mediatore tra il poeta cristiano e l’eroe greco, si rivolge a quest’ultimo con parole ornate per sapere dove «perduto a morir gissi». Le connotazioni semantiche di quel perduto sono state ampiamente scandagliate da tutti i commentatori attraverso le concordanze inter- e infratestuali, ma non è stata, forse, sufficientemente ricercata la pregnanza di quel morir nella sua valenza di eco scritturale.

Se poi analizziamo l’«orazion picciola», vero e proprio capolavoro di retorica e caposaldo dell’intero canto, la matrice biblica risulta determinante. Ulisse esordisce con un accattivante «O frati», che culmina nella celeberrima terzina

 

Considerate la vostra semenza;

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza  (Inf  XXVI,  118-120),

 

sottile antifrasi di «Videte enim vocationem vestram, fratres» (1Cor 1,26) con cui Paolo richiama i Corinzi alla radicale alterità tra sapientia mundi e sapientia Dei, «quam nemo principum huius saeculi cognovit» (1Cor 2,8).

Discriminante fra le due sapienze è quella vocatio «quae data est», attraverso la praedicatio[3] dell’Apostolo, agli abitanti di Corinto, i quali, tuttavia, rischiano di “perdersi” nella sapientia huius saeculi, dimenticando che nessuna “semenza” cresce per virtù propria: c’è chi ha piantato, chi ha irrigato, «sed Deus incrementum dedit»; l’uomo è «Dei agricoltura» (1Cor  3,8-9).

 

Il peccato di Adamo, che non fu «il gustar del legno», ma «il trapassar del segno», la presunzione di essere sicut deus, rimane presenza subdola che insidia ogni uomo, prima e dopo la venuta nella storia de

 

la sapienza e la possanza  (cfr 1Cor 1,30 . 18)

ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terra (Pa  XXIII, 37-38).

 

L’agostiniana distinzione tra uti e frui, per la quale «in huius mortalitatis vita peregrinantes a Domino (2Cor 5,6), si redire in patriam volumus, ubi beati esse possimus, utendum est hoc mundo, non fruendum (De doctrina christiana I, 4), giudica «vana et curiosa cupiditas nomine cognitionis et scientiae palliata» (Conf  X, 35) l’atteggiamento di coloro che non sanno vedere nell’universo visibile un “oltre”, di coloro che acquietano il cuore in un amor inordinatus.

«Ogni qualvolta accada che le cose della natura siano viste soltanto come cose, che l’occhio si posi su esse come su un punto limite, la coscienza religiosa dei secoli che vanno da Agostino a Dante insorgerà a condannare ciò come qualcosa di molto grave. Perchè le cose non sono soltanto cose. Le cose dell’universo creato sono cose e segni al tempo stesso. Nel regno di ciò che è visibile l’occhio umano deve sempre discernere le cose invisibili di Dio (....) Per Agostino e per Dante - possiamo starne certi - il segno è nella cosa e dalla cosa è presentato. È stato Dio a porvelo. Non è l’uomo ad aggiungervelo, ricavandolo dalla sua mente e dal suo cuore. L’uomo lo scopre»[4].

 

Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur; sempiterna quoque eius virtus, et divinitas; ita ut sint inexcusabiles. Quia cum cognovissent Deum... evanuerunt in cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum: dicentes enim se esse sapientes, stulti facti sunt (Rm  1, 20-22).

 

Ulisse ha cercato la «conoscenza», non leggendo il libro del mondo scritto digito Dei, ma ricavandola dalla propria mente e dal proprio cuore; si è “abbandonato” a «l’alto passo» senza una guida; ha intrapreso non un itinerarium ad Deum, ma un «folle volo»:

 

nè dolcezza di figlio, nè la pièta

del vecchio padre, nè ‘l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

(…)

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi      

quando venimmo a quella foce stretta

dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta (Inf  XXVI, 94-109).

 

Neppure la trinità tutta umana di figlio, padre e moglie, novella sirena che tenta ma non vince, potè incrinare la corazza dell’autosufficienza dell’homo sapiens, incatenato alla propria hybris.

«Ma misi me per l’alto mare aperto», attraverso la mediazione dell’«Io» del verso 106, porta sull’«acciò che l’uom più oltre non si metta», in un’inclusione terribilmente eloquente: non ci può essere “missione” a se stessi!

Ci si può «allegrare» alla vista della «montagna, bruna / per la distanza», ma la “follia” dell’impresa non può  avere che un’unica conclusione:

 

de la nova terra un turbo nacque,

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:

a la quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso (Inf  XXVI,139-142).

 

La pietra tombale del verso 142 chiude negli abissi marini l’Adamo che coglie il frutto dell’albero scientiae boni et mali, i figli di Adamo che costruiscono una torre per celebrare nomen nostrum, i giganti che scalano la vetta dell’Olimpo, il viator che presume di giungere alla perfezione per philosophica documenta: «stipendia enim peccati, mors» (Rm  6, 23).

Ma Paolo scrive anche: «sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (1Cor 15, 22).

Perchè i Corinzi non vadano in perdizione, ma si salvino, quel Cristo «misit me evangelizare: non in sapientia verbi, ut non evacuetur crux Christi» (1Cor 1,17).

