Le soprese dell'intertestaulità: la Scrittura come scrittura

 


 

di Luciano Zappella
 

"Un libro sacro si conquista di per sé il più grande rispetto presso coloro che non lo leggono affatto" (Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione,(1794)

 

 
Preludio: lo statuto del testo
a. Luoghi comuni: la Bibbia è un testo sacro, non ha rilevanza didattica, è una, è priva di spessore letterario, l’ermeneutica biblica presuppone la fede, Bibbia e scuola pubblica sono incompatibili.
 
b. Lo statuto del testo
La Bibbia è caratterizzata da un doppio statuto: è contemporaneamente testo rivelato (e quindi fondamento della fede individuale e collettiva) e testo secolare (fondamento dell’ethos e della cultura occidentali). È proprio in questa situazione interstiziale che si dovrebbe collocare un approccio aperto (diciamo pure laico) alla Bibbia in grado di superare un duplice riduzionismo: quello confessionalistico, per cui la Bibbia non può che essere letta in un contesto di fede, e quello laicistico, per cui la Bibbia è culturalmente irrilevante e didatticamente marginale proprio in quanto testo religioso. Detto in altri termini, il timore dei credenti è che un approccio culturale al testo biblico finisca per snaturare la sua specificità (la Bibbia non è uguale all’Odissea!), mentre il timore dei laici è che un approccio credente pregiudichi tout court la valorizzazione culturale del testo (si parla di Dio quindi non ci interessa!).
La Bibbia ha subíto l’effetto della storia e, contemporaneamente, ha prodotto degli effetti nella storia. Un approccio culturale alla Bibbia (per es. in ambito scolastico) sarebbe monco, e quindi poco serio, se puntasse dritto agli “effetti” del testo (Wirkungsgeschichte) senza aver prima preso in considerazione le “cause” (Auslösengeschichte). Detto in altri termini: gli effetti culturali della Bibbia sono di fondamentale importanza, ma si deve parlare anche delle cause, cioè presentare la Bibbia nella sua dimensione di testo, la sua forma canonica, il suo sviluppo nel tempo, i generi letterari che la compongono, la lingua in cui è scritta, le traduzioni che ne sono state fatte, le tradizioni di lettura e di interpretazione, le questioni storico-critiche.
 
c. un tentativo di definizione
Cos’è la Bibbia? la narrazione di una alterità che entra nel mondo.
Narrazione. Alla base della Bibbia c’è una storia realmente accaduta e poi letta e raccontata dalla fede, o c’è invece la personalità dell’autore biblico che scrive quella storia, più o meno immaginandola, per raccontare la sua fede? A questa domanda si può rispondere così: la caratteristica fondamentale della religione ebraica e di quella cristiana è di essere storica, cioè scritta nella storia: la storia d’Israele e quella di Gesù di Nazareth. Alla base della Bibbia ci sono queste due storie. «La Parola è stata fatta carne» (Giovanni 1, 14), non anima, non fede, non pensiero, non idea, non morale, ma «carne», cioè storia. Una storia che poi viene letta e scritta dalla fede. Ma la fede non inventa, bensì attesta. Non è che non ci sarebbe la storia se non ci fosse la fede, ma non ci sarebbe la fede se non ci fosse la storia.
Alterità. «Nel principio Dio creò i cieli e la terra» (Gen 1,1). Cos’è questo attacco ex abrupto se non il corrispettivo del «C’era una volta…»? Cos’è la Bibbia se non una grande narrazione che parte da un incipit protologico per giungere ad un excipit escatologico (il fine inscritto nell’inizio)? Detto in termini più semplici: cos’è la Bibbia se non la grande narrazione di ciò che Dio ha fatto per un popolo (piccolo, ostinato e malandato) e che progetta di fare per l’intera umanità? È quindi un dato di fatto che nella Bibbia la rivelazione si dice con il linguaggio e con le risorse espressive della narratività. Se la Bibbia ha generato molteplici effetti è proprio perché è un testo narrativo: è il suo status di testo narrativo a consentire le riletture, interne ed esterne. La Bibbia è fatta, direi “impastata”, di narrazione.
Mondo. La Bibbia è prodotto culturale in duplice senso: in quanto è nato in una cultura specifica (semitica ed ellenistico-romana) e in quanto genera cultura.
 
d. le dimensioni della lettura biblica
Possiamo articolare il panorama delle letture bibliche secondo uno schema cartesiano, volto solo a suggerire quattro poli di attrazione rilevanti nell’individuare i quadri ermeneutici di lettura. Sulle ordinate, si va dalla fede (F) alla cultura (C); sulle ascisse, si va dalla dimensione ecclesiastica (E) a quella laicale (L). Di qui, quattro tipologie di lettura, ciascuna esemplificata da alcune prospettive:
A)   dimensione ecclesiastica/fede: ambito proprio delle comunità religiose che leggono la Scrittura in vista della propria interpretazione canonica di fede; Magistero della Chiesa, Padri della Chiesa, Giudaismo, comunità religiose (Qumran), sette.
B)    dimensione laicale/fede: ambito del credente che legge la Scrittura in vista della propria esperienza spirituale secondo una prevalente libera interpretazione: singoli credenti o gruppi riformatori o eretici. Non necessariamente tale lettura è eterodossa rispetto a quella magisteriale, di fatto non chiede un imprimatur, vanta una legittimità derivante dallo Spirito che accompagna la comprensione in quanto “appartenenti” alla comunità di fede.
C)    dimensione laicale/cultura: ambito del credente o non credente, a livello individuale o accademico, che avvicina la Bibbia con gli strumenti storici e critico-letterari in vista dei significati culturali (antropologici, filosofici, artistici ecc.) che appartengono alla storia degli effetti.
D)   dimensione ecclesiastica/cultura: ambito dello studio della Bibbia/Scrittura a livello teologico-accademico, in prospettiva di una sua comprensione critica che aumenti l’intelligenza della fede, la scoperta dei significati del testo e della rivelazione che vi è contenuta: spazio dell’esegeta teologo, della accademie rabbiniche o delle facoltà teologiche.
 
 



1. La forma del testo: la biblioteca biblica
 
Diamo ora una rapida occhiata all’intero corpus biblico, prendendo in considerazione le tre forme «canoniche» del testo. È appena il caso di notare il pluralismo: di solito si parla di Bibbia al singolare, mentre sarebbe più corretto parlare di Bibbie, visto che ci si trova di fronte a tre Bibbie (quattro se si considera anche il canone Samaritano). Questo pluralismo testuale, ha un riflesso anche sul piano dell’approccio al testo biblico, il quale può essere accostato come: a. libro di professione di fede (all’interno delle chiese); b. libro di edificazione personale; c. libro di cultura.
 
a. Bibbia Ebraica (TeNaK, secondo il Testo Masoretico):
 
Tôrâ (5 libri)

Nebî’îm (8 libri)

KetûBîm (9 o 11 libri)

1. Berešît [«In principio» – Genesi]
2. Šemôt [«I nomi» – Esodo]
3. Wayyiqrâ [«E chiamò» – Levitico]
4. Bamidbar [«Parlò» – Numeri]
5. Haddevarîm [«Le parole» – Deut.]

