5. STOLAE ALBAE

 

La resurrezione della carne è la più radicale novità portata dal cristianesimo alla cultura occidentale. È idea ignota al mondo greco, che insegna l’immortalità dell’anima, ma vede nel corpo solo la negatività della materia.

E 1Cor 15 è il testo di riferimento più esplicito ed esteso, testo base di tutta la tradizione teologica, Dante compreso: «La grandezza, e l’unicità, della Commedia sta nel fatto che essa attinge ad un’altra dimensione - quella oltreumana o divina - la dimensione dove il corpo umano fece il suo ingresso, nella storia dell’occidente, con il racconto evangelico della resurrezione di Cristo»[1].

Dante agens scende «tra la perduta gente» all’imbrunire del venerdì santo, del giorno in cui la Chiesa fa memoria della morte e sepoltura di Cristo, e risale dalla “tomba” di Belzebù la mattina di Pasqua, la mattina della resurrezione del Signore:

 

Qui la morta poesì resurga,

o sante Muse, poi che vostro sono;

e qui Calliopè alquanto surga,

seguitando il mio canto (Purg  I,  7-10).

 

Alla protasi, sapientemente tramata di parole tematiche che celebrano il mistero pasquale, segue la delineazione di un paesaggio soffuso di grazia, in cui «l’aura morta» è vinta dal «dolce color d’oriental zaffiro» e Venere, tropo del sol oriens, fa «tutto rider l’oriente».

Il viator, il cui “duca” può dire: «da me non venni» (in un sorprendente incastro di “missioni”), non giunge all’«occidente», ma sul «lito diserto», che richiama, per superarla, la «piaggia diserta» di Inferno I, 29, lito

 

che mai non vide navicar sue acque

omo che di tornar sia poscia esperto (Purg  I,  131)

 

e vi giunge non in forza della sua “follia”, ma perchè chiamato alla “libertà”.

Prima, però, di iniziare l’ascesa del «dilettoso monte», lo scampato a «la profonda notte» deve obbedire all’austero custode del Purgatorio, Catone, a proposito del quale leggiamo nel Convivio: «E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone?» (IV, XXVIII, 15).

Deve compiere il primo di una serie di gesti liturgici che lo accompagneranno fino al Paradiso terrestre, un rito che è insieme catarsi dei segni del peccato e riscoperta della natura originaria:

ivi mi fece tutto discoverto

quel color che l’inferno mi nascose (Purg I, 128).

 

Deve cingersi “d’un giunco schietto”:

 

quivi mi cinse sì com’altrui piacque:

oh maraviglia! chè qual elli scelse

l’umile pianta, cotal rinacque

subitamente là onde l’avelse  (Purg I, 133-136).

 

L’autocitazione «com’altrui piacque», insieme a «l’umile pianta», chiude il pregnante confronto in absentia con Ulisse, sotteso per la verità a tutto il canto, ma soprattutto apre a un’ascendenza biblica, in un gioco multiplo di allusioni, tipico del genio dantesco, che non separa mai poesia e struttura, rappresentazione e commento etico-teologico.

La spiaggia su cui crescono i giunchi non può non rimandare al Mare dei Giunchi o Mare delle Canne (Singleton ha accertato la conoscenza nel Medioevo del significato di Yam Suf), cioè al cammino verso la Terra promessa. Infatti, gli spiriti che giungono alla spiaggetta su «un vasello snelletto e leggiero»

 

In exitu Israel de Aegypto

cantavan tutti insieme ad una voce

con quanto di quel salmo è poscia scripto (Purg II, 46-48).

 

L’umile pianta che si rinacque, e che permette al pellegrino il cammino sicuro fino alla Terra promessa, significa la discesa di Cristo all’umiltà della crocifissione, perchè l’uomo possa risalire dal peccato di Adamo alla salvezza eterna.

Scrive Paolo ai Filippesi:

 

Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Iesu, qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo, sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo. Humiliavit semetipsum factus oboediens usque   ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltavit illum et donavit illi nomen, quod est super omne nomen (Fil  2, 5-9).

 

«Le nove e le scritture antiche» offrono al Poeta il linguaggio per esprimere una realtà che non appartiene alla filosofia, la realtà di un corpo mortale, ma portatore di un seme di eternità:

 

Seminatur in corruptione, surget in incorruptione; in momento, in ictu oculi, in novissima tuba; canet enim tuba, et mortui resurgent incorrupti, et nos immutabimur. Cum autem mortale hoc induerit immortalitatem, tunc fiet sermo qui scriptus est "Absorpta est mors in victoria » (1Cor 15, 42.52.54).

 

Le parole di Paolo risuonano nei versi

 

Quali i beati al novissimo bando

surgeran presti ognun di sua caverna,

la rivestita voce allelluiando (Purg  XXX, 13-15),

 

che introducono l’apparizione di Beatrice, la nuova guida del pellegrino ormai «puro e disposto a salire a le stelle».

L’esegesi cristiana antica e medievale riconosce già in alcuni testi veterotestamentari la dottrina della resurrezione dei corpi e Dante si presenta erede e voce di tale tradizione, come testimonia in modo esemplare il Canto XXV del Paradiso.

A S. Giacomo che, nel Cielo delle Stelle fisse,  esaminandolo, gli chiede in che cosa consista la «gloria futura» in cui egli spera, Dante risponde non in termini di intellettualistica visione di Dio, ma con una doppia citazione, da Isaia e dall’Apocalisse, filtrata dalla tradizione esegetica.

«In terra sua duplicia possidebunt, laetitia sempiterna erit eis» (Is 61,7)

«Et datae sunt illis singulae stolae albae, et dictum est illis ut requiscerent adhuc tempus modicum» (Ap 6, 11)

diventano sotto la penna del Poeta

 

Dice Isaia che ciascuna vestita

ne la sua terra fia di doppia vesta;

e la sua terra è questa dolce vita.

E ‘l tuo fratello assai vie più digesta,

là dove tratta de le bianche stole,

questa revelazion ci manifesta (Pa XXV, 91-96),

 

dove terra è la patria celeste, duplicia possidebunt, la doppia gloria dell’anima e del corpo, requiescerent adhuc tempus modicum, l’intervallo tra la morte e la resurrezione del corpo.

Base di questa invenzione dantesca è sì la dottrina tomista «anima separata naturaliter appetit corporis coniunctionem», ma soprattutto sono i commenti scritturistici, tra cui i più significativi sono quelli di Gregorio Magno, Innocenzo III, S. Bonaventura.  Il triplice passaggio sul testo di Isaia - che il duplicia si riferisca alla doppia beatitudine, che significhi vesti e che le vesti siano le bianche stole dell’Apocalisse - si trova già attestato in Gregorio Magno, il quale stabilisce anche il preciso valore del termine stola, divenuto quasi canonico nella tradizione teologica[2].


 

[1] A. CHIAVACCI LEONARDI, “Le bianche stole”: il tema della resurrezione nel Paradiso, in G. BARBLAN (ed.), op. cit. 253

[2] Cfr. A. CHIAVACCI LEONARDI, ivi 260 ss

  
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