3. Entrare nella Bibbia: forma e contenuto

 
 

Non ci si può nascondere dietro un dito: per la sua storia, il suo contenuto, la sua forma, la sua lingua la Bibbia è un libro difficile. Per certi tratti, anche molto difficile. Arrendersi di fronte a questa constatazione o, peggio ancora, ignorarla è il modo migliore per condannare il testo bilico all’insignificanza o all’archeologia culturale. Prima ancora di poter disporre di materiali didattici adeguati, bisogna assumere consapevolezza del fatto che la conoscenza della Bibbia non risponde a criteri di stravaganza o di confessionalità identitaria, ma ha valore culturale.

Altra caratteristica della Bibbia, nella sua dimensione di classico, è di aver subíto l’effetto della storia e, contemporaneamente, di aver prodotto degli effetti nella storia (g § 4.2). Una «didattica aperta», cioè culturale, della Bibbia in ambito scolastico sarebbe monca, e quindi poco seria, se puntasse dritta agli “effetti” del testo (Wirkungsgeschichte) senza aver prima preso in considerazione le “cause” (Grundgeschichte). Detto in altri termini: gli effetti culturali della Bibbia sono di fondamentale importanza (e, sia detto per inciso, anche più accattivanti dal punto di vista didattico), ma si deve anche presentare la Bibbia nella sua dimensione di testo, bisogna sapere qual è la sua forma canonica, il suo sviluppo nel tempo, i generi letterari che la compongono, la lingua in cui è scritta, le traduzioni che ne sono state fatte, le tradizioni di lettura e di interpretazione, le questioni storico-critiche.

Si tratta insomma di un discorso pre-liminare che, se qualche decennio fa poteva essere presupposto come sapere condiviso, oggi non è più prerequisito ma un obiettivo da raggiungere. Se una volta infatti la Bibbia agiva sotto traccia nella cultura popolare, anche solo sottoforma di proverbi e modi dire[1], oggi è venuta meno una conoscenza condivisa, direi “pubblica”, del testo biblico (il fenomeno non è solo nostrano, ma abbraccia buona parte dell’Europa)[2].

Si forniscono qui alcune indicazioni di un possibile percorso introduttivo che potrà essere ampliato e ristretto a seconda delle concrete esigenze didattiche.

 

3.1. Forma e contenuto

Entrare, materialmente, nella Bibbia significa prendere e far prendere coscienza di come è fatta e di cosa contiene, partendo del presupposto che la Bibbia è un testo che fa della pluralità il suo elemento cardine. Si può quindi parlare di pluralismo onomastico, pluralismo canonico e pluralismo linguistico.

 

3.1.1. La biblioteca: il nome e la cosa

Il primo aspetto da sottolineare è il pluralismo onomastico, da intendersi non come pedantesco nominalismo, ma come tratto dirimente dell’approccio. Passare in rassegna i nomi della Bibbia significa gettare luce sull’inafferrabile densità dell’oggetto. Ogni nome infatti dice molto ma non tutto; scegliere un nome piuttosto che un altro non è mai un’operazione innocente, visto che presuppone una precomprensione. L’importante è esserne consapevoli.

Il termine più comune Bibbia (dal greco tà biblìa, «i libri») già segnala il passaggio dal plurale al singolare: tramite la mediazione latina, infatti, l’originario plurale (non “libro”, ma “insieme di libri”) è diventato un singolare (la Bibbia come libro per eccellenza). Ciò ha fatto perdere, almeno nella percezione comune, l’idea che la Bibbia è, oltre che un insieme di testi, un testo dalla duplice appartenenza, ebraica e cristiana.

In ambito ebraico, più che Bibbia, si preferiscono termini più specifici:

 («lettura») sottolinea la dimensione uditiva più che visiva del testo biblico e la sua proclamazione pubblica in sinagoga (cfr. per esempio Neemia 8,1-8);

sifrè ha-qodesh (letteralmente «libri di santità») sottolinea la natura divinamente ispirata del testo biblico;

  TaNaK è l’acronimo delle tre parti in cui è divisa la Bibbia ebraica: Tôrâ (primi 5 libri), Nebî’îm (profeti), Ketûbîm (scritti). Molto usato anche il termine Tôrâ she-biktav («torah scritta»).

