4. Uscire dalla Bibbia

 
 

4.1. La Scrittura come ri-scrittura

Partendo dall’osservazione di Piero Boitani secondo cui «la letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita»[1], è di notevole interesse mostrare come la Bibbia sia giunta noi non come scrittura ma come ri-scrittura, non come «parola prima», ma come «parola seconda» (deuteros-logos)[2]. Questo dipende da un motivo esterno, di carattere storico-redazionale, ma anche da un motivo interno, di carattere teologico.

a. In ordine al primo, sappiamo che la Bibbia ebraica, come i poemi omerici, prima di essere parola scritta è tradizione orale; la redazione della tradizione orale è stata un’opera collettiva di cui non possiamo tracciare una cronologia precisa. Possiamo però dire che l’Antico Testamento è stato prima parlato, poi scritto e poi riscritto, e riscritto a partire dall’evento chiave costituito dall’esilio in Babilonia (586), il ritorno (538) e la ricostruzione del Tempio (520-515). Il ritorno e la ricostruzione costituiscono il momento a partire dal quale si rileggono, e quindi si riscrivono, tutti i “movimenti” precedenti (il viaggio di Abramo, quello di Giuseppe in Egitto, l’esodo del popolo). Si potrebbe dire che i movimenti di andata e ritorno del popolo corrispondono alle due fasi della scrittura e della successiva riscrittura.

b. In ordine al secondo motivo, se si prendono in considerazione le tre parti che compongono la TaNaK, si scopre che la prima parte (Tôrâ) termina con il libro del «Deutero-nomio»[3], la seconda (Nebî’îm), al cui centro c’è un invito a tornare alla Legge e a rinnovare il patto, ha il suo culmine nel «Deutero-Isaia»[4], mentre nella terza parte (Ketûbîm) i primi nove capitoli del libro dei Proverbi presentano un genere letterario molto simile al Deuteronomio che ha spinto qualcuno a parlare di «Deutero-Sofia»[5]. Deutero-nomio, Deutero-Isaia, Deutero-Sofia: sono queste le tre “cerniere” della Bibbia ebraica.

Si può quindi dire che il principio generatore del testo (e la sua direzione) è la deuterosi[6] o, per meglio dire, la ricapitolazione[7], che è ben diverso da ripetizione. In sostanza, il testo non avanza in modo rettilineo, né dal punto di vista della cronologia né da quello del contenuto, ma ritorna indietro; anzi, avanza tornando indietro, per cui la scrittura altro non è che una riscrittura[8].

I tre testi costituiscono il punto prospettico da cui si parte per ri-scrivere ciò che precede; ciò che precede è stato in realtà scritto dopo (ri-scritto): il Deuteronomio riprende e ricapitola la Tôrâ, il DeuteroIsaia riprende e ricapitola i Nebî’îm, Proverbi 1-9 riprende e ricapitola i Ketûbîm, così come il Nuovo Testamento riprende e ricapitola l’Antico Testamento (il libro dell’Apocalisse è la ri-scrittura della creazione di Genesi 1-3: si parla infatti di «cieli nuovi e terra nuova»)[9]. Il principio di fondo che governa il tutto è che il futuro è la chiave interpretativa del passato: ciò che viene dopo dice la verità sul passato, è l’esperienza posteriore che consente di rileggere l’esperienza precedente (passata)[10].

Questo spiega perché una delle risorse letterarie più evidenti nel testo biblico sia l’intertestualità[11]. La Bibbia non è soltanto un lungo dialogo tra Dio e l’essere umano, ma anche un insieme di testi che dialogano tra loro. In effetti, l’intertestualità non è altro che un dialogo tra testi: può essere interna, quando i vari testi che formano un testo dialogano tra loro (sono gli effetti del testo sul testo), oppure esterna, quando il testo dialoga con altri testi, letterari o di altro tipo (sono gli effetti del testo su altri testi, cioè la Wirkungsgeschichte).