Inizia a questo punto un lungo e articolato discorso, costruito nel pieno rispetto dei procedimenti stilistici codificati dai retori, usati dall’Apostolo non per persuadere i “frati” a farsi suoi compagni in un “folle volo”, ma

 

per recar (…) conforto a quella fede

ch’è principio a la via di salvazione (Inf  2, 29-30),

 

per annunciare che la fede si basa «non in sapientia hominum, sed in virtute Dei» (1Cor 2, 5).

Se i Greci «sapientiam quaerunt» (1Cor 1, 22), navigando «infin la Spagna / fin nel Morocco (Inf   XXVI, 103-104), «nos autem praedicamus Christum crucifixum, Iudaeis quidem scandalum, gentibus autem stultitiam, ipsis autem vocatis, Iudaeis atque Graecis Christum Dei virtutem et Dei sapientiam» (1Cor 1, 23-24). I fratelli di Paolo considerino quindi la loro vocationem, perchè «placuit Deo per stultitiam praedicationis salvos facere credentes» (1Cor 1, 21). Se qualcuno pensa di essere sapiente in questo mondo, stia in guardia: «scriptum est enim: “Perdam sapientiam sapientium / et prudentiam prudentium reprobabo”» (1Cor 1, 19). E se non bastasse: «Nemo se seducat. (...) scriptum est enim “Comprehendam sapientes in astutia eorum”» (1Cor 3, 18-19).

Così Ulisse, il più astuto degli eroi greci, finisce con l’«ire in giù, com’altrui piacque», riaffermando, suo malgrado, la misteriosa onnipotenza divina: «Quid ergo dicemus? numquid iniquitas apud Deum? Absit. Moysi enim dicit: “Miserebor cuius misereor, / et misericordiam praestabo cuius miserebor”. Igitur non volentis neque currentis, sed miserentis est Dei. O homo, tu quis es, qui respondeas Deo?» (Rm 9, 14-16.20), cui fa eco Dante:

 

Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna,

per giudicar di lungi mille miglia

con la veduta corta d’una spanna?  (Pa 19, 79-81)

 

Grazie alla singolare contiguità-opposizione tra Canto XXVI e 1Cor di Paolo, mediato da Agostino, correndo anche il rischio di venir apparentata alla presumptio del «maggior corno de la fiamma antica», ritengo di poter scalfire l’affermazione di Baldelli, secondo cui «si è dibattuto dai commentatori di Dante, dai più antichi ai più moderni, sulle ragioni per cui Ulisse e Diomede, in quanto greci,  potrebbero “essere schivi” delle parole di Dante; ma non si è giunti a conclusioni sicure», proponendo una “conclusione” almeno probabile.

Corinto segna per Paolo l’incontro con la cultura greca; ma, secondo Atti 17, 15-34 - 18,1, l’Apostolo, che era scenofactoriae artis, giunge nella città di Aquila e Priscilla provenendo da Atene, dove «Epicurei et Stoici philosophi disserebant cum eo, et quidam dicebant: Quid vult seminiverbius hic dicere?». Ad Atene, infatti, il passatempo preferito era «aut dicere aut audire aliquid novi»; perciò la nova doctrina è accolta con vana et curiosa cupiditas, direbbe Agostino.

Paolo, stans in medio Areopagi, proclama: «Quod ignorantes colitis, hoc ego annuntio vobis. Deus qui fecit mundum et omnia quae in eo sunt, (…) fecitque ex uno omne genus hominum... quaerere Deum, si forte attrectent eum aut inveniant, quamvis non longe sit ab unoquoque nostrum». E questo Dio, «tempora huius ignorantiae despiciens», fa sapere ora, attraverso la parola di uno straniero, che tutti gli uomini saranno da Lui giudicati «in viro in quo statuit, fidem praebens omnibus, suscitans eum a mortuis». Quale reazione aspettarsi dai conquisitores greci? «Quidam irridebant, quidam vero dixerunt: Audiemus te de hoc iterum». Quale meraviglia, allora, che il poeta cristiano, che ha ricevuto da un uomo, il quale afferma «gratia Dei sum id quod sum», l’annunzio, in cui persevera, «Christus mortuus est pro peccatis nostris, secundum Scripturas, sepultus est et resurrexit tertia die, secundum Scripturas» (1Cor 15, 3-4), incontri qualche difficoltà ad essere ascoltato  da coloro che fuor greci?

A Dante, che implora

maestro, assai tien priego

e ripriego, che ‘l priego vaglia mille (Inf  XXVI, 65-66)

 

di parlare con il «foco diviso», l’autore dell’Eneide risponde

 

La tua preghiera è degna

di molta loda (Inf  XXVI, 70-71),

 

ma giudica i propri “alti versi” una captatio benevolentiae più sicura del “detto” di un poeta cristiano.

Il pellegrino, discepolo dell’Apostolo che «ter naufragium feci[t], nocte et die in profundo maris fui[t]» (2 Cor 11,25) per la causa di Gesù Cristo, «ad conoscendum illum et virtutem resurrectionis eius» (Fil 3,10), non può trovare udienza presso l’âdâm greco, che, per non volersi negare «l’esperienza / del mondo sanza gente», finì con l’

 

ire in giù com’altrui piacque,

 

infin che ‘l mar fu sovra [lui] richiuso (Inf XXVI, 141-142).


 

[1] H. von BALTHASAR, op. cit. 40

[2] R. GUARDINI, op. cit. 14-18

[3] Cfr. P. PEZZOLI, Prima Lettera ai Corinzi, 20 ss.

[4] C. S. SINGLETON, op. cit. 47-48

 

 
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