Normalmente, e correttamente, si usa distinguere tra Bibbia ebraica (la TaNaK) e Bibbia cristiana (Antico e Nuovo Testamento). Tuttavia, anche questa terminologia non è esente da problemi, dal momento che la Bibbia cristiana comprende (e non solo sul versante dei libri, ma soprattutto sul versante ermeneutico) anche quella ebraica, mentre lo stesso non si può dire per quest’ultima. La Bibbia ebraica (TaNaK) è anche cristiana (Antico Testamento), mentre la Bibbia cristiana (Antico e Nuovo Testamento) non può essere anche ebraica.

Ormai decaduto (anche se qualcuno lo usa ancora) l’aggettivo Vecchio, in ambito cristiano si utilizzano le forme Antico Testamento e Nuovo Testamento. In tempi recenti, sta prendendo piede, al posto di Antico, la definizione Primo Testamento, a sottolineare il suo carattere fondativo e il suo primato cronologico. Il problema è che, per logica, si dovrebbe parlare di Secondo Testamento, cosa che risulterebbe piuttosto curiosa.

Sempre in ambito cristiano bisogna anche sottolineare che esistono tre Bibbie: quella cattolica, quella ortodossa e quella protestante. Non si tratta ovviamente di tre libri diversi, ma (come vedremo subito: g § 3.1.2) di tre diverse disposizioni dei vari libri (quindi sarebbe più corretto parlare di canone cattolico, canone ortodosso, canone protestante).

Tenendo quindi conto dei problemi legati alla terminologia, sarebbe bene usare la definizione di TaNaK (o Bibbia ebraica) quando ci si riferisce ai libri biblici letti, interpretati e proclamati all’interno dell’ebraismo, e la definizione di Bibbia cristiana (insieme di Antico/Primo e Nuovo Testamento) quando ci si riferisce ai libri letti, interpretati e proclamati all’interno del cristianesimo (al di là delle differenze confessionali).

 

3.1.2. Il canone

Il secondo aspetto è il pluralismo canonico. Come la pluralità onomastica, anche quella canonica va presentata non come uno sterile elenco di libri, ma come un esempio molto eloquente di quel particolare aspetto della fenomenologia religiosa che è il rapporto tra storia e rivelazione.

Lo riassumo con le parole di Piero Stefani: «Nella scienza delle religioni vi è un detto che recita così: “il canone ricapitola il sistema”. In seno a una determinata tradizione religiosa la definizione completa e immodificabile di quali siano i testi sacri è operazione conclusiva che ha luogo solo quando il sistema è “ben formato”, vale a dire ha definito le regole fonda­mentali in relazione alla liturgia, al luogo di culto, alla gerarchia, alla prassi, alle norme della fede e così via, dando origine a un insieme coerente. Alle spalle della definizione del corpus dei libri sacri vi sono perciò processi lunghi e complessi di cui la formula­zione di un canone rappresenta il punto di arrivo. Questo esito è però valutato in modo diverso a seconda dell’approccio adottato. La ricerca storica lo intende come una conclusione non prefissata e legata a componenti anche occasionali (per esempio il fatto che alcuni scritti, a differenza di altri, non siano andati smarriti). La comprensione delle ortodossie religiose insiste invece sul fatto che quella definizione rappresenta lo scopo, previsto fin dal principio, della comparsa di quella serie di libri. Per gli uni il canone è considerato un prodotto storico, per gli altri è il sigillo della rivelazione comunicata da Dio agli uomini. In altre parole, per chi crede nell’origine divina di determinati libri non è la canonizzazione a fornire a essi lo statuto di rivelazione, questo processo si limita a riconoscere e a rendere inequivocabile la loro natura originaria»[3].

All’interno poi del discorso sulla canonizzazione dei libri biblici, non sarà fuori luogo far notare come il problema del canone investa anche l’ambito letterario[4].