 

4.2. La storia degli effetti (Wirkungsgeschichte)

Proprio in quanto testo narrativo e in quanto testo che si rilegge (intertestualità interna) e si fa rileggere (intertestualità esterna), la Bibbia ha dato origine ad un’ampia storia degli effetti. Non è questa la sede per un elenco puntuale[12]. Ci si limiterà ad alcune osservazioni.

a. Anzitutto, un paradosso. La parola di Dio non resta sospesa nei cieli, ma si incarna in un libro, in una lingua, in una cultura. In un certo senso, si relativizza, fa i conti con un limite. Si tratta, a ben vedere, dello stesso processo di abbassamento (kénosis) di Cristo magistralmente descritto dalla lettera ai Filippesi 2, 6-11[13]. Eppure, a dispetto della sua povertà, la parola biblica ha continuato e continuerà a sprigionare scintille di senso. Si potrebbe dire che, una volta messa per scritto (cioè diventata sarx, carne) la parola (logos) muore[14], ma rinasce nelle riletture.

b. La storia degli effetti (Wirkungsgeschichte o Rezeptionsgeschichte, “storia della ricezione”) del testo biblico dipende dalla conformazione canonica della Bibbia, peraltro strettamente legata alla dimensione narrativa del testo. Come dice P. Stefani, «si comprende facilmente l’importanza dell’assetto canonico se si imbocca la via comparativa: a una diversa organizzazione canonica corrisponde una differente “storia degli effetti”. Si pensi al Corano. Di certo i suoi influssi sui comportamenti quotidiani di moltitudini di persone, sul diritto, ma anche sulla filosofia o l’arte (moschee, arabeschi) sono stati vastissimi; tuttavia in quel mondo è impensabile trarre dal Corano una sacra rappresentazione, o musicarlo, o metterlo in poesia, o assumerlo come motivo ispiratore di un romanzo, possibilità tutte ampiamente documentate nel caso della Bibbia. Una ragione profonda di tale diversità sta nel fatto che il canone biblico, a differenza di quello cranico, è organizzato in modo narrativo. La Scrittura intesa come grande racconto  ha consentito, o addirittura favorito, il trascriverla in altri linguaggi: letterari, musicali, pittorici, scultorei, teatrali, filmici e via dicendo. In base a questa esemplificazione risulta perciò evidente che tutti i libri sacri danno luogo a una “storia degli effetti”; questi ultimi però differiscono tra di loro, oltre che per i diversi contenuti, anche per il modo in cui i testi sacri organizzazione la loro struttura formale»[15].

c. Il pittore elevetico-tedesco Paul Klee (1879-1940) scriveva che «l’arte non ripete le cose visibili ma rende visibile ciò che spesso non lo è»[16]. Questa frase ben si presta ad illustrare il principio di fondo che anima le riletture del testo biblico. Spesso infatti la rilettura artistica della Bibbia si pone come una vera e propria impresa ermeneutica, capace di far sprigionare dal testo sensi che talvolta neppure l’esegesi scientifica riesce a cogliere. L’artista può essere, a tutti gli effetti, un/una esegeta.

Bisogna poi tener presente che esistono diverse tipologie di riletture. Sulla scorta delle considerazioni di Gianfranco Ravasi, si potrebbero individuare almeno tre modelli:

  il modello reintepretativo o attualizzante: «si assume il testo o il simbolo biblico e lo si rilegge e incarna all’interno di coordinate storico-culturali nuove e diverse. Pensiamo alla figura di Giobbe che, dopo esser divenuta per secoli un’immagine del Cristo paziente nell’arte sacra – come nella Meditazione sulla Passione o nel Compianto sul Cristo morto del Carpaccio – si trasforma in un segno personale nella Ripresa di Kierkegaard: in Giobbe il filosofo danese legge la sua esperienza infranta di amore e il tentativo di recuperarla dal passato a opera di Dio»;

  il modello degenerativo: «il testo sacro si trasforma in un pretesto per parlare d’altro (allegoria) o persino per ribaltarne il senso originario»;

  il modello trasfigurativo: «l’arte riesce spesso a far vibrare le risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, a far germogliare potenzialità che l’esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora»[17].

 

4.3. I motivi fondamentali della Bibbia

S’è detto sopra che la Bibbia è un libro che ha una storia (la storia del testo) e che ha generato storia (il testo nella storia). Considerata senza pregiudizi e senza riduzionismi (confessionalistici e laicistici che siano), la Bibbia è effettivamente una grammatica dell’esistenza; lungi dall’essere un manuale di etica e di pietà, essa contiene un ampio repertorio di archetipi culturali e antropologici, delle vere e proprie forme della storia e dell’esserci della storia. I personaggi della Bibbia non sono modelli di una morale ideale e olimpica, ma dei tipi etici multiformi che non nascondono le proprie debolezze, i propri limiti, le proprie contraddizioni. Pensare che la Bibbia sia un libro edificante significa snaturarla: non esiste moralismo nei racconti biblici, ma la consapevolezza della problematicità dell’esistenza.

