3.2. Entrare nella Bibbia: strategie di scrittura

 
 

3.2. Strategie di scrittura

3.2.1. Autorialità e autorevolezza

Da diversi anni ormai, la narratologia[1] ci ha fornito le chiavi per entrare nel complesso mondo del testo narrativo, in particolare del rapporto tra autore reale e autore implicito, da un parte, e narratore e narratario, dall’altra; e da anni, la narratologia è entrata a pieno titolo nei metodi esegetici applicati alla Bibbia[2].

In un percorso didattico è significativo affrontare, come si fa con altri testi letterari, le strategie comunicative del testo biblico, senza dimenticare le sue specificità. Le riassumo qui brevemente.

a. Se è possibile scrivere una biografia di Alessandro Manzoni o di Italo Svevo[3] (autori reali), altrettanto non si può fare per gli autori dei testi biblici (anche di quelli il cui nome compare all’inizio del testo). Se nel primo caso l’autore reale (la personalità storica) può essere confrontato con l’autore implicito (la personalità letteraria), nel secondo caso l’operazione non è possibile, dal momento che la personalità letteraria ha inglobato in sé la personalità storica.

b. Si potrebbe obiettare che una situazione analoga caratterizza i poemi omerici: ad Omero sono stati attribuiti l’Iliade e l’Odissea, ma della sua figura storica non sappiamo praticamente nulla. E tuttavia, ancora oggi si parla di “poemi omerici”, mentre nessuno parla, a proposito, per esempio, della Torah / Pentateuco di “racconti mosaici”. La maggior parte dei narratori biblici sono quindi anonimi (nel senso che non hanno nome), anche se la loro narrazione è tutt’altro che anonima (nel senso che non è priva di personalità). Quando si parla di «libro di Giosuè», «libro di Giobbe» o «libro di Ester», il di è complemento di argomento (libro che parla di…), non una attribuzione autoriale (libro scritto da…). Bisognerà attendere scritti più tardi per vedere un narratore non anonimo (cfr. in particolare Esdra e Neemia).

c. Già dal 1750, con Jean Astruc, si fa strada la convinzione che i primi due capitoli del libro della Genesi/Bereshit sono provenienti da due fonti (Urkunde): elohista e jawista. Da questo momento la critica del Pentateuco è diventata una bandiera dell’esegesi e la cosiddetta ipotesi documentaria, da allora fino agli anni Settanta del XX sec., è stata un dogma esegetico[4]. In sostanza, si sostiene che il Pentateuco sia il frutto di un lavoro redazionale derivante dall’assemblaggio di diverse tradizioni o fonti o documenti, con evidente svalutazione dell’autore finale[5]. Merito del metodo storico-critico è stato di aver chiarito che la Bibbia è frutto di un lavoro compositivo durato diverse generazioni che raccoglie materiale tradizionale molto antico. Al di là della distinzione tra «autore», «redattore», «editore», «compilatore», a noi qui interessa sottolineare come la lunga sezione della Bibbia che va dal Pentateuco (Torah) ai libri storici (Profeti anteriori) sia il risultato di una pluralità di voci narrative, indipendentemente dalla presenza di un compilatore finale. Come dice Jean-Louis Ska, «i testi del Pentateuco e dei libri storici sono dei plurali irriducibili»[6].

d. Sempre Ska fa notare come l’anonimato dei narratori biblici avvicini quest’ultimi ai narratori dei racconti popolari[7], ma anche ai narratori dell’epopee dell’antica Grecia: «come i narratori dell’antica Grecia, i narratori biblici sono per la maggior parte dei portavoce della tradizione del loro popolo. Non sono gli autori di queste tradizioni e fanno di tutto per nascondersi dietro ad esse. Non  cercano neppure di informarci su ciò che si è svolto come fanno gli storici, non cercano di essere originali e creativi come gli scrittori di ogni tempo, ma vogliono fornire le versioni migliori e più essenziali della tradizione viva di Israele, quelle che consentiranno al popolo di sopravvivere a tutti i rovesci della sua storia»[8].

