2. Lo statuto epistemologico: testo sacro su libro profano

 
 

2.1. La Bibbia come testo ispirato

Trattare la Bibbia come un testo letterario è legittimo a patto che non si dimentichi la sua natura di testo religioso, un dato di fatto che non basta presupporre e poi consegnare all’irrilevanza, ma che bisogna tener ben presente in sede esegetica ed ermeneutica[1]. Se è vero infatti che ogni libro della Bibbia (e la Bibbia nella sua pluralità testuale: g § 3.1) è un testo letterario, è altrettanto vero che non ogni testo letterario è una Bibbia; certo, anche il testo letterario è frutto di ispirazione e, per certi versi, di rivelazione, ma certamente non avanza, come fa invece la Bibbia, la pretesa di essere testo ispirato e rivelato da Dio.

La Bibbia contiene la Parola di Dio scritta con parole umane. Che significa? Un passo della II Lettera di Pietro può aiutarci a chiarire la questione:

 

Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate (σεσοφισμένοις μύθοις ἐξακολουθήσαντες), ma perché siamo stati testimoni oculari (ἐπόπται) della sua maestà.  (…) Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori.  Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un'interpretazione personale (ἰδίας ἐπιλύσεως);  infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio (ἐλάλησαν ἀπὸ θεοῦ ἄνθρωποι), perché sospinti dallo Spirito Santo (2Pt 1,16-21; corsivi miei).

 

Il brano sottolinea come il processo di scrittura della Scrittura non dipenda da un’iniziativa umana (sebbene la volontà umana non sia annullata), ma da un’iniziativa divina (l’ispirazione è un’esperienza spirituale). Bisogna inoltre considerare che, nella comprensione cristiana, la vera rivelazione non è contenuta in un libro, bensì in una persona: «Dio nessuno l’ha mai visto; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere (ἐξηγήσατο)» (Giovanni 1,18[2]). La Parola infatti non diventa libro, ma «carne», cioè Gesù Cristo (ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν: Giovanni 1,14).

Gli autori dei testi biblici non sono meri esecutori, ma scrittori ispirati di e da una ispirazione; la qualità della loro ispirazione non dipende da un’ascesi intima né da un personale esercizio letterario-filosofico, ma è permeata da una dimensione comunitaria (non a caso gli scrittori biblici sono tutti anonimi, per quanto non privi di personalità: g § 3.2.1)[3]; la materia della loro ispirazione non è l’enthusiasmòs platonico, ma una Parola che li precede, senza tuttavia comprimere loro libertà. Insomma «non sono stati Dio e lo Spirito Santo a scrivere i Libri Sacri. Lo Spirito Santo ha ispirato gli scrittori, non ha fatto loro un dettato. Dio è l’autore delle Sacre Scritture, ma non lo scrittore, il compositore letterario; Dio è “autore” perché ha agito “in” e “attraverso” uomini veri nel pieno possesso delle loro facoltà e capacità, in e attraverso veri autori  umani»[4].

Di tutto ciò bisogna tenere conto e dare conto quando ci si accosta, indipendentemente dalla propria posizione di fede, al testo biblico. Bisogna cioè tener conto del fatto che il criterio dell’ispirazione rivelata (o della rivelazione inspirata) agisce nel testo biblico in tre direzioni:

– in fase di produzione: gli scrittori biblici non parlano di sé, ma di un’esperienza pre-cedente; più che usare delle parole, essi si fanno dire da una Parola;

– in fase di ricezione: la comunità dei credenti legge e prega un testo che la interpella sul piano della fede e sul piano etico;

– in fase di ri-creazione: la comunità ermeneutica universale, in tempi e da punti di partenza diversi, rilegge il testo cogliendone un messaggio che, a sua volta, la ri-crea.

