8. DANTE, ISAIA E LA POLITICA TEOLOGICA

 

Se quanto dice Nardi è lo specifico di tutti i profeti biblici, è la singolarità di Isaia (per Dante, c’è un unico  Isaia) che nutre l’utopia di Dante e ne fa, con Paolo, il sottotesto privilegiato della Commedia.

Secondo quanto scrive Alonso Schökel nella sua splendida opera I profeti, la fede e la predicazione di Isaia ereditano dalla tradizione gerosolimitana la certezza indefettibile dell’elezione divina di Gerusalemme e della dinastia davidica. L’impegno di Dio, fin dai tempi più antichi, con queste due realtà, la capitale e la monarchia, è gravido di conseguenze decisive per il momento storico.

La vocazione profetica permette, poi, al figlio di Amoz di sperimentare nuove realtà, che gli svelano il piano di Dio rispetto al suo popolo: Dio è il Santo; l’uomo, individuo e collettività, è peccatore; il castigo è necessario per la sua carica terapeutica; la speranza della salvezza non viene meno.

Isaia denuncia le ingiustizie sociali, la cupidigia, il lusso della classe dominante, difende una linea politica basata sulla fede in Dio, impegnatosi con una promessa, il quale manderà il Messia che ristabilirà sulla terra giustizia e diritto. 

Ma Gerusalemme da sposa fedele s’è fatta prostituta, il popolo confida nelle armi umane anzichè nell’aiuto divino, la casa di Giacobbe non riconosce il proprio peccato.  E il profeta implora: «Cessate di agire male, imparate a fare il bene», costruite una comunità di uomini giusti, graditi a Dio, che accettano il divino in mezzo all’umano.

Come scrittore, il Primo Isaia è il classico grande poeta di singolare maestria stilistica, amante della concisione, capace di alcuni finali lapidari, che divide con il Secondo Isaia, poeta ispirato e dalla retorica fluente, «un udito squisito per i ricorsi sonori del linguaggio e per la varietà e avvedutezza delle immagini»[1] .

La profonda affinità tra Dante e Isaia è esemplarmente documentata:

a) dal grido di dolore che apre ex abrupto l’oracolo di Is 1, 21

 

Quomodo facta est meretrix

Civitas fidelis, plena iudicii?

Iustitia habitavit in ea,

Nunc autem homicidae

 

cui risponde Purg VI, 76-78

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiero in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello;

 

b) dall’acclazione di lode che accompagna la vocazione di Is 6, 3

 

Sanctus, sanctus, sanctus Dominus,

Deus exercituum;

Plena est omnis terra gloria eius

 

cui risponde l’inno di ringraziamento per la grazia elargita a Dante

 

Sì com’io tacqui, un dolcissimo canto

risonò per lo cielo, e la mia donna

dicea con li altri: “Santo, santo, santo!”  (Pa XXVI, 67-69).

 

È programmaticamente dichiarata dall’incipit del poema

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita,

 

eco dell’incipit del cantico di Ezechia

 

Ego dixi: “In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi” (Is 38, 10).

 

La terzina dantesca continua

 

mi ritrovai per una selva oscura

che la diritta via era smarrita (Inf I, 1-3),

 

dove il topos dello smarrimento nella selva appartiene sì all’immaginario collettivo medievale (nella selva inizia la discesa di Enea agli inferi, nella selva errano i cavalieri nella loro quête), che in Dante è però mediato dal Tesoretto di “ser Brunetto”:

 

e io, in tal corrotto

pensando a capo chino,

perdei il gran cammino,

e tenni a la traversa

d’una selva diversa.

 

La Commedia si apre, quindi, nel segno di una contaminatio che subordina all’opera ispirata, ma non rifiuta, l’opera letteraria.

Brunetto Latini è il «caro e buon» maestro del Poeta soprattutto in quanto autore della Rettorica, un “volgarizzamento” del De inventione di Cicerone, nella quale lo scrittore fiorentino piega la materia classica ai fini della nuova cultura borghese: l’arte della parola diventa un’arte essenzialmente politica, necessaria per lo “stabilimento” della città.

 

Tullio dice, che al cominciamento gli uomini vivevano come bestie senza propria casa, e senza conoscenza di Dio, per li boschi e per li luoghi riposti ne’ campi (...) Allora fu un savio bene parlante, che tanto consigliò gli altri, e tanto mostrò la grandezza dell’uomo, e la dignità della ragione e della discrezione, ch’egli li trasse di quello selvaggio nido, e ragunogli ad abitare in uno luogo, ed a mantenere ragione e giustizia. E così per lo bello parlare che in lui era col senno, fu questo uomo quasi un secondo Iddio, che rilevò il mondo per l’ordine dell’umana compagnia (Tresor  III, 1, 2).

 

Il «savio bene parlante», che «usò di parlare» agli uomini capaci di «discrezione» e seppe  «recarli a divina conoscenza, cioè ad amare Iddio e ‘l prossimo», è il Virgilio, salutato dal poeta fiorentino come

 

fonte

che spandi di parlar sì largo fiume (Inf   I, 80),

 

che con «parola ornata», con «parlare onesto» consegue lo scopo di persuadere il viator  «da viltate offes[o]» a entrare «per lo cammino alto e silvestro».