L’autorialità della Bibbia è dunque diversa da quella di altri testi narrativi: il narratore biblico è anonimo, plurale e voce collettiva. Tale autorialità non intacca affatto l’autorevolezza della narrazione. Si potrebbe dire che la Bibbia, anche solo da un punto di vista narrativo, è testo autorevole perché narrata da una voce narrativamente autorevole; infatti «in religione e in teologia gli esseri mortali, compresi gli scrittori, sono soggetti a Dio, poiché l’uomo è stato creato da Dio. Ma (…) quando si tratta di raccontare una storia, la situazione è radicalmente diversa. Nei testi narrativi Dio è un personaggio, cioè una creazione di colui che scrive e racconta. Dio è una costruzione linguistica, Abramo è uno strumento linguistico, Davide è un ritratto che consiste esclusivamente in segni linguistici. Dio può agire soltanto se l’autore è disposto a parlarci di lui. È l’autore a decidere se Dio ha il permesso di dire qualcosa nel racconto e, in tal caso, con quale frequenza e quantità di parole. Considerato in questo modo, Dio non è diverso da un asino. In un racconto anche un asino può parlare, addirittura in modo tale da far arrossire di vergogna una persona importante – si legga il racconto di Balaam e la sua asina in Numeri 22-23»[9].

 

3.2.2. La retorica biblica e i generi letterari

Sebbene anonimi, gli autori biblici non difettano di abilità narrativa; sebbene non ricca come il greco e il latino, la lingua ebraica dispone di risorse retoriche che andrebbero valorizzate per scoprire che la retorica biblica non ha nulla da invidiare a quella greco-latina.

Certo, lo scoglio principale è costituito dalla lingua: in ambito scolastico non si può certo pretendere di leggere i testi in lingua originale (ma, in un liceo classico, il greco dei LXX e del Nuovo Testamento non dovrebbe costituire un problema). Tuttavia, partendo da una buona traduzione (e magari proponendo traduzioni diverse), è possibile far apprezzare alcune particolarità della retorica biblica. Rimando alla trattazione specifica per i dettagli  (www.bicudi.net/materiali/retorica.htm).

Oltre che deposito di temi e di motivi letterari[10], la Bibbia è anche un serbatoio di generi letterari. I principali macrogeneri possono essere così sintetizzati:

il genere storico: esistono nella Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) narrazioni propriamente storiche: la sezione Giosuè / Giudici / 1-2 Samuele / 1-2 Re / 1-2 Cronache / 1-2 Maccabei (deuterocanonci), i Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Si tratta di testi nei quali i dati storiografici trovano conferma (parziale o totale) nelle fonti extrabibliche. Ci sono poi narrazioni in cui la storia è presente sottoforma di mera cornice piegata a finalità essenzialmente teologiche (non si può certo parlare di “romanzi storici” nel caso di testi come il libro di Ester, di Giuditta e di Tobia). I racconti dei patriarchi (e delle matriarche) presenti nel libro della Genesi appartengono invece al genere delle saghe.

il genere profetico: nell’ottica biblica il profeta è colui che, dopo aver ricevuto una chiamata divina, indirizza, sia pure riluttante, un’esortazione morale (l’oracolo) a precisi destinatari, singoli o collettivi. Oltre che nei libri profetici propriamente detti, il genere dell’oracolo è presente anche in altri libri (non a caso, la seconda parte della TaNaK si chiama “profeti anteriori”). Nel Nuovo Testamento il genere profetico viene recuperato nelle sezioni parenetiche (= esortative) delle epistole.

il genere sapienziale: si tratta di un vero e proprio macrogenere, al cui interno si possono individuare generi più specifici, quali il poema amoroso (Cantico dei cantici), la riflessione teologica e/o filosofica (Giobbe e Qohelet), raccolte di massime (Proverbi), raccolte di preghiere (Salmi).

  il genere apocalittico: è forse il genere più tipico della Bibbia, presente sia nell’Antico (Daniele e certe parti di Ezechiele) sia nel Nuovo Testamento (Apocalisse). Si tratta, come noto, di un genere caratterizzato da un linguaggio fortemente simbolico che pone non pochi problemi di interpretazione. Vanno comunque precisate due cose: anzitutto, bisogna distinguere tra genere letterario apocalittico e corrente di pensiero apocalittico[11]; in secondo luogo, bisogna ricordare che il termine apocalisse significa «rivelazione»: non è un elenco di sventure, ma una rilettura in chiave teologica della storia umana (non a caso, come il discorso profetico, l’apocalisse non fa riferimento tanto al futuro quanto al presente).

 il genere legislativo: tipico della Torah, questo genere include i testi (o le sezioni) normativi in ambito sociale e/o religioso (cfr. in particolare il libro del Levitico).

 

3.2.3. La narratività

Come altri testi, la Bibbia può essere accostata secondo una prospettiva diacronica (la storia del testo, il suo passato) o secondo una prospettiva sincronica (il testo come si presenta, il suo presente). Nessuno nega l’importanza e i meriti che ha avuto l’approccio storico-critico. Tuttavia, la Bibbia non è soltanto un insieme di testi di cui ricostruire la storia genetica, ma anche una biblioteca narrativa che chiede lettori sempre nuovi.