Nebî’îm ri’šônîm (anteriori)
6. Yehoshua [Giosuè]
7. Šofetîm [Giudici]
8. Shemuel (1-2) [Samuele]
9. Melakhim (1-2) [Re]
Nebî’îm ’aarônîm (posteriori)
10. Yeshayahu [Isaia]
11. Yirmeyahu [Geremia]
12. Yehezkel [Ezechiele]
13. Profeti minori

14. Tehillîm [Salmi]
15. Mishle [Proverbi]
16. Iyov [Giobbe]
17. Šîr haššîrîm [Cantico dei Cantici]
18. Rut [Rut]
19. ’êkâ [Lamentazioni]
20. Kohelet [Qohelet]
21. Ester [Ester]
22. Daniyel [Daniele]
23. Ezra-Nehemya [Esdra e Neemia]
24. Dibrê hayyāmîm [Cronache]
 
Le tre (numero già di per sé significativo) sezioni sono strettamente legate le une alle altre.
a. La Tôrâ si potrebbe qualificare come un archetipo del passato: si parte dalla vicenda dell’esodo (narrata nella macrosequenza Esodo–Deuteronomio) e la si applica a due orizzonti più ampi: il primo orizzonte (Genesi 12-50) è costituito dalla promessa fatta ai Padri (l’esodo è l’adempimento di un giuramento fatto ai Padri); il secondo orizzonte (Gen 1-11) è il rapporto di Dio con l’umanità.
Ovale: Gen 1-11
 
                        
Questi tre orizzonti (Dio che crea, Dio che promette, Dio che libera) non mirano ad una ricostruzione storica, ma vogliono delineare una sorta di grammatica dell’essere, dell’esserci nella storia: il modo di essere di Dio nella storia e il modo di essere di Israele nella storia.
 
b. I Profeti (Nebî’îm) potrebbero essere definiti l’interpretazione del presente. La profezia non riguarda il domani, ma ciò che Dio sta facendo, la profezia è l’intelligenza (“leggere dentro”) del presente, la capacità di dare forma al presente sulla base di ciò che Dio sta costruendo. Questo spiega perché la profezia accompagna tutta la storia di Israele (fino a Gesù) e il profeta è necessariamente inserito nel suo tempo di cui interpreta i segni. Se dovessimo ridurre all’essenziale il messaggio profetico, potremmo dire che i profeti sono i maestri che hanno insegnato a Israele a vivere il rapporto con Dio in termini di patto (berit). La visione profetica guarda alla storia non solo in riferimento a ciò che è stato (alleanza del Sinai), ma soprattutto ad un nuovo modo di essere (la berit hǎdāšâ, la «nuova alleanza», Geremia 31,31-33).
 
c. I Ketûbîm sono senza tempo, rappresentano sono la contemporaneità. La prospettiva non è più storica, ma sapienziale, riguardano l’essere umano in sé. Giobbe, Qohelet e Cantico, per esempio, rappresentano la triplice dimensione dell’essere umano: l’uomo della sofferenza, l’uomo della gioia, l’uomo dell’amore. Questa contemporaneità guarda ad un progetto di Dio nella storia, un progetto che guarda al futuro a partire dalla condizione di esseri umani. In certo senso, questi testi rappresentano il punto di partenza della considerazione profetica e di quella della Torà: per capire l’archetipo della Torà e la profezia biblica, bisogna partire da questi testi, proprio perché il punto di partenza è l’esperienza.
 
 
b. Bibbia greca (LXX)[1] [in maiuscoletto i libri deuterocanonici]
 
Pentateuco (5 libri)

Libri storici (12 libri)

Libri poetici(7 libri)

Libri profetici (7 libri)

Genesi
Esodo
Levitico
Numeri
Deuteronomio

Giosuè, Giudici, Rut, 1-2 Samuele, 1-2 Re, 1-2 Cronache, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester [greco], 1-2 Maccabei

Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste [=Kohelet], Cantico dei cantici,
Sapienza, Siracide

Isaia, Geremia, Lamentazioni, Lettera di Geremia, Baruc, Ezechiele, Daniele [greco], Profeti minori
 
La prima cosa che si nota è il passaggio da una struttura tripartita ad una quadripartita. Alla base della traduzione dei Settanta c’è l’idea secondo cui la Bibbia è la storia di Israele: abbiamo dunque a che fare con una intenzionale costruzione storiografica, quasi che gli ebrei di lingua greca volessero mostrare ai loro conterranei greci che anch’essi hanno una storia e un’opera storiografica degna di stare accanto a quelle di un Erodoto, di un Tucidide, di un Polibio.
Si parte dalla genesi per arrivare all’oggi. Al Pentateuco («cinque astucci» per contenere i rotoli) seguono i Libri storici: il libro di Rut viene inserito qui in quanto ambientato al tempo dei giudici; 1-2 Cronache (ta paralipomena, «le cose omesse») completano quanto è stato tralasciato; arrivati alla distruzione di Gerusalemme, non può che seguire il rimpatrio, ed ecco quindi i libri di Tobia, Giuditta, Ester e Maccabei (quest'ultimo ambientato durante la dominazione dei Seleucidi in Palestina).
Dopo il passato (la storia), il presente (la filosofia, intesa come insieme di norme per il retto comportamento sociale e religioso). Ecco allora i Libri poetici, cioè i libri in cui viene raccolta la sapienza quotidiana del popolo ebraico.
Dopo il presente, il futuro (i Libri profetici). Evidentemente, in ambito greco, i profeti non potevano che essere assimilati alle sibille e agli oracoli, cioè a un fenomenologia religiosa collegata con la divinazione del futuro. È come se gli ebrei dicessero: non solo voi avete grandi storici, grandi filosofi e grandi oracoli, anche noi li abbiamo.
 
c. Bibbia cristiana (non si tiene conto qui delle differenze tra canone cattolico e protestante)
 
Antico (o Primo) Testamento

Pentateuco (5 libri)

Libri storici (12 libri)

Libri sapienziali(7 libri)

Libri profetici (7 libri)

Genesi
Esodo
Levitico
Numeri
Deuteronomio

Giosuè, Giudici, Rut, 1-2 Samuele, 1-2 Re, 1-2 Cronache, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, 1-2 Maccabei

Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoelet, Cantico dei cantici,
Sapienza, Siracide

Isaia, Geremia, Lamentazioni, Baruc, Ezechiele, Daniele, Profeti minori

Nuovo Testamento

Vangeli (4 libri)

