7. DANTE PROFETA

 

L’esilio non è semplicemente una tematica della Commedia, un dato biografico del suo autore; l’esilio, il suo esilio, è condizione della poesia stessa di Dante, della sua interpretazione della storia.

«La parola poetica di Dante si colloca nella tradizione dei nabim per i quali la parola non è mai mero simulacro o ricettacolo delle cose, nè è l’immagine forma funerea del reale. La parola profetica esiste, tangibile icona e, anzi, realtà essa stessa, capace di trasformare le ingannevoli apparenze del mondo»[1].

 

Sic erit verbum meum quod egredietur de ore meo; non revertetur ad me vacuum, sed faciet quaecumque volui, et prosperabitur in his ad quae misi illud (Is 55, 11).

 

La vita stessa del profeta è un segno, l’incarnazione del signicato del suo messaggio:

 

Ecce ego et pueri mei quos dedit mihi Dominus in signum, et in portentum Israel a Domino exercitum, qui habitat in monte Sion (Is 8, 18).

 

Mentre l’impianto epico classico oppone l’”io” del narratore all’”egli” dell’eroe, l’impianto narrativo profetico identifica auctor et agens nell’unico “io”, la cui sola distinzione è di ordine temporale: allora // ora.

 

Et dixit Dominus ad me: Sume tibi librum grandem, et scribe in eo stylo hominis. Liga testimonium, signa legem in discipulis meis. Et exspectabo Dominum qui abscondit faciem suam a domo Iacob, et praestolabor eum (Is 8, 1.16-17).

 

Le parole di Isaia risuonano nelle parole di Beatrice

 

Tu nota; e sì come da me son porte,

così queste parole segna a’ vivi

del viver ch’è un correre a la morte (Purg XXXIII, 52-54)

 

e in quelle dello stesso auctor

 

Nel ciel che più de la sua luce prende

fu’ io…

Veramente quant’io del regno santo

ne la mia mente potei far tesoro,

sarà ora materia del mio canto (Pa I, 4. 10-12).

 

Il poeta fiorentino è vittima di una tremenda

 

crudeltà che fuor [lo] serra

del bello ovile (Pa XXV, 4-5)

 

patrio, nella quale, sul metro della propria sofferenza, misura e denuncia l’ingiustizia etico-politica che travaglia il mondo intero.

L’exul immeritus non si stanca di gridare il proprio e l’altrui tormento, che diventa occasione e condizione dell’interpretazione provvidenziale della storia: la patria dell’uomo non è la città terrena; la patria è la Gerusalemme celeste:

 

Quivi si vive e gode del tesoro

che s’acquistò piangendo ne lo essilio

di Babilon (Pa XXIII, 133-135).

 

L’allusiva sinteticità della terzina rinvia al sottotesto comune ad autore e lettore medievali, alle consolanti parole di Isaia sulla “nuova Gerusalemme” e alla loro pregnante valenza escatologica.

 

Più non spargo

rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,

tanto ch’a questa non posso esser largo (Purg XXIX, 97-99).

 

aveva già affermato Dante allo snodarsi della processione simbolica; non servono molte spiegazioni al lettore cristiano, al quale è sufficiente dire “ma leggi Ezechiel”, e Isaia, e “troverai ne le sue carte” la verità di questi versi.

Le amare privazioni, le cocenti umiliazioni hanno potuto far crescere nel profeta medievale una speranza che è oltre ogni umana misura:

 

tribulatio patientiam operatur, patientia autem probationem, probatio vero spem; spes autem non confundit  (Rm 5, 3-5);

 

Qui sperant autem in Domino mutabunt fortitudinem, assument pennas sicut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient (Is  40, 31).

 

Tale speranza è la ragione per cui gli è stato concesso, per grazia, di visitare «l’aula più segreta» dell’Imperatore celeste

 

sì che, veduto il ver di questa corte,

la spene, che là giù bene innamora,

in te e in altrui di ciò conforte (Pa XXV, 43-45).

 

Le parole di Giacomo, mentre sanciscono la perfezione della speranza escatologica, confermano la missione profetica già annunziatagli da Beatrice e Cacciaguida e preparano quelle di Pietro:

 

E tu, figliuol, che per lo mortal pondo

ancor giù tornerai, apri la bocca

e non asconder quel ch’io non ascondo (Pa XXVII, 64-66).

