1. Perchè la Bibbia a scuola

 
 

1.1. Lo scenario: il libro assente

«Grande codice dell’Occidente», «giacimento biblico», «libro-mondo», «grammatica dell’esistenza», «testo dell’essere nella storia e dell’esserci della storia», «specchio dell’invisibile volto di Dio» L’elenco delle definizioni, più o meno evocative, potrebbe continuare. Il fatto che di pochi altri testi siano state fornite tante definizioni quanto della Bibbia[1] denuncia la sua pregnanza culturale e religiosa.

Presente come testo germinativo nella cultura, nell’arte, nelle letterature, nella riflessione filosofica e politica, nelle tradizioni religiose, la Bibbia è però assente dalla prassi scolastica italiana (ed europea)[2], sebbene da un recente sondaggio risulti che il 74% degli intervistati ritenga necessario insegnarla nelle scuole[3].

 

1.2. La posta in gioco culturale e didattica

 

«Il primo linguaggio dell’anima fu la lirica. E di qui cominciai il mio corso. La distinsi, secondo il contenuto, in religiosa, eroica ed amorosa. Toccai della lirica greca e romana, riserbando la trattazione a un corso speciale. Mi fermai molto sulla lirica ebraica, esaminando in ispecie il libro di Giobbe, il canto di Mosè dopo il passaggio del mar Rosso, i Salmi di Davide, la Cantica di Salomone, i Canti dei profeti, specialmente d’Isaia. Avevo sete di cose nuove, e quello studio era per me nuovissimo. Non avevo letto mai la Bibbia, e i giovani neppure. Con quella indifferenza mescolata  di disprezzo, che allora si sentiva per le cose religiose, la Bibbia, come parola di Dio, moveva il sarcasmo. Nella nostra immaginazione c’erano il catechismo e le preghiere che ci sforzavano a recitare nelle Congregazioni, e la Bibbia entrava nel nostro disgusto di tutti i sacri riti. Lessi non so dove maraviglie di quel libro, come documento di alta eloquenza, e tirato dall’argomento delle mie lezioni, gittai l’occhio sopra il Libro di Giobbe. Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione classica niente comparabile a quella grandezza. Portai le mie impressioni calde calde nella scuola. Avevo già fatto una lezione sopra l’origine del male e il significato di quel libro, e fu udita con molta attenzione. Ma quando lessi il libro tutto intero, la mia emozione e la mia ammirazione guadagnarono tutti. Preso l’aíre, c’immergemmo in quegli studi. Furono molto gustati la Cantica; un Salmo di Davide, dove dalla contemplazione delle cose create si argomenta la potenza e la grandezza del Creatore; e qualche Treno di Geremia. Era per noi come un viaggio in terre ignote e lontane dai nostri usi. Con esagerazione di neofiti, dimenticammo i nostri classici, fino Omero, e per parecchi mesi non si udì altro che Bibbia. C’era non so che di solenne e di religioso nella nostra impressione, che alzava gli animi. Chiamammo questo sentimento il divino, e intendevamo sotto questa parola tutto ciò che di puro e di grande è nella coscienza. Mi meraviglio come nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, attissima a tener vivo il sentimento religioso, ch’è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato. Staccare l’uomo da sé, e disporlo al sacrificio per tutti gl’ideali umani, la scienza, la libertà, la patria, questo è la morale, questo è la religione, e questo è l'imitazione di Cristo. Le mie impressioni erano vivaci, perché sincere, e partecipate da quella brava gioventù. Io non cercavo le frasi per fare effetto e per eccitare applausi; essi se ne accorgevano, sapevano che a me era più grato il loro raccoglimento che il loro battimano. Volevo la serietà delle impressioni. “Cosa mi fanno i vostri applausi, quando, usciti di qua, non resta che un vaniloquio? No, la scuola dee essere la vita; e quella lezione è bella, che vi avrà resi migliori”. La scuola era il riflesso della mia anima, e rassomigliava più a una chiesa che a un teatro.»

 

Così diceva il più volte ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis[4], con osservazioni che la distanza temporale non ha logorato. In tempi più recenti, nel 2000, un altro ministro della Pubblica Istruzione, Tullio De Mauro, auspicava addirittura che la Bibbia fosse adottata come libro di testo scolastico, sostenendo che «dal punto di vista didattico la Bibbia è una bomba conoscitiva»[5]. Qualche tempo prima Umberto Eco, su un settimanale non di nicchia, si chiedeva: «Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè? Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?»[6].