Libri storici (1 libro)

Lettere(21 libri)

Apocalisse (1 libro)

Matteo
Marco
Luca
Giovanni

Atti degli apostoli

Paoline: Romani, 1-2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1 Tessalonicesi, Filemone
Deuteropaoline: Efesini, Colossesi, 2 Tess., 1-2 Timoteo, Tito
Altri autori: Ebrei, Giacomo, 1-2 Pietro, 1-3 Giovanni, Giuda

Apocalisse
 
La Bibbia cristiana è formata da due unità: Antico (o Primo) Testamento e Nuovo Testamento. Per quanto riguarda il Primo Testamento si adotta il canone fissato dalla traduzione dei Settanta: ciò consente di considerare l’Antico Testamento come storia della salvezza che culmina con l’incarnazione di Gesù e la sua messianicità. Oltre a ciò è interessante notare come i primi cristiani abbiano considerato il Nuovo Testamento come la prosecuzione (e la rilettura) del Primo. Le corrispondenze sono evidenti: alla Tôrāh (intesa come fondamento, archê) corrispondono i vangeli; ai libri storici (il passato del popolo di Dio, diventato ekklesia) corrisponderebbero gli Atti degli Apostoli; ai libri sapienziali (il presente vissuto dai credenti) corrispondono le lettere apostoliche; infine, per quanto attiene al futuro, ai libri profetici corrisponde l’Apocalisse di Giovanni.
 



Interludio: Prendete e leggetene tutti
La rivoluzione retorico-narrativa
Negli ultimi decenni, nell’ambito dell’esegesi biblica si è verificato un importante cambiamento di paradigma: dal metodo storico-critico (il perché di un testo) si è passati all’esegesi narrativa (il come di un testo), dall’attenzione posta sull’autore all’attenzione posta sul lettore, dalla diacronia (il passato del testo, la sua storia) alla sincronia (il presente del testo, il testo così com’è).
 
Metodi diacronici

Metodi sincronici

A Critica della costituzione del testo (Literarkritik)
A’ Critica della forma (Formkritik)
B Critica della redazione (Redationkritik)
B’ Critica genere letterario (Gattungkritik)
C Critica della trasmissione (Überlieferungskritik)
C’ Critica delle tradizioni (Traditionktitik)

A Analisi semiotica (strutturalismo) à struttura del testo
Analisi retorica (retorica) à composizione del testo
C Analisi narrativa (narratologia) à lettura del testo
D Analisi ermeneutica (ermeneutica) à intenzione del testo
 
Nessuno mette in discussione la grande importanza che ha avuto il metodo storico-critico. Esso ha contribuito in modo decisivo a desacralizzare il testo biblico, liberandolo dal letteralismo e dal dogmatismo ecclesiastico. Nessuno più pensa, per esempio, che la Tôrāh sia stata scritta da Mosè o che la Lettera gli Ebrei (che poi non è una lettera ma una predicazione) sia stata scritta da Paolo e che i vangeli siano una biografia di Gesù. Il problema principale è che la raffinatezza delle analisi è indirettamente proporzionale alla debolezza dei risultati. «Il teologo tedesco Ernst Fuchs, per illustrare il rischio che vede l’esegeta spiegare il testo ma non essere in grado di comprenderne il significato per l’oggi, paragona la scienza biblica a un veterinario che cominciasse con l’uccisione della mucca per poter dire di cosa soffre» (Y. Redalié, Lo studio della Bibbia: quali approcci?, in: G. Platone [a cura], La Bibbia e l’Italia, Claudiana, Torino 2004, p. 82).
 
La narratività rivisitata
Nel 1981 Robert Alter pubblica L’arte della narrativa biblica (tr. it. Queriniana, Brescia 1990), prima monografia che affronta la narratività biblica come un fenomeno letterario.
Su impulso di Alter nasce il narrative criticism (analisi narrativa). Questa corrente non inventa nulla. Riscopre, grazie agli strumenti plasmati in vista di questo scopo, di cosa si compone l’arte millenaria del raccontare. Ciò è costitutivo della tradizione biblica, della fede di Israele come della fede dei primi cristiani: Israele, e poi i primi cristiani, hanno formulato la propria identità con il racconto. È questo processo di memoria narrativa, continuamente ripreso nella riformulazione dei racconti e nella riscrittura «midrashica», che ha consento alla fede ebraica, e poi a quella cristiana, di ricordare gli eventi fondatori del passato.
Questo ricordo non fa sorgere un passato morto: esso stabilisce la valenza teologica degli eventi passati per comprendere il presente. Ricordare l’Esodo celebra la memoria del Dio a cui Israele deve la sua esistenza. Fare racconto della vita di Gesù consente di identificare il Cristo che la comunità prega e che crede presente. Insomma, per Israele come per la Chiesa, la narratività è il vettore letterario del messaggio salvifico. È anche la mediazione dell’identità credente: dirsi il passato significa dire ciò che il passato ha fatto di noi. Raccontare significa dirsi.
La narratività biblica ha una dimensione teologica; la narrazione non è soltanto un rivestimento del messaggio. Se gli ebrei e i cristiani raccontano delle storie è perché credono in un Dio che si rivela nella storia. Raccontare delle storie è fare memoria di ciò che è avvenuto nella storia. Il racconto è il testimone obbligato di un Dio che si fa conoscere nello spessore di una storia di uomini e di donne, una storia vissuta. Ecco perché la salvezza si dirà in una storia: il racconto è il veicolo privilegiato dell’incarnazione.
I motivi letterari: il monomito
Prima di prendere in considerazione gli stilemi tipici della retorica biblica, vale la pena dire qualcosa sui motivi letterari presenti nel testo biblico. Come succede in tanti testi letterari, anche nella Bibbia è possibile rintracciare un paradigma di base intorno a cui si organizzano i vari motivi letterari.