Ma il «cotto aspetto», che porta Dante ad esclamare, sorpreso e dispiaciuto, «Siete voi qui, ser Brunetto?» nel girone dei sodomiti, è la plastica raffigurazione della precarietà di un umanesimo tutto mondano, della “miseria” di un’autosufficienza intellettuale, che pretendono tragicamente d’insegnare «come l’uom s’etterna», seguendo l’influsso della “stella”, affidandosi alla “fortuna”, inseguendo l’“onore”, nella totale dimenticanza della dignità della natura umana: «creavit Deus hominem ad imaginem suam» (Gn 1, 27).

Nessuna meraviglia, quindi, che, giunto a «la divina foresta spessa e viva», il pellegrino perda il «dolcissimo patre»

 

Virgilio a cui per mia salute die’mi  (Purg XXX, 51)          

 

e sia chiamato per nome (unica volta in tutto il poema) da «quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia saecula benedictus» (Vita nuova,  XLII):

 

Dante, perchè Virgilio se ne vada

non pianger anco, non piangere ancora

chè pianger ti conven per altra spada (Purg XXX,  55-57).

 

Ora il peccatore deve riconoscere il giovanile traviamento, che l’ha tolto a “lei” per darsi ad “altrui”, tanto che si sarebbe perduto se lei stessa non fosse scesa a visitare «l’uscio d’i morti» per pregare

 

colui che l’ha qua su condotto  (Purg XXX, 140).

 

La colpa di questi che l’“amò tanto” è grave, perchè

 

Non pur per ovra de le rote magne,

che drizzan ciascun seme ad alcun fine

secondo che le stelle son compagne,

ma per larghezza di grazie divine,

...

questi fu tal ne la sua vita nova

virtualmente, ch’ogne abito destro

fatto averebbe in lui mirabil prova (Purg XXX, 109-112; 115-117),

 

se non avesse volto

 

i passi suoi per via non vera (Purg XXX, 130).

 

È, perciò, necessaria una revisione del passato errore letterario e filosofico, l’immersione nel Lete, per accedere all’

 

isplendor di viva luce etterna (Purg  XXXI, 139).

 

Dall’“io” della Rettorica, il poeta-pellegrino deve passare all’“io” della Bibbia, dall’“io” della finzione narrativa, all’“io” della “figura” profetica, all’“io” radicalmente implicato nell’itinerarium fin dall’inizio.

L’incipit del poema, mentre volge la morte fisica di Ezechia nella morte spirituale di Dante, indica quindi «il metodo di ricezione del messaggio, il metodo di percezione della struttura dell’opera» (Sklovskij), medievalmente “polisemia”.

Il cantico di Ezechia è, per l’esegesi patristica, storia di uno smarrimento morale con rischio di morte, storia dell’intervento di una parola che realmente salva, come si legge nel Commentariorum in Esaiam liber XI di San Girolamo[2]. Nello stesso tempo, il cantico è, per la Scrittura, storia di un re di Giuda, figlio di David, per il quale il Signore aveva detto:

 

stabiliam thronum regni eius usque in sempiternum;

misericordiam autem meam non auferam ab eo (2Sam 7, 13.15).

 

Se poi leggiamo in sinossi Is 38,4ss e 2Re 20,4ss, scopriamo in quest’ultimo testo indicazioni preziose per valutare in pienezza la polisemia della Commedia:

il Signore disse a Isaia:

 

Revertere, et dic Ezechiae duci populi mei: Haec dicit Dominus Deus David patris tui: Audivi orationem tuam, et vidi lacrymas tuas, et ecce sanavi te, die tertio ascendes templum Domini. Et addam diebus tuis quindecim annos; sed et de manu regis Assyriorum liberabo te, et civitatem hanc, et protegam urbem istam propter me, et propter David servum meum (2Re 20, 5-6).

 

«Duci populi mei» rafforza «Dominus Deus David patris tui», comune ai due testi, in chiave di alleanza con la monarchia che guida il popolo di Dio;

«ecce sanavi te, die tertio ascendes templum Domini» introduce alla durata del viaggio del poeta-pellegrino, che “ascende” al

 

secondo regno

dove l’umano spirito si purga

e di salire al ciel diventa degno (Purg I, 4-6)

 

il terzo giorno della discesa fra la «perduta gente»;

–  «protegam urbem istam propter me, et propter David servum meum», mentre riconferma un’alleanza con il “suo” popolo che mai, da parte di Dio, verrà meno, alimentando, così, la speranza del fedele-esule, opera il passaggio dalla città di David alla «santa cittade che fu contemporane[a] a la radice de la progenie di Maria» (Convivio IV, V,6), a

 

quella Roma onde Cristo è romano

 

e nella quale Dante, gli assicura Beatrice, sarà

 

sanza fine cive (Purg XXXII, 101-102; cfr  Ef  2,19).

 

Grazie ad una singolare concentrazione di echi multipli, il “poema sacro”, che risemantizza in senso medievale l’Antico Testamento, legittimazione dell’utopia dei «duo luminaria magna» (Monarchia III, I, 5), oltre che “figura” dell’«exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem» (Ep. XIII), può, con buona ragione, porsi come il Terzo Testamento e autorizzare il suo autore a sentirsi “volto” da

 

l’amor che move il sole e l’altre stelle (Pa XXXIII, 145).


 

[1] L. ALONSO SCHOKEL – J. L. SICRE DIAZ, I Profeti, 302

[2] Cfr. L. BATTAGLIA RICCI, Scrittura sacra e “Sacrato Poema”, in G. BARBLAN (ed.), op. cit. 315 ss.

  

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