Da questo punto di vista, si potrebbe dire che la Bibbia è la narrazione di una alterità che entra nel mondo. In questa definizione ci sono tre elementi che meritano di essere sottolineati:

1. a differenza della filosofa, che è l’assoluto di un idea, la Bibbia è l’assoluto di una relazione, cioè narrazione di un’esperienza che diventa esperienza della narrazione;

2. l’esperienza oggetto della narrazione è l’incontro con una alterità, con l’Altro (Dio) e con l’altro (gli esseri umani), una alterità che non si dice nelle forme dell’estraneità, ma della prossimità (sia pure “altra”);

3. tale narrazione dell’alterità entra nel mondo, cioè si incontra con la cultura “profana” come unico spazio che dà luogo all’incontro; è quindi racconto nella e della cultura (da qui le riletture culturali del testo biblico).

Che la narratività costituisca l’essenza stessa della Bibbia si potrebbe dimostrare con molti esempi. Ne fornisco solo uno. Chi legge il Vangelo di Tommaso[12] rimane stupito dal fatto che esso contiene molti detti (loghia) di Gesù che si ritrovano nei sinottici. Perché allora Marco, Matteo e Luca sono entrati a far parte del canone, mentre il Vangelo di Tommaso è stato considerato apocrifo? Eppure, il suo carattere oggettivo, quasi da verbale, lo farebbe apparire come più “veritiero”. Prima di scomodare presunti complotti da parte della chiesa delle origini, sarà bene riflettere sul fatto che questo vangelo è del tutto privo di narrazione, cioè manca di qualsiasi mediazione narrativa, di qualsiasi punto di vista (oltre che di peculiarità retoriche). Per quale motivo la chiesa delle origini ha preferito accogliere nel canone quattro vangeli (pur tra loro discordanti) se non perché la narrazione è il modo più efficace e più “vero” (è la verità della finzione) per ridire l’esperienza di un incontro significativo?

Tutto questo per dire che la Bibbia, parafrasando Pirandello, è un testo in cerca non di autore, ma di lettore (come Dio è in cerca dell’essere umano). È proprio su questo punto che la narratologia applicata alla Bibbia (o analisi narrativa) può offrire squarci di notevole interesse e porsi come prospettiva didatticamente stimolante (g §  5.3.3).

 

[1] Una buona introduzione in H. Grosser, Narrativa, Principato, Milano 1985. Per la bibliografia specifica, rimando a J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico…, cit., pp. 220-222.

[2] Per un primo approccio, cfr. D. Marguerat – Y. Bourquin, Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all’analisi narrativa, Borla, Roma 2001 (or. franc. 1998, 20022).

[3] Il caso di Svevo è tanto più interessante in quanto egli stesso ha scritto il proprio Profilo autobiografico (1928) che si rivela una preziosa risorsa per comprendere meglio il corpus narrativo. Analogo discorso vale, per esempio, anche per Umberto Saba.

[4] Cfr. Hans-Joachim Kraus, L'Antico Testamento nella ricerca storico-critica dalla Riforma ad oggi, Il Mulino, Bologna 1975. Per una sintetica panoramica dei metodi storico-critici, cfr. H. Simian-Yofre, Diacronia: i metodi storico-critici, in: Id. (cur.), Metodologia dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 1994, pp. 79-119.

[5] È chiara la dipendenza dall’ermeneutica romantica, in particolare dal mito genetico (tanto più si riesce a spiegare la genesi di un testo tanto più lo si comprende) e dallo psicologismo dell’autore (tendenza a far coincidere il testo con la psicologia dell’autore).

[6] J.-L. Ska, Un narrateur ou des narrateurs?, in: D. Marguerat (cur.), La Bible en récit…, cit., pp. 264-275 (la cit. è a p. 271).

[7] Il rapporto tra narratori e compilatore finale è della stessa natura del rapporto tra i fratelli Grimm e la raccolta delle loro fiabe.

[8] J.-L. Ska, Un narrateur ou des narrateurs?…, cit., p. 274.

[9] J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico…, cit., pp. 62-63.

[10] Cfr. L. Ryken – J.C. Wilhoit – T. Longman (edd.), Le immagini della Bibbia: simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, (ed. it. a cura di M. Zappella), San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, s.v. «Motivi letterari».

[11] Cfr. F. Manzi (cur.), AsSaggi biblici. Introduzione alla Bibbia anima della teologia, Àncora, Milano 2006, pp. 119-138.

[12] Cfr. N. Perrin, Tommaso, l’altro vangelo, Queriniana, Brescia 2008.

 
     
 

3. Entrare nella BIbbia: strategie di lettura

 

 

index