Vi è un movimento verso il basso, dalla prosperità alla perdita (tragedia), e un movimento verso l’alto, dalla schiavitù alla prosperità (commedia).

a. Nella sua struttura di fondo, la tragedia è la storia di una caduta. Al centro della vicenda c’è un singolo (l’eroe tragico), di elevato grado sociale, in funzione esemplare. La sua colpa, consapevole o meno, lo rende non solo responsabile, ma anche meritevole della propria caduta, tanto che la vicenda termina con la morte dell’eroe, nella sua funzione di capro espiatorio.
In ambito biblico, le vicende propriamente tragiche sono una continua variazione sul tema della disobbedienza a Dio. Fin dall’inizio (Genesi 3) c’è un racconto di “delitto e castigo”. Ugualmente tragica è la vicenda di Sansone (Giudici 13-16). Ma la tragedia per eccellenza è quella che vede coinvolto Saul (1 Samuele 13-31): il suo tentativo di consolidare la leadership fallisce miseramente.
Un caso particolare è rappresentato da Gesù. La vicenda che lo vede protagonista ha tutti i connotati del “tragico”, ma con una differenza fondamentale (e fondante): la sua non è la morte del colpevole (non è cioè un «capro espiatorio»), ma dell’innocente. Con la sua morte, Gesù rompe il meccanismo del «capro espiatorio» e smonta l’equazione sacro = violenza.
Bisogna tuttavia notare che nella Bibbia l’esito tragico è quasi sempre solo potenziale, tanto che si potrebbe parlare di «tragedie evitate»: a differenza dell’eroe greco, quello biblico riconosce i suoi limiti e accetta il perdono di Dio (esemplare da questo punto di vista la vicenda del peccato di Davide con Betsabea).
 
b. Ciò spiega perché la forma narrativa per eccellenza della Bibbia è la commedia. Mentre la tragedia è la storia di una caduta, la commedia è la storia di un lieto fine, che si raggiunge dopo aver superato una serie più o meno complessa di ostacoli. Mentre la conclusione della tragedia è la morte o la menomazione fisica dell’eroe, la conclusione della commedia è un matrimonio, una festa o un trionfo. Si può quindi dire che al commedia abbia una tipica struttura a U.
Un tipico esempio di struttura a U della commedia è la vicenda di Rut: dalla situazione iniziale (la morte del marito, figlio di Noemi), si passa attraverso l’ostacolo (Boaz non può sposare Rut), per giungere al matrimonio e alla nascita del figlio Obed[2].
Anche nel racconto popolare di Ester ci sono tutti gli ingredienti della trama «comica»: una bella donna, l’amore “romantico”, intrighi e congiure, banchetti, un harem (sembra di leggere una favola de Le mille e una notte). Alla congiura di Aman della prima parte fa seguito la controcongiura organizzata da Ester e Mardocheo (suo padre adottivo) nella seconda parte.
Analogamente «comici» sono che i racconti relativi alla promessa di un figlio da parte di Abramo e Sara, la saga di Giuseppe, nonché la parabola del figlio prodigo. Ma, a ben guardare, anche le storie di Giobbe e di Gesù sono anch’esse racconti con un lieto fine, nonostante la parte consistente di tragedia e sofferenza che li caratterizza.
La cosa interessante è che la struttura «comica» caratterizza la struttura stessa della Bibbia: si comincia con l’eden, immagine di un mondo perfetto abitato da persone perfette; si scade nella disperazione dell’umanità soggetta al peccato e si conclude con un nuovo mondo di totale felicità e vittoria sul male. Il libro dell’Apocalisse è la storia del lieto fine per eccellenza, in cui un eroe conquistatore sconfigge il male (Satana), si sposa (le nozze dell’Agnello) e poi vive felice per sempre in un palazzo risplendente di gioielli (la nuova Gerusalemme).



 
2. La scrittura del testo: la retorica biblica
 
Una delle acquisizioni più importanti del cambiamento di paradigma di cui si è parlato sopra è stata di mettere in luce che:
a. i testi biblici non sono semplicemente l’esito di un montaggio (la redazione), ma sono composti e composti bene; se la prima impressione è quella di essere di fronte a testi ripetitivi, frammentari, a volte anche confusi, è perché ci si accosta ai testi con una precomprensione che potremmo definire “occidentale”, mentre ci vorrebbe un approccio “semitico”;
b. bisogna fidarsi dei testi così come sono, senza smontarli in mille pezzi;
c. esiste una retorica specificamente biblica, che riguarda non soltanto l’Antico/Primo Testamento (in questo caso si parlerebbe di una retorica ebraica), ma anche al Nuovo, i cui scrittori, anche se scrivono in greco, sono stati anche attenti lettori della Scrittura ebraica assumendone gli stilemi. Spesso si tende a pensare che gli scrittori biblici siano rozzi e poco raffinati, ma questo dipende dalla pigrizia mentale di chi è convinto che esista un solo modello retorico (quello greco-latino).
La caratteristica fondamentale della retorica biblica (e della lingua ebraica) è la concretezza. Del resto, si sa: il Greco dimostra, l’Ebreo mostra, il Greco fa affermazioni, l’Ebreo fa domande. La retorica classica sviluppa un ragionamento astratto, mentre la retorica biblica parte dalla concretezza dell’esistenza.
Come suggerisce R. Meynet[3], le tre risorse tipiche della retorica biblica sono: a. la binarietà e il parallelismo; b. la prevalenza della paratassi; c. la sintassi simmetrica e concentrica.
 
a. la binarietà e il parallelismo
Sono tipiche della lingua ebraica espressioni del tipo: «morire tu morirai» (môt tāmût: Gen 2,17) per «tu certamente morirai», oppure «se ascoltare tu ascolterai» (’im šāmôa‘ tišma‘: Es 15,26) per «se ascolterai veramente»[4]; espressioni come «il cielo e la terra» (šammaim ha-’eretz, Sal 115,15) per indicare la «totalità dello spazio» oppure «piccoli e grandi» (ketannim ha_gedolim) per indicare «tutti» oppure «il giorno e la notte» (yom wa-allailah, Sal 1,2) per indicare «sempre». A livello testuale, sia in prosa sia in poesia, ciò dà vita al fenomeno della binarietà e del parallelismo.
 
Deuteronomio 28,1-6: 1Ora dunque se ascoltare tu ascolterai la voce del Signore tuo Dio per conservare per fare tutti questi comandamenti che io ti comando oggi, il Signore tuo Dio ti innalzerà al di sopra di tutte le nazioni della terra. 2Verranno su di te tutte le benedizioni che ecco ti attendono perché tu avrai obbedito alla voce del Signore tuo Dio. 3Sarai benedetto nella città e sarai benedetto nella campagna. 4Benedetti saranno il frutto delle tue viscere, il frutto del tuo suolo, il frutto del tuo bestiame, il parto delle tue mucche e la crescita delle tue pecore. 5Benedetti saranno il tuo paniere e la tua madia. 6Benedette saranno le tue entrate e benedette saranno le tue uscite.
 
In questo esempio, tratto dal Salmo 114,3-6, si nota come la binarietà venga raddoppiata:
 
+ Il-mare                   vide                            e-si-ritrasse
+ il-Giordano                        si-volse                        indietro
. i-monti                 saltellarono            come-arieti
. le-colline                                      come agnelli
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+ Cos’hai tu,              mare                           per fuggire
+ Giordano                per-volgerti                   indietro
. monti                   per saltellare           come-arieti
. colline                                                     come agnelli?
 