I due assi portanti della Bibbia sono la fede nel Dio unico (monoteismo) e la fede nel redentore. Queste due dimensioni dell’esistere, a prima vista irrilevanti al di fuori di un ambito credente, non vengono affrontate secondo definizioni dogmatico-teologico, ma sono calate in una dimensione narrativa che evidenzia il loro “passaggio” attraverso l’umano. Ciò significa che la fede nel Dio unico e nel redentore viene declinata secondo una dimensione di polisemia esistenziale. Da qui la presenza di alcuni motivi elementari che interpellano l’essere umano in quanto tale perché costituiscono, per così dire, il suo patrimonio antropologico universale.

L’esegeta tedesco Gerd Theissen, a cui rimando per un ulteriore approfondimento[18], le ha così riassunte.

    Il motivo della creazione: «consente di percepire il mondo sullo sfondo del possibile non essere. Niente va da sé, nemmeno il semplice esistere. (…) Poiché intende il mistero dell’essere come creazione, la Bibbia induce a trasformare questo essere interpellati in ringraziamento, nel ringraziamento per ogni giorno di vita. Se lo stupore per l’esistenza del mondo e dell’io si muta in ringraziamento, un dato apparentemente “banale” diventa un significativo dato fondamentale della vita».

    Il motivo della sapienza: «esso fa sì che l’uomo si interroghi su un ordine nascosto del reale che favorisce la vita. Si possono accogliere come ovvie le strutture ordinate del reale, le si può anche fare oggetto di stupore e lasciarsi indurre a cercare le strutture di un ordine ulteriore – anche contro le apparenze. (…) Tutto ciò, naturalmente, a qualcuno può non dire assolutamente nulla, ma può anche indurre a una elementare ammissione di senso e al riconoscimento dell’obbligo che ne deriva di rispettare quest’ordine sentito come significativo».

    Il motivo del miracolo: «fa considerare la realtà nella prospettiva dell’imprevisto: nulla è così totalmente definito che gli avvenimenti debbano cedere senza alcuna sorpresa. A questo scopo non è necessario ritenere che siano possibili interruzioni nelle leggi naturali, ma col motivo del miracolo ci è fatta la promessa che i desideri umani non sono in partenza affatto improbabili».

    Il motivo dello straniamento: «è un elementare motivo di vita che ci consente di riconoscere di essere lontani dalla vita quale dovrebbe essere (..) Un elementare sentimento di straniamento può accompagnare tutta la vita; tutti sono ben lontani da quel che dovrebbero essere e per questo sono ben lontani da Dio».

    Il motivo della speranza: «malgrado la smentita di ogni speranza utopica in una grande svolta verso il bene, noi continuiamo ad avanzare progetti di pace con la natura e tra gli uomini, di un mondo in cui la sicurezza, il nutrimento e la giustizia siano beni disponibili in ugual misura per tutti».

    Il motivo della conversione: «è uno dei motivi più positivi che possa animare una vita. Esso suona: per quanto tu possa continuare a fallire, potrai sempre ricominciare. Le persone non sono legate per sempre al loro errore, non necessariamente finiscono nell’abisso, possono convertirsi. Sono nate per rinascere».

    Il motivo dell’esodo: questo motivo «continua ancora nel mondo moderno a spingere all’abbandono di forme di vita ereditate per progettarne altre alternative (…) La spinta emancipatrice si arena quando non si sa da che cosa e verso che cosa ci si debba emancipare. L’umanità è più povera quando non conosce più simili movimenti di rottura. Resta valida per ogni tempo la consapevolezza elementare di una rottura, che consente di presagire e cogliere nel presente i segni di un mondo nuovo».

    Il motivo del dimorare: questo motivo «rivaluta la realtà sensibile e corporea intorno a noi e in noi, prestando anche al mendicante e al fallito una dignità. (…) La capacità di vivere nella realtà più che la semplice realtà sensibile accompagna tutta la vita come elementare vivere in profondità – come un vivere più intensamente la realtà con una dimensione profonda sempre presente».