Eppure, a dispetto di così autorevoli affermazioni, non si può certo dire che nel dibattito culturale contemporaneo e nella prassi scolastica la Bibbia goda di buona salute. Tra la Scilla del fondamentalismo laicistico e la Cariddi del (neo)confessionalismo religioso, si fa ancora molta fatica a rendersi conto che la Bibbia, nella sua peculiarità di testo rivelato (e quindi fondamento della fede individuale e collettiva) e di testo secolare (e quindi fondamento dell’ethos e della cultura occidentali), è prodotto culturale in duplice senso: in quanto è nata in una cultura specifica (semitica ed ellenistico-romana) e in quanto genera cultura[7].

Essa ha dunque rilevanza culturale in quanto testo religioso, ma, proprio in quanto testo religioso, non può sottrarsi ad un approccio culturale. Certo, non può essere ridotta a mero testo culturale, ma è del tutto legittimo un approccio culturale. In questo senso, il rapporto tra fede e cultura non va inteso in senso antitetico, ma complementare: la parola che si fa carne è la grande sfida che bisogna cercare di far comprendere. Dal punto di vista epistemologico bisogna partire da questa peculiarità: nella Bibbia il linguaggio della fede si dice con il linguaggio umano. Questo spiega perché la Bibbia sia anche un grande testo letterario, filosofico e civile e perché come tale vada affrontato.

Torneremo tra poco sullo statuto di «classico» del testo biblico.(g § 2) Per ora basti citare le osservazioni di Roberto Vignolo: «A fronte della Bibbia come Libro della Chiesa, bisognerebbe tematizzare l’attuale precomprensione della Bibbia come classico, ovvero come libro che trascende i confini di una tradizione particolare (di produzione e di fruizione) cui pure resta indissolubilmente legato, in quanto possiede un valore veritativo e un’efficacia universali sempre nuovamente apprezzabili. Interpretare un classico è riconoscere ad un’opera la rivendicazione di verità permanente e pertinente per ogni generazione successiva»[8].

 

[1] Ci serviamo di questo termine per indicare, descrittivamente, l’unità costituita da TaNak e da Antico Nuovo Testamento. Quando il contesto lo richiede useremo un’onomastica più specifica. Ove non diversamente indicato, le citazioni dal testo biblico sono tratte dalla versione Nuova Riveduta (Società Biblica di Ginevra, 2004).

[2] I motivi di tale assenza sono già stati indicati a suo tempo in: AA.VV., Bibbia: il libro assente (a cura del Comitato Bibbia cultura scuola), Marietti, Casale Monferrato 1993.

[3] Promossa da mons. Vincenzo Paglia, presidente della Federazione biblica cattolica, e condotta dal sociologo Luca Diotallevi, l’indagine si è svolta in nove nazioni (Regno Unito, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia europea e Stati Uniti). Cfr. l’esito del sondaggio su www.sanpaolo.org/fc/0818fc/0818fc87.htm (consultato il 20 maggio 2008).

[4] F. De Sanctis, La giovinezza: frammento autobiografico (cap. XXVI “La lirica”), Garzanti, Milano 1981, pp. 192-193. Iniziata nel 1881 (due anni prima della morte), l’opera fu pubblicata postuma nel 1889 da Pasquale Villari.

[5] Intervista a Famiglia cristiana del 10 settembre 2000.

[6] Trattasi di una “Bustina di Minerva” apparsa su L’Espresso del 10 settembre 1989.

[7] Si veda il suggestivo quadro offerto da A. Paul, La Bible et l’Occident. De la bibliothèque d’Alexandrie à la culture européenne, Bayard, Paris 2007.

[8] R. Vignolo, Metodologia, ermeneutica e statuto teologico del testo biblico, in: G. Angelini (a cura), La rivelazione at-testata. La Bibbia tra testo e teologia (Studi in onore del card. Carlo Maria Martini per il 70° compleanno), Editrice Glossa, Milano 1998, pp. 13-37 (la cit. è a p. 30).

 
     

 

2. Lo statuto epistemologico: testo sacro su libro profano

 

 

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