La binarietà non riguarda soltanto alcuni passi, ma si ritrova sia all’interno dello stesso testo (i due racconti della creazione di Gen 1-2; i due sogni di Giuseppe di Gen 40-41 [la vita e i canestri; le spighe e le vacche]; diversi Salmi che sono testi gemelli[5]) sia tra vari testi (il doppio decalogo di Es 20 e Deut 5; i due racconti della nascita in Mt e Lc, come pure le due versioni delle Beatitudini e del Padre Nostro). La binarietà è strettamente legata al fenomeno della ri-scrittura di cui parleremo più avanti.
 
b. la prevalenza della paratassi
A differenza della sintassi greco-latina in cui prevale l’ipotassi, quella biblica preferisce la paratassi. Sembrerebbe che questa modalità sia una rinuncia ai nessi logici. In realtà anche questo stilema risponde alla logica della lingua ebraica che non subordina, ma giustappone.
 
c. la sintassi simmetrica e concentrica
Anche qui si nota la differenza fondamentale tra la retorica greco-latina e quella biblica: nella prima, in genere, si sviluppa un’argomentazione lineare, fatta di premesse, sviluppo e conclusione; nella seconda invece c’è una forma circolare (o involutiva) che ruota intorno ad un perno. In particolare, la retorica ebraica ama molto la simmetria, la quale non è altro che la trascrizione letteraria dell’antropomorfismo fondamentale: mano sinistra e destra. Tale disposizione dà vita al:
parallelismo simmetrico: gli elementi sono ripresi nello stesso ordine: A B C D | A’ B’ C’ D’.
parallelismo concentrico: gli elementi sono ripresi in ordine rovesciato: A B C D | x | D’ C’ B’ A’
 
Esempi di parallelismo simmetrico:
 
Salmo 113,1                          LODATE        servi         DI-YHWH
                                               LODATE        il-nome      DI-YHWH
 
Luca 1,42                               BENEDETTA  tu           tra le       donne
                                               e BENEDETTO il frutto   del tuo   seno
 
Proverbi 20,29                     L’eleganza       DEI-GIOVANI              il-loro-vigore
                                               e l’ornamento DEI-VECCHI       la-(testa)-canuta
 
Il parallelismo concentrico si vede a livello di singole frasi, come si può vedere da questi esempi:
 
– Isaia 6,10: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendigli duri gli orecchi, e chiudigli gli occhi, in modo che non veda con i suoi occhi, non oda con i suoi orecchi, non intenda con il cuore, non si converta e non sia guarito!»
 
a      Ingrassa il       CUORE          di questo popolo
b e i suoi           ORECCHI      appesantisci-li
c e i suoi      occhi              acceca-li
 
c’ che con i suoi occhi       non veda
b’ e con i suoi  ORECCHI      non senta
a’     col suo                        CUORE          non comprenda
 
– Salmo 113,2-3: «Sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre! Dal sol levante fino al ponente sia lodato il nome del Signore.»
a   Sia IL NOME DI YHWH
b benedetto
c    da  ora                 fino a     sempre
c’ dal levante del sole fino al    suo tramonto
b’ lodato
a’       IL NOME DI YHWH
 
 
Salmo67

1Dio abbia pietà di noi e ci benedica, faccia brillare il suo volto su di noi,

2affinché sia nota su la terra la tua strada, presso tutti i pagani la tua salvezza.

3Ti rendano grazie i popoli, Dio! Ti rendano grazie i popoli, tutti!

4giubilino
e cantino          perché tu governi i popoli con rettitudine e le nazioni sulla terra tu le conduci
le nazioni

5Ti rendano grazie i popoli, Dio! Ti rendano grazie i popoli, tutti!

6La terra ha dato il suo frutto: ci benedice Dio nostro Dio

7Ci benedice Dio e lo temono tutti i lontani della terra.
 
Si noti come il testo riproduca la menorah, il candelabro a sette braccia di cui parla Esodo 25,31-40 (= Esodo 37,17-24).
 
– Giovanni 1,1
a all’inizio
b ERA
c      IL VERBO
c’ e IL VERBO
b’ ERA
a’ presso Dio
 
Ma anche a livello di sezioni più ampie:
 
– Luca 18,31-19,45
A PROFEZIA                              18,31-34         (terzo preannuncio della passione)
B narrazione                         18,35-43         (guarigione di un cieco)
C narrazione                   19,1-10                       (conversione di Zaccheo)
PARABOLA          19,11-28         (parabola delle dieci mine)
C’ narrazione                  19,29-36         (ingresso trionfale a Gerusalemme)
B’ narrazione                                    19,37-40         (Gesù acclamato dai discepoli)
A’ PROFEZIA                             19,41-45         (profezia su Gerusalemme)
 
 
L’intera struttura della Tôrâ risponde agli stessi criteri.
 
1) ‘ĕlōhîm (אֱלֹהִים)e l’umanità (Gn 1,1-11,26)
2) ‘el-Šaddaj (אֵל שַׁדָּי) e i padri (Gn 11, 27-50,26)
3) jhwh (יְהוָה) e il popolo (Es-Dt):
A. prologo: nascita di Mosè (Es 1,1-2,25); rivelazione a Mosè (Es 3,1-7,7)
B. l’uscita dall'Egitto (Es 7,8-15,21) (narrazione con alcune leggi: pasqua e primogeniti)
C. il cammino nel deserto (Es 15,22-18,27) (manna e quaglie - istituzione dei giudici)
D. l’alleanza del Sinai (Es 19,1-24,11) (decalogo e «codice dell’alleanza»)
E. leggi sul santuario (Es 24,12-31,18) (sempre al Sinai)

Peccato - castigo - perdono - nuova alleanza (Es 32-34)
(«decalogo cultuale»)
E'. costruzione del santuario (Es 35-40) (sempre al Sinai)
D'. leggi (Lev - Num 1-10) [sui sacrifici (Lev 1-7), sacerdoti (8-10), purità (11-16), «codice di santità» (17-26); varie (Le 27 - Num 1-10)
C'. il cammino nel deserto (Num 11-12) (manna e quaglie - istituzione dei profeti)
B'. i primi approcci alla terra (Num 13-36) (con alcune leggi: sacrifici, sacerdoti, feste, leviti)

Deuteronomio (Deut 1-30)
A'. epilogo: morte di Mosè (Deut 31-34)
 
Nel racconto dell’esodo, il nucleo centrale è il momento sinaitico (Es 32-34), il momento in cui Israele e Adonaj rivelano la propria identità (Es 34,6-7 è la “carta di identità” di Adonaj). Tutto intorno ci sono le leggi. Il libro del Deuteronomio è il punto sorgivo di tutta la tradizione: dal punto di vista letterario è la ricapitolazione della narrazione della Tôrâ; dal punto di vista storico-genetico è la fonte da cui deriva tutta la narrazione.
 