 

3.1.3. Le lingue

Il terzo aspetto è il pluralismo linguistico. La Bibbia ebraica è scritta in ebraico (tranne alcune parti in aramaico[5]). Non bisogna però dimenticare che la lingua della Bibbia ebraica è anche il greco (si parla infatti di Bibbia greca). Mi riferisco ovviamente alla cosiddetta traduzione dei LXX, la quale non è stata mera trascondificazione, ma anche e soprattutto una grande operazione ermeneutica[6], senza dimenticare le antiche traduzioni/parafrasi in aramaico[7]. È a tutti noto infatti che parlare e scrivere in una determinata lingua significa assumere gli schemi mentali che quella lingua veicola: il codice-lingua coincide con il codice-cultura.

Se non ci fosse stata la LXX, non ci sarebbe stato il Nuovo Testamento (interamente scritto in greco), visto che i suoi “autori” scrivono in un greco che dipende, teologicamente e linguisticamente, dal greco dei LXX. Le «Sacre Scritture» dei primi cristiani non erano il Testo Masoretico, ma la traduzione dei LXX.

Nel pluralismo linguistico della Bibbia va compreso anche il fenomeno delle traduzioni, da quella latina di Girolamo (la Vulgata, preceduta dalla Vetus latina) a quelle nelle lingue moderne. In un contesto scolastico, bisognerà valorizzare la rilevanza culturale e linguistica di queste traduzioni che sono veri e propri capolavori letterari, oltre che religiosi (si pensi alla traduzione tedesca di Lutero, alla King James Version e, nel caso italiano, a quella di Giovanni Diodati[8]).


 

[1] Cfr. G.L. Beccaria, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell'italiano e nei dialetti, Garzanti, Milano 2002.

[2] E gli Stati Uniti, una delle nazioni più religiose al mondo, non stanno meglio, come dimostra il recente studio di S. Prothero, Religious Literacy. What Every American Needs to Know And Doesn't, Harper, San Francisco 2007, con tanto di quiz on line per testare le proprie conoscenze bibliche.

[3] P. Stefani, La Bibbia («Farsi un’idea» 100), Il Mulino, Bologna 2004, pp. 22-23 (corsivi miei).

[4] Cfr. in particolare gli studi sul canone letterario di Harold Bloom (Il Canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Bompiani, Milano 1996) e, per quanto concerne l’ambito italiano, di Romano Luperini (Canone del Novecento, in: www.miserabili.com/2004/05/04/romano_luperini_canone_del_nov.html, consultato il 30 maggio 2008). «Il canone sintetizza in se stesso la serie di atti grazie ai quali una comunità religiosa stabilisce in modo non riformabile il numero dei libri che considera rivelati (…) Si potrebbe dunque affermare che un sistema religioso definisce quali siano i libri rivelati, mentre uno culturale determina quali siano i testi classici. In entrambi gli ambiti ciò comporta l’esistenza di un canone; nel primo caso si tratta di una realtà precisa e vincolante, nel secondo di una componente allusiva» (P. Stefani, «La Bibbia. Un classico … », cit., p. 27).

[5] Trattasi, per la precisione, di due parole in Genesi (31,47), un versetto in Geremia (10,11), parti del libro di Daniele (2,46-7,52) e di Esdra (4,8-6,18; 7,12-26).

[6] Cfr. N. Fernández Marcos, La Bibbia dei Settanta. Introduzione alle versioni greche della Bibbia, Paideia, Brescia 2000.

[7] Cfr. S. P. Carbone - G. Rizzi, Le Scritture ai tempi di Gesù; Introduzione alla LXX e alle antiche versioni aramaiche, EDB, Bologna 1992.

[8] La Sacra Bibbia tradotta in lingua italiana e commentata da Giovanni Diodati, a cura di M. Ranchetti e M. Ventura Avanzinelli, 3 voll., A. Mondadori, Milano 1999.

 

 
     
 

3. Entrare nella BIbbia: strategie di scrittura

 

 

index