 

2.2. La Bibbia come testo secolare

Poste queste premesse, è possibile considerare la Bibbia un libro “aperto”? L’opzione di fede costituisce una precondizione necessaria e imprescindibile non tanto alla lettura, ma all’intima comprensione del testo? Insomma, la Bibbia è un libro sigillato che solo un’opzione di fede è in grado di dissigillare?

L’obiezione non è né peregrina né confessionalistica, ma assai pertinente. La riformulo prendendo a prestito le parole di Giuseppe Ruggieri: «le scritture sono nate come espressione di un’esperienza credente, di apertura di alcuni uomini ad un’ir­ruzione interpretata come ingresso di Dio stesso nella loro storia. La Bibbia contiene cioè un’interpretazione umana, ma credente, dell’evento della parola, come parola che non appartiene ultimamente all'uomo. I non credenti hanno certamente il diritto di astrarre da questa pretesa; hanno persino il diritto di considerarla un’illusione. Conseguentemente tratteranno la Bibbia come qualsiasi altro documento letterario. Ma come faranno a cogliere l’esperienza originaria senza riviverla, senza rivisitare interior­mente l’esperienza che ha permesso la produzione di quel testo particolare? Questa infatti è un’esperienza propria al credente. Non è quindi legittimo dire che le scritture costituiscono un libro sigillato, che solo la fede speri­mentata ha la possibilità di aprire? La pretesa dogmatica di fare della scrittura un libro comprensibile solo all’interno della comunità credente non ha quindi nulla di autoritario. Essa traduce semplicemente la logica del testo sacro, nella sua specificità»[5].

Per molti secoli (e in buona parte anche oggi, come pure in futuro) nell’ecumene cristiana (quindi nell’Occidente europeo) la Bibbia ha avuto come sua naturale cornice di fruizione la pietà privata e il culto pubblico (le assemblee liturgiche): qui essa è stata detta (cantata, proclamata, rappresentata), ma ci si è anche fatti dire (cantare, proclamare, rappresentare) da essa. Lo sconvolgimento della Riforma protestante, con la sua polarizzazione geografica (paesi latini vs paesi del centro-nord Europa), ecclesiale (monolitismo cattolico vs particolarismo protestante), ermeneutica (autorità magisteriale vs libero esame), ha determinato un rimescolamento della fruizione biblica.

Si è verificato insomma una sorta di sganciamento tra l’ambito religioso-liturgico e l’ambito secolare-culturale. Sequestrata dall’autorità ecclesiastica dopo il Concilio di Trento[6], la Bibbia, come un anguilla sfuggente, è uscita dalle barriere confessionali e dai recinti della religione per diventare (ma forse sarebbe meglio dire ridiventare) testo del saeculum. Essa viene ridetta non soltanto dalla e per la assemblea liturgica, ma anche dalla e per la comunità secolare, indipendentemente da presupposti o da finalità credenti. La nascita del metodo storico-critico applicato allo studio della Bibbia e la questione del Gesù storico sono le punte più evidenti di questo cambiamento di ricezione.

Il processo di deconfessionalizzazione della Bibbia non ha certo neutralizzato la sua peculiarità di testo rivelato, ma ha reso possibile quell’approccio culturale che valorizza la sua dimensione di “classico”. Che la Bibbia abbia avuto enormi influssi sulla cultura occidentale nelle sue varie articolazioni è affermazione su cui tutti (o quasi) concordano. Tuttavia, spesso ci si limita ad un discorso a valle, dimenticando ciò che c’è a monte; ci si limita, cioè, a considerare gli effetti dimenticando le cause; e ciò dipende, a mio parere, dal fatto che, mentre gli effetti sono “laici” (quindi di tutti), le cause sono “religiose” (quindi di qualcuno). Un approccio laico, non-credente, o non-credente in prima istanza, alla Bibbia sarebbe monco se dimenticasse che la sorgente da cui nasce il fiume è costituita da acqua religiosa: relegare tale aspetto ad un ambito confessionale sarebbe una limitazione ermeneutica. Non si può, insomma, dimenticare che la Bibbia è sì un classico del pensiero e un classico della letteratura, ma anche, e in prima istanza, un classico della fede (essa è il racconto di un’esperienza credente). Se così non fosse, la censura culturale sarebbe analoga alla censura ecclesiastica di controriformistica memoria.

La Bibbia dunque «è un classico nella sua qualità di testo imprescindibile per la nostra cultura. In parole più disadorne, si potrebbe affermare che è uno di quei libri che ogni persona è tenuta a conoscere. I classici sono infatti libri dotati di una forza obbligante nei confronti del lettore»[7].

 

2.3. Bibbia come testo narrativo

«Nel principio Dio creò i cieli e la terra» (בְּרֵאשִׁ֖ית בָּרָ֣א אֱלֹהִ֑ים אֵ֥ת הַשָּׁמַ֖יִם וְאֵ֥ת הָאָֽרֶץ: Genesi 1,1). Cos’è questo attacco ex abrupto se non il corrispettivo del «C’era una volta…»? Cos’è la Bibbia se non una grande narrazione che parte da un incipit protologico per giungere ad un excipit escatologico (il fine inscritto nell’inizio)? Detto in termini più semplici: cos’è la Bibbia se non la grande narrazione di ciò che Dio ha fatto per un popolo (piccolo, ostinato e malandato) e che progetta di fare per l’intera umanità?

È quindi un dato di fatto che nella Bibbia la rivelazione si dice con il linguaggio e con le risorse espressive della narratività. Se la Bibbia ha generato molteplici effetti (g§ 4.2) è proprio perché essa è un testo narrativo: è il suo status di testo narrativo a consentire le riletture, interne ed esterne. Torneremo più avanti sulle caratteristiche della narratività biblica (g § 3.2.3). Per adesso ci limiteremo ad una osservazione di carattere generale sul perché la Bibbia sia fatta, direi “impastata”, di narrazione.

Chi comincia a leggere l’inizio del libro della Genesi / Bereshit non può che porsi una domanda: come è possibile che il narratore racconti un fatto (la creazione) cui non può aver assistito? Come è possibile che egli possa addirittura assumere il punto di vista di Dio (il narratore vede che Dio vede che quanto ha creato è buono: Gen 1,3 e passim)? Come può una narrazione così pertinente essere svolta da un narratore tanto impertinente? In termini puramente narratologici, si potrebbe rispondere che siamo di fronte ad un «narratore onnisciente». Si tratta di una onniscienza letteraria, non certo “teologica”, perché, come fa notare Jean-Pierre Sonnet, «ciò che caratterizza il modello biblico è il fatto che uno dei personaggi messi in scena – il personaggio divino – è la “fonte” della scienza del narratore […] Il mondo del narratore inizia con il gesto creatore di Dio: le prime parole del narratore (“Nel principio…”) sono in stato costrutto[8], unite al verbo (“…del creare…”) di cui Dio è il soggetto (“…di Elohim”)»[9]. C’è come un gioco di specchi e di punti di vista incrociati tra il narratore e Dio: chi narra l’inizio della creazione crea anche l’inizio della narrazione. Dio crea il mondo e crea anche il narratore che narra la creazione; la narrazione della creazione è la creazione della narrazione. E allora la narrazione biblica inizia con un racconto di creazione che a sua volta crea la narrazione stessa. La narrazione comincia con la creazione e la creazione dà vita alla narrazione.

Insomma, il narratore di Gen 1«ci racconta avvenimenti ai quali nessuno ha assistito, e tuttavia li racconta con autorità. L’autorità deriva dalla sua posizione di narratore. In altri passi il narratore può, se lo desidera, guardare cosa accade nel consiglio celeste, o nel­la mente dei personaggi e dello stesso Dio, o nella profondità del loro cuore: poco tempo dopo l’inizio del più grande progetto della sto­ria, “il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo”, come è scritto in Gen 6,6. Il narratore lo sa perché lo sa, e lo sa perché lo dice, e forse lo sa soltanto nel momento in cui lo dice; non occorre considerare tale affermazione “storicamente affidabile” e supporre che, in precedenza, lo Spirito Santo abbia fatto una telefonata allo scrittore»[10].

Questa è la magia della narrazione! Il narratore ha dei poteri straordinari: nella narrazione, egli rende normale ciò che nella quotidiana non è affatto normale[11]. Non è forse ciò che Dio fa nella storia? E la Bibbia non è forse la narrazione dell’esperienza di un Dio che «non teme di avere delle storie con degli esseri umani»[12]?

 

[1] «La legittima opzione di interpretare la Bibbia secondo le modalità riservate ad ogni altro testo letterario non può prescindere dal prendere atto che, se non ci fosse stata la tradizione ad accogliere e trasmettere questi scritti come sacri, essi non sarebbero mai giunto a noi o, quanto meno, avrebbero avuto influssi di gran lunga inferiori a quelli effettivamente esercitati» (P. Stefani, La radice biblica. La Bibbia e i suoi influssi sulla cultura occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 10).

[2] Traduzione mia.

[3] Tale dinamica è chiarissima nei Vangeli, i quali sono la rilettura corale dell’evento Cristo a partire dalle specifiche esigenze delle comunità al cui interno sono sorti; e il fatto che siano quattro lo dimostra in modo lampante.

[4] V. Mannucci, Il mistero delle Scritture, in: R. Fabris (ed.), Introduzione generale alla Bibbia, (LOGOS, Corso di studi biblici, 1), Elledici, Leumann (To) 20062, p. 408. «Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e impiegò uomini in possesso delle loro facoltà e capacità, e agì in essi e per mezzo di essi, affinché scrivessero come veri autori tutte le cose e soltanto quelle che egli voleva» (Costituzione dogmatica Dei Verbum n. 11 [18 novembre 1965], in: A. Filippi - E. Lora [curr.], Enchiridion Biblicum, n. 686, EDB, Bologna 1993).

[5] G. Ruggeri (cur.), La Bibbia libro di tutti?, (Quaderni di Synaxis 17), Giunti, Firenze 2004, p. 65.

[6] Cfr. gli studi di Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo: la censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura, 1471-1605, Il Mulino, Bologna 2003; Proibito capire: la Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2005.

[7] P. Stefani, «La Bibbia. Un classico presente e dimenticato», in: Nuova Secondaria XXIV-6 (2007), p. 26.

[8] Con lo stato costrutto, la lingua ebraica (che non conosce i casi) esprime una relazione di possesso o di appartenenza tra due parole (corrisponde grosso modo al genitivo).

[9] J.-P. Sonnet, Narration biblique et (post)modernité, in: D. Marguerat (cur.), La Bible en récit. L’exégèse biblique à l’heure du lecteur. Colloque international d’analyse narrative des texts de la Bible, Lausanne (mars 2002), («Le monde de la Bible», 48), Labor et Fides, Genève 2003, pp. 253-263 (la cit. è a p. 258).

[10] J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico: guida pratica alla narrativa biblica, EDB, Bologna 2003, p. 60.

[11] Come è noto, la tradizione ebraica attribuisce a Mosè i cinque libri della Torah (Pentateuco). La logica razionale respinge immediatamente tale attribuzione perché Mosè non può certo aver raccontato la propria morte (Deuteronomio 34,1-12); per la logica “narrativa” invece ciò non costituisce affatto un problema, come non costituisce problema la narrazione del bereshit senza testimoni.

[12] E. Parmentier, Dieu a des histoires. La dimension théologique de la narrativité, in: D. Marguerat (cur.), La Bible en récit…, cit., pp. 112-119 (la cit. è a p. 119).

 
     
 

3. Entrare nella Bibbia: forma e contenuto

 

 

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