3. La direzione del testo: Scrittura come ri-scrittura
 
Partendo dall’osservazione di Piero Boitani (Prima lezione di letteratura, p. xii) secondo cui «la letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita», vorrei, in questa ultima parte, mostrare come la Bibbia sia giunta noi non come scrittura ma come ri-scrittura, non come «parola prima», ma come «parola seconda» (deuteros-logos).
Questo dipende da un motivo storico-redazionale. La Bibbia ebraica, come i poemi omerici, prima di essere parola scritta è tradizione orale; la redazione della tradizione orale è stata un’opera collettiva di cui non possiamo certo tracciare una cronologia precisa. Possiamo però dire che il Primo Testamento è stato prima parlato, poi scritto e poi riscritto, e riscritto a partire dall’evento chiave costituito dall’esilio in Babilonia (586), il ritorno (538) e la ricostruzione del Tempio (520-515). Il ritorno e la ricostruzione costituiscono il momento a partire dal quale si rileggono, e quindi si riscrivono, tutti i “movimenti” precedenti (il viaggio di Abramo, quello di Giuseppe in Egitto, l’esodo del popolo). Si potrebbe dire che i movimenti di andata e ritorno del popolo corrispondono alle due fasi della scrittura e della successiva riscrittura.
Se ora si prendono in considerazione le tre parti che compongono il TeNaK, si scopre che la prima parte (Tôrâ) termina con il libro del «Deutero-nomio»[6], la seconda (Nebî’îm), al cui centro c’è un invito a tornare alla Legge e a rinnovare il patto, ha il suo culmine nel «Deutero-Isaia» (Is. 40-55), mentre nella terza parte (Ketûbîm) i primi nove capitoli del libro dei Proverbi presentano un genere letterario molto simile al Deuteronomio che ha spinto qualcuno a parlare di «Deutero-Sofia». Deutero-nomio, Deutero-Isaia, Deutero-Sofia: sono queste le tre “cerniere” del Primo Testamento.
Si può quindi dire che il principio generatore del testo (e la sua direzione) è la deuterosi o, per meglio dire, la ricapitolazione[7], che è ben diverso da ripetizione. In sostanza, il testo non avanza in modo rettilineo, né dal punto di vista della cronologia né da quello del contenuto, ma ritorna indietro; anzi, avanza tornando indietro, per cui la scrittura altro non è che una riscrittura[8].
I tre testi costituiscono il punto prospettico da cui si parte per ri-scrivere ciò che precede; ciò che precede è stato in realtà scritto dopo (ri-scritto): il Deuteronomio riprende e ricapitola la Torah, il DeuteroIsaia riprende e ricapitola i Profeti, Proverbi 1-9 riprende e ricapitola gli Scritti, il Nuovo Testamento riprende e ricapitola il Primo Testamento (il libro dell’Apocalisse è la ri-scrittura della creazione di Genesi 1-3: si parla infatti di «cieli nuovi e terra nuova»). Il principio di fondo che governa il tutto è che il futuro è la chiave interpretativa del passato: ciò che viene dopo mi dice la verità sul mio passato, è l’esperienza posteriore che mi consente di rileggere l’esperienza passata[9].
Questo spiega perché una delle risorse letterarie più evidenti nel testo biblico sia l’intertestualità. La Bibbia non è soltanto un lungo dialogo tra Dio e l’essere umano, ma anche un insieme di testi che dialogano tra loro. In effetti, l’intertestualità non è altro che un dialogo tra testi: può essere interna, quando i vari testi che formano un testo dialogano tra loro (sono gli effetti del testo sul testo), oppure esterna, quando il testo dialoga con altri testi, letterari o di altro tipo (sono gli effetti del testo su altri testi, cioè la Wirkungsgeschichte). Ci soffermeremo sul primo aspetto, con alcuni esempi.
 
a. Genealogie. Il Vangelo secondo Matteo (1,1-16) si apre con una pagina apparentemente inutile come la genealogia di Gesù Cristo, divisa in tre momenti (un’allusione alle tre parti della Bibbia ebraica?): da Abramo a Davide, da Davide a Ieconia, da Ieconia a Gesù. Il commento finale è il seguente: «Così, da Abraamo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia, quattordici generazioni; e dalla deportazione in Babilonia fino a Cristo, quattordici generazioni» (v. 17). È noto che il Messia doveva appartenere alla discendenza di Davide, il cui nome ebraico (דָּוִד) è formato da tre vocali il cui valore numerico è 4 (ד), 10 (ו), 4 (ד), per un totale di 14. C’è anche un preciso riferimento a Genesi 1,1-2: curiosamente il v. 1 è formato da sette parole (בְּרֵאשִׁית בָּרָא אֱלֹהִים אֵת הַשָּׁמַיִם וְאֵת הָאָרֶץ), con riferimento ai sette giorni di una creazione tramite la parola, e il v. 2 da 14, il doppio di sette.
 
b. L’inizio. È stato ampiamente notato come il Prologo del Vangelo secondo Giovanni sia una grande rilettura di Genesi 1. Qui vorrei soffermarmi solo su due aspetti. L’incipit del prologo è «in principio era la parola e la parola era presso Dio e Dio era la parola» e termina con «Dio nessuno l’ha mai visto; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, lui l’ha fatto conoscere». Come spesso succede nella Bibbia, anche in questo caso bisogna partire dalla fine: la relazione eterna tra il Figlio e il Padre fa luce sull’inizio. È come se Giovanni volesse mostrare la alef che nella Genesi non c’è[10]. Prima del berē’šyt c’è la relazione eterna tra il Padre e il Figlio, una relazione che viene rivelata dalla vicenda terrena di Gesù. Ne consegue che il vero arché, che supera il berē’šyt, non è la creazione, ma la relazione tra Padre e Figlio[11].
La seconda considerazione riguarda il v. 14: «la parola si è fatta carne e ha piantato la sua tenda fra noi». Giovanni usa l’espressione «ha piantato la sua tenda»; il verbo greco eskēnōsen contiene le stesse consonanti dell’ebraico Šekinâ, la «tenda di convegno», che anticipava, prima dell’insediamento di Israele in Canaan e della costruzione del Tempio, il luogo della presenza di Dio. Giovanni vuole dunque affermare che il luogo della presenza vivente di Dio e del possibile incontro con lui non è più il tempio, ma la figura di Gesù.
 
c. La vocazione. Un motivo molto ricorrente nella Bibbia è la chiamata da parte di Dio. Vediamo due esempi in parallelo[12].
 
Geremia 1,4-10: 4La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: 5«Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni». 6Io risposi: «Ahimé, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». 7Ma il Signore mi disse: «Non dire: "Sono un ragazzo", perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. 8Non li temere, perché io sono con te per liberarti», dice il Signore. 9Poi il Signore stese la mano e mi toccò la bocca; e il Signore mi disse: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca. 10Vedi, io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare».
 