    Il motivo della fede: «è una motivazione al vivere che si fonda su ciò di cui non si può disporre. Questa fiducia è paragonabile alla fiducia in una persona. Contiene sempre un “rischio”. Quando si concede la propria fiducia a una persona non si può essere certi in precedenza».

Il motivo dell’agape: «tutto ciò che ha un volto umano può anche venirci incontro in modo ostile, ma non c’è nemico che non possa trasformarsi in compagno. Tutto ciò che ha un volto umano può venirci incontro come pena accumulata e sollecitarci a sollevare questa pena. C’è una solidarietà elementare»[19].

 

[1] P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, Laterza, Roma-Bari 2007, p. xii.

[2] Non a caso la Tôrâ, e quindi l’intera Bibbia, inizia con la parole berē’šyt bārā’ ‘ĕlhōym (בְּרֵאשִׁית, בָּרָא אֱלֹהִים), con il raddoppiamento della bet (seconda lettera dell’alfabeto ebraico), mentre la alef (prima lettera) non compare perché appartiene a Dio, tanto è vero che si tratta di una lettera «muta».

[3] Non si tratta, come lascerebbe intendere il titolo greco (mentre il titolo ebraico è Haddevarîm, «le parole») di una seconda legge che si aggiungerebbe alla prima, ma di una ripresa che serve a ribadire il valore della legge. Come suggerisce P. Beauchamp, il Deuteronomio è come il pollice sulle altre quattro dita quando la mano è chiusa.

[4] Si tratta dei capp. 40-55 del libro di Isaia.

[5] Così la chiama P. Beauchamp.

[6] Il neologismo è stato coniato da P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento, I, Cap. IV, «Il Libro»; cfr. anche P. Bovati, «Deuterosi e compimento», in Teologia 27 (2002), pp. 20-34.

[7] Il termine indica etimologicamente il riavvolgimento del rotolo intorno all’umbilicus per tornare al caput. Cfr. G. Borgonovo, Primo Testamento, in: F. Manzi, AsSaggi biblici…, cit., pp. 110-114.

[8] Visto che il testo era scritto su rotolo di papiro, potremmo dire che lo svolgimento del rotolo corrisponde alla scrittura, mentre il riavvolgimento corrisponde alla riscrittura.  

[9] «La ricapitolazione, più che essere un momento finale, è, propriamente, il momento in cui si genera il punto prospettico da cui si legge tutto quanto è accaduto prima, in vista del futuro del testo. Ovvero: da una parte, la ricapitolazione chiude tutto quanto è stato già prodotto sino a quel momento; dall’altra, apre a una nuova comprensione derivante dal nuovo “baricentro” che essa stessa offre per le riflessioni future» (G. Borgonovo, Primo Testamento…, cit., p. 110).

[10] Si trova qui la stessa dinamica presente nelle Confessioni di Agostino, nella Comedìa dantesca e nel Canzoniere del Petrarca.

[11] Cfr. R. Meynet, Leggere la Bibbia. Un’introduzione all’esegesi, EDB, Bologna 2004, pp. 179-196.

[12] Si vedano i numerosi esempi sviluppati da B. Salvarani, A scuola con la Bibbia. Dal libro assente al libro ritrovato, EMI, Bologna 2001 e da P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[13] «[Cristo Gesù], pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso (ekènosen), prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;  trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.  Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,  affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,  e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre»

[14] Come dice Faust, «das Wort erstirbt schon in der Feder», «la parola muore già sotto la penna» (J.W. Goethe, Faust, Studierzimmer).

[15] P. Stefani, La Bibbia, cit., pp. 82-83.

[16] P. Klee, Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano, 2004, p. 13.

[17] Le citazioni sono tratte da G. Ravasi, «L’incandescenza della Parola che crea», in: L’Osservatore Romano del 17 febbraio 2008.

[18] G. Theissen, Motivare alla Bibbia…, cit., pp. 123-153.

[19] Tutte le citazioni sono tratte da G. Theissen, Ibidem (corsivi dell’Autore).

 
     
 

5.1. La didattica narrativa della Bibbia: obiettivi

 

 

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