 

Profeta è colui che può dire: «unus de seraphim tetigit os meum» (Is 6, 6-7), con un carbone ardente, grazie al quale può e deve svelare al popolo «consilium sancti Israel». «Dominus exercitum» non è l’Essere immutabile, impassibile della filosofia greca: «iratus est furor [eius] in populum suum» (Is 5, 25), che ha la giustizia «in sommo de la bocca» (Purg VI, 132), non radicata «in cuore» (cfr.  Is 29, 13), che

 

sollicito risponde

sanza chiamare, e grida “I’ mi sobbarco!”  (Purg   VI, 134,135),

 

rovesciando le parole del profeta: «Et audivi vocen Domini dicentis: Quem mittam? Et quis ibit nobis? Et dixi: Ecce ego, mitte me» (Is 6, 8).

La parola profetica è annuncio di giudizio che smaschera l’infondatezza della speranza del popolo, è invettiva morale contro le vie percorse da «populus iste», che s’illude di essere il popolo di Dio. Firenze, Roma, l’Italia, l’Impero tutto sono la riedizione dell’anarchia gerosolimitana del libro di Isaia.

Il poeta fiorentino più volte, durante il «cammino alto e silvestro», esplode in focosi e angosciati “oracoli”, che ora rabbiosamente dilatano, ora dolorosamente condensano la memoria biblica.

Dall’aldilà, risuonano minacciosi i “guai”, che non risparmiano nessuno:

guai a

a la buona pianta

che fu già vite e ora è fatta pruno (Pa XXIV, 110; cfr. Is 5, 2),

 

guai alla

serva Italia,

non donna di province, ma bordello (Purg VI, 76; 78; cfr.  Is 1, 21),

 

guai alla cupidigia della «gente nova», per la quale unico valore è

 

il maledetto fiore

ch’ha disviate le pecore e gli agni

però che fatto ha lupo del pastore (Pa IX, 130-132; cfr. Is  9, 15),

guai

a le sfacciate donne fiorentine (Purg XXIII, 101),

 

indegne eredi della Firenze che

 

stava in pace, sobria e pudica  (Pa XV, 99).

 

Con una sapienza retorica, che magistralmente emula l’autore biblico, Is 3,16-24, il poeta cristiano oppone a le «svergognate», di cui parla Forese Donati nella cornice dei golosi, le «fortunate», di cui tesse le lodi Cacciaguida nel cielo di Marte, cittadine di una «Fiorenza» antica, che non è nostalgico rimpianto di un passato irrevocabile, ma rappresentazione figurale di una vibrante utopia politica, della perfetta societas christiana.

Una puntuale lettura comparata dei canti centrali del Paradiso, XV-XVI-XVII, e dei cc 3 e 5 di Isaia, attenta alle scelte stilistiche e lessicali, mostra l’inequivocabile qualità di collatio occulta del poema dantesco e l’intrascendibile carattere metaforico (secondo l’insegnamento di Ricoeur) del linguaggio poetico, sia esso biblico o comico.

La più celebre e sofferta «digression» è quella del canto VI del Purgatorio, che apre il discorso, fondamentale nella Commedia, sul difetto dell’Imperatore, che agisce da «tedesco» invece che da “romanus Princeps”, che dimentica di essere «lo cavalcatore de la umana volontade», la quale, “abbandonata”, si fa «indomita e selvaggia»,

 

Vieni a veder la tua Roma che piagne

vedova  e sola, e dì e notte chiama:

Cesare mio, perchè non m’accompagne? (Purg VI, 112-114)

 

è l’amara trascrizione, nell’utopia dell’ex-priore di Firenze, delle immagini che in Isaia consolano Gerusalemme, sposa di Dio, e in Dante bollano la colpa di Cesare:

 

Et dixit Sion: Dereliquit me Dominus, et Dominus oblitus est mei (Is 49, 14);

Et opprobrii viduitatis tuae non recordaberis amplius (Is 54, 4d);

Tu autem vocaberis: Quaesita civitas, et non derelicta (Is 62, 12b).

 

Ma è soprattutto l’eccesso della Chiesa mondanizzata che alimenta la sofferta polemica del Poeta:

Dì oggimai che la chiesa di Roma,

per confondere in sé due reggimenti,

cade nel fango e sé brutta e la soma (Purg XVI, 127-129).

 

«Dante aderisce con animo filiale alla chiesa di Cristo, ai suoi sacramenti, alla parola di Dio che vi viene predicata. E spera in un imperatore che la salvi e in una sua purificazione. La sua indignazione contro gli abusi (...) non ha nulla di settario, nulla di eterodossamente gioachimitico, ma zampilla unicamente dall’amoroso zelo del laico cristiano che si vede ingannato nel suo buon diritto allo spirito e ai beni di Cristo e che per amore dei fuorviati, anzi per amore dello stesso signore della chiesa, si rattrista» e si indigna[2] .

Non si dimentichino, inoltre, i nuovi atteggiamenti della cultura laica del Basso Medioevo, quando, nella nuova polis, nel comune borghese, riprende senso la figura del profeta biblico, fustigatore del potere.

L’ira di Dio, tuttavia, garantisce che il suo occhio resta posato sull’agire dell’uomo. Disse redemptor, Dominus:

 

in momento indignationis abscondi faciem meam parumper a te; et in misericordia sempiterna misertus sum tui (Is 54, 8);

 

dice Pietro a conclusione dell’infuocata invettiva contro i papi corrotti:

 

Ma l’alta provedenza, che con Scipio

difese a Roma la gloria del mondo,

soccorrà tosto, sì com’io concipio (Pa XXVII, 61-63); 

 

dice Folco, vescovo di Tolosa, l’appassionato predicatore della crociata contro gli Albigesi, a conclusione della cruda ed amara invettiva contro i chierici avari:

 

Ma Vaticano e l’altre parti elette

di Roma che son state cimitero

a la milizia che Pietro seguette,

tosto libere fien de l’avoltero (Pa IX, 139-142).

 

Dell’interesse di Dio per l’uomo è garanzia l’esperienza di Dante stesso, le cui vicende individuali, trasvalutate, grazie all’ottica figurale che presiede il poema, sul piano universale, riconfermano il significato profetico del suo itinerarium.

La «cara piota», che «per chiare parole» gli ha svelato la desolata amarezza del futuro esilio, in seguito alle mene, già in atto, della curia romana, aggiunge che il peso più grave

 

sarà la compagnia malvagia e scempia

 

con cui verrà bandito, la quale

 

tutta ingrata, tutta matta ed empia

 

si farà contro di lui.  Ma

 

poco appresso,

ella, non [lui], n’avrà rossa la tempia,

 

perchè

 

la vendetta

fia tesimonio al ver che la dispensa (Pa XVII, 53-66).

 

Dante è il semen Abraham amici mei a cui Dio parla in Isaia 41, 8-13: nel messaggio profetico, oracolo di sventura e promessa dell’aiuto divino non sono mai disgiunti.

Come il Dio biblico, Dante «cospiratore della terra» (Balthasar) non rinuncia all’impegno nella storia. La sua “visione” profetica nasce da un intreccio inscindibile di sdegno veemente e fremente amore, che gli permette di annunciare non tanto singoli avvenimenti o date particolari, quanto l’eterno mysterion di Dio nei riguardi della Chiesa e dell’umanità; nasce dal bisogno di ristabilire la pace «in areola ista mortalium» con l’eliminazione definitiva dello scandaloso conflitto fra Impero e Papato e l’instaurazione dell’ordine «duplici directivo» additato dalla «providentia inenarrabilis», argomentato nella  Monarchia.

Già il Convivio indaga il fondamento «de la imperiale maiestade» e lo riconosce nel popolo romano. Il percorso per giungere a tale conclusione è piuttosto complesso, ma molto rigoroso: alla venuta del Figlio di Dio, per redimere l’umanità dal «peccato de la prevaricazione», conveniva che la terra fosse «in ottima disposizione», cioè «tutta ad uno principe» e quindi in pace; che la progenie «dove il celestiale rege intrare dovea» fosse «santissima» e che a questa appartenesse la «femmina ottima di tutte l’altre, la quale fosse camera del Figlio di Dio». La scelta della divina provvidenza cadde sul popolo romano per la prima “convenienza”, sulla stirpe di David, cui appartiene Maria, per la seconda.

 

E però è scritto in Isaia: “Nascerà virga de la radice di Iesse, e fiore de la sua radice salirà”; e Iesse fu padre del sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie di Maria (Convivio IV, V, 6).

 

Il momento filosofico-politico di Convivio e Monarchia trova nel momento poetico-religioso della Commedia il suo naturale compimento. 

«Dante fu vero profeta, non perchè i suoi disegni di riforma politica ed ecclesiastica si siano attuati (riconosciamo, anzi, che, dato il corso naturale degli avvenimenti, erano inattuabili, quali si son rivelati), ma perchè, come tutti i grandi profeti, seppe levare lo sguardo oltre gli avvenimenti che si svolgono sotto i suoi occhi, e additare un ideale eterno di giustizia come criterio per misurare la statura morale degli uomini e il valore delle loro azioni»[3].


 

[1] G. MAZZOTTA, Teologia ed esegesi biblica, in G. BARBLAN (ed.), op. cit. 100

[2] H. von BALTHASAR, op. cit. 16

[3] B. NARDI, op. cit. 325

  

Indice

 

8. Dante, Isaia e la politica teologica >>>>