Esodo 3, 7-12: Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. 8Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei, e i Gebusei. 9E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. 10Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele». 11Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall'Egitto i figli d'Israele?» 12E Dio disse: «Va', perché io sarò con te. Questo sarà il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, voi servirete Dio su questo monte».
 
Alla base di questi racconti c’è un modello che costituisce la struttura portante della vocazione profetica; i momenti essenziali sono quattro: 1. la chiamata e la missione; 2. l’obiezione da parte del mandato; 3. l’assicurazione da parte di Dio («io sono con te…»); 4. il segno.
Qui abbiamo un tipico esempio di riscrittura. Anche se Mosè è cronologicamente precedente al Geremia, è l’esperienza profetica il punto di partenza da cui si parte per raccontare la chiamata di Mosè. In questo modo, la figura di Mosè perde contorni storici ma si arricchisce di contorni profetici. Leggendo Mosè si rilegge l’esperienza profetica e scrivendo l’esperienza profetica si riscrive la chiamata di Mosè.
 
d. Il nome di Adonai. Quando Mosè chiede a Dio-Adonai di rivelargli il suo nome, si sente rispondere ‘ehyeh ăšer ‘ehyeh (Es 3,14). Di fatto, si tratta di un non-nome, per sottolineare come il nome di Dio (e quindi Dio) non si possa possedere. Il suo non è un nome idolatrico (non lo si possiede); il suo nome è un esserci, non un entità. La formulazione ‘ehyeh ăšer ‘ehyeh significa «io sono colui che ci sarà», cioè «io sono “ci sarà”». La formula di autopresentazione di Dio è una sorta di teologia del nome e di teologia della storia: Dio è il signore della storia (e la vicenda dell’esodo lo dimostra). Il significato proprio di questa espressione è: «io sono colui che ero, io sono ora, io sono in futuro». Questo l’ho ha capito molto bene l’autore dell’Apocalisse, quando propone una ripresa della forma di autopresentazione divina: «Io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore Dio, colui che è e colui che era e colui che viene» (1,8).
 
e. La riscrittura delle tavole. Si è visto sopra come il nucleo del messaggio profetico è la nuova alleanza[13], un’alleanza scritta non su pietra ma nel cuore. Si tratta insomma di una riscrittura. Sappiamo da Esodo 32-34 e Deuteronomio 9,7-21.10,1-5 che, a seguito dal traviamento del popolo che si è messo ad adorare il vitello d’oro mentre Mosè stava sul monte, Dio riscrive le tavole della legge, dopo che le prime sono state distrutte da Mosè. La riscrittura delle tavole da parte di Dio non è altro che la riscrittura dell’alleanza come nuova alleanza. Il racconto di Es 32-34 è la trascrizione della dinamica istituita dai profeti tra la prima alleanza fallita (“quella che i vostri padri hanno fatto fallire” dice Geremia) e la nuova alleanza. La riscrittura delle tavole non cambia nulla a livello di contenuto, cambia invece la modalità della scrittura: mentre prima era stato Mosè a scrivere (Esodo 24,4), adesso le tavole sono costruite da Mosè, ma la scrittura è quella di Dio.
Al centro sia della prima sia della secondo alleanza ci sono le «dieci parole»[14]: queste parole prima vengono frantumate e poi riprodotte sulle seconde tavole. In Esodo 32,16 si dice: «Le tavole erano opera di Dio e la scrittura era scrittura di Dio scolpita (חָרוּת) sulle tavole». È interessante notare come, a proposito di questo versetto, Rabbi Jehoshua ben Levi dica: «Non leggere hā-rût, “scolpita sulle tavole”, ma hē-rût, “libertà sulle tavole”, perché nessun uomo è libero se non colui che si dedica allo studio della Torah» (Pirqè Avot VI,2). In base a questa lettura la frase suonerebbe: «le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, cioè “libertà” sulle tavole». Qui si vede la dinamica che si istaura tra la prima scrittura, materiale, e la nuova scrittura, la scrittura come libertà del cuore, cioè la libertà stessa, l’unione tra la lettera e lo spirito. L’idea di fondo è che la lettera ha bisogno di diventare spirito.
Il comandamento riscritto è il comandamento della riscrittura. In termini letterari, potremmo dire: soltanto la riscrittura è vera scrittura, come soltanto la rilettura è vera lettura: la prima lettura si ferma alla lettera, mentre la seconda arriva al cuore. Dio si incontra nella scrittura, la Bibbia è Scrittura della riscrittura, per questo Dio si incontra nella Bibbia.



Postludio: quel classico chiamato Bibbia
 
Presente come testo germinativo nella cultura, nell’arte, nelle letterature, nella riflessione filosofica e politica, nelle tradizioni religiose, la Bibbia è però assente dalla prassi scolastica italiana e se ne lamentava già Francesco De Sanctis.
 
«Il primo linguaggio dell’anima fu la lirica. E di qui cominciai il mio corso. La distinsi, secondo il contenuto, in religiosa, eroica ed amorosa. Toccai della lirica greca e romana, riserbando la trattazione a un corso speciale. Mi fermai molto sulla lirica ebraica, esaminando in ispecie il libro di Giobbe, il canto di Mosè dopo il passaggio del mar Rosso, i Salmi di Davide, la Canticadi Salomone, i Canti dei profeti, specialmente d’Isaia. Avevo sete di cose nuove, e quello studio era per me nuovissimo. Non avevo letto mai la Bibbia, e i giovani neppure. Con quella indifferenza mescolata di disprezzo, che allora si sentiva per le cose religiose, la Bibbia, come parola di Dio, moveva il sarcasmo. Nella nostra immaginazione c’erano il catechismo e le preghiere che ci sforzavano a recitare nelle Congregazioni, e la Bibbia entrava nel nostro disgusto di tutti i sacri riti. Lessi non so dove maraviglie di quel libro, come documento di alta eloquenza, e tirato dall’argomento delle mie lezioni, gittai l’occhio sopra il Libro di Giobbe. Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione classica niente comparabile a quella grandezza. (…) Con esagerazione di neofiti, dimenticammo i nostri classici, fino Omero, e per parecchi mesi non si udì altro che Bibbia. Mi meraviglio come nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, attissima a tener vivo il sentimento religioso, ch’è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato» (F. De Sanctis, La giovinezza: frammento autobiografico (cap. XXVI “La lirica”), Garzanti, Milano 1981, pp. 192-193. Iniziata nel 1881, (due anni prima della morte, l’opera fu pubblicata postuma nel 1889 da Pasquale Villari).
 
Più recentemente Umberto Eco, in una settimanale non di nicchia, si chiedeva: «Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè? Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?».
Eppure, si fa ancora molta fatica a rendersi conto che la Bibbia, nella sua peculiarità di testo rivelato (e quindi fondamento della fede individuale e collettiva) e di testo secolare (e quindi fondamento dell’ethos e della cultura occidentali), è prodotto culturale in duplice senso: in quanto è nata in una cultura specifica (semitica ed ellenistico-romana) e in quanto genera cultura.
Essa ha dunque rilevanza culturale in quanto testo religioso, ma, proprio in quanto testo religioso, non può sottrarsi ad un approccio culturale. Certo, non può essere ridotta a mero testo culturale, ma è del tutto legittimo un approccio culturale. In questo senso, il rapporto tra fede e cultura non va inteso in senso antitetico, ma complementare: la parola che si fa carne è la grande sfida che bisogna cercare di far comprendere. Dal punto di vista epistemologico bisogna partire da questa peculiarità: nella Bibbia il linguaggio della fede si dice con il linguaggio umano. Questo spiega perché la Bibbia sia anche un grande testo letterario, filosofico e civile e perché come tale vada affrontato.
Per questo Northrop Frye, sulla scia di William Blake, ha definito la Bibbia «il grande codice»; per questo si trovano affermazioni solo apparentemente sorprendenti, quali: «La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere, così Dante nell’italiano» (Giacomo Leopardi); «Per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Fra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza che c’è tra la patria e la terra straniera» (F. Nietzsche); «Quale libro leggo di più? Non ridete: la Bibbia» (B. Brecht); «Anche se non la leggi, tu sei nella Bibbia» (E. Canetti). In questo senso la Bibbia è un «classico», secondo le penetranti definizioni di I. Calvino: «1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo. 3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. 4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. 5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura. 6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».
Piero Stefani: «La Bibbia è un classico nella sua qualità di testo imprescindibile per la nostra cultura. In parole più disadorne, si potrebbe affermare che è uno di quei libri che ogni persona è tenuta a conoscere. I classici sono infatti libri dotati di una forza obbligante nei confronti del lettore».
Roberto Vignolo: «A fronte della Bibbia come Libro della Chiesa, bisognerebbe tematizzare l’attuale precomprensione della Bibbia come classico, ovvero come libro che trascende i confini di una tradizione particolare (di produzione e di fruizione) cui pure resta indissolubilmente legato, in quanto possiede un valore veritativo e un’efficacia universali sempre nuovamente apprezzabili. Interpretare un classico è riconoscere ad un’opera la rivendicazione di verità permanente e pertinente per ogni generazione successiva».
 
La Bibbia è un classico anche e soprattutto per il suo spessore letterario e la sua assenza dalle aule scolastiche suona sempre più inconcepibile. La Bibbia è il racconto, a posteriori, di un’esperienza significativa, come la letteratura. E, come la letteratura, la Bibbia è una storia che genera altre storie (intertestualità), sia all’interno del testo sia al di fuori di esso.
Se è vero che i motivi fondamentali della letteratura di tutti tempi sono la morte, lo stupore, la compassione e la rinascita[15], allora possiamo dire che la Bibbia è letteratura a tutti gli effetti. Ne consegue che un approccio letterario alla Bibbia non è una riduzione ermeneutica né una concessione alle mode strutturalistico-narratologiche del momento né un modo per renderla più appetibile all’odierno contesto socio-culturale, ma risponde all’essenza stessa del testo biblico. Che piaccia o no, la Bibbia è giunta fino a noi come testo e come testo scritto: la Scrittura è giunta a noi in forma di scrittura.
 



Bibliografia
 
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–––– , (a cura), «Il tesoro nascosto: la Bibbia nella scuola», in: Nuova Secondaria XXIV-6 (2007), pp. 25-43.
Zappella L., «Bibbia e letteratura: l’arte della narrativa biblica», in: Nuova Secondaria XXVII-7 (2011), pp. 58.63-68.


[1] È la antica traduzione greca della Bibbia ebraica eseguita ad Alessandria d’Egitto tra il III e il II sec. a.C., in un’epoca in cui il canone della Bibbia non era ancora definito e il testo ebraico non definitivamente fissato. Il nome di Settanta (sigla LXX) deriva dalla leggenda che narra della sua formazione, attestata nella Lettera di Aristea a Filocrate, oggi nota come Lettera dello Pseudo Aristea e datante verso il 100 a.C. Si racconta che settantadue anziani di Gerusalemme, appartenenti alle dodici tribù d’Israele, furono invitati ad Alessandria d’Egitto da Tolomeo II Filadelfo per tradurre in greco i libri della Legge. La narrazione riferisce come il re accolse questi scribi ebrei ad Alessandria e si prostrò innanzi alla Legge sette volte. Una volta fatta la traduzione, gli scribi furono rimandati a casa con grandi doni. Rispetto al canone ebraico include i seguenti libri: Tobia, Giuditta, Baruch, Sapienza, Siracide, 1-2 Maccabei e aggiunte a Daniele e Ester.
[2] Il libro termina con una genealogia (Rut 4, 17.20) che fa di Rut una delle antenate di Davide e quindi del Messia.
[3] Meynet, Leggere la Bibbia, pp. 77-103 e 128-132. Ma si veda anche Alter, L’arte della narrativa biblica, Marguerat Bourquin, Per leggere i racconti biblici e Ryken, Immagini bibliche, s.v. «Figure retoriche».
[4] Si tratta dell’infinito assoluto, detto anche «accusativo dell’oggetto interno».
[5] Cfr. i Salmi 50 e 51: il primo un’accusa di Dio al popolo, il secondo la confessione dei peccati; oppure i Salmi 111 e 112, caratterizzati dallo stesso numero di versetti e dal fatto di essere entrambi acrostici dell’alfabeto ebraico (ovviamente, tutto ciò si coglie soltanto nel testo originale).
[6] Non si tratta, come lascerebbe intendere il titolo greco (nel Testo Masoretico il titolo è Haddevarîm) di una seconda legge che si aggiungerebbe alla prima, ma di una ripresa che serve a ribadire il valore della legge. Come suggerisce P. Beauchamp, il Deuteronomio è come il pollice sulle altre quattro dita quando la mano è chiusa.
[7] Il termine indica etimologicamente il riavvolgimento del rotolo intorno all’umbilicus per tornare al caput.
[8] Visto che il testo era scritto su rotolo di papiro, potremmo dire che lo svolgimento del rotolo corrisponde alla scrittura, mentre il riavvolgimento corrisponde alla riscrittura.  
[9] Si trova qui la stessa dinamica presente nelle Confessioni di Agostino, nella Comedìa dantesca e nel Canzoniere del Petrarca.
[10] Vedi nota 14.
[11] La rilettura di Genesi 1 non finisce qui perché la prima attività pubblica di Gesù (Gv 1,19-2,11) si svolge nell’arco di sei giorni, l’ultimo dei quali corrisponde alle nozze di Cana in cui la sua ora non è ancora giunta. Il settimo giorno troverà il suo compimento sulla croce.
[12] Ma si veda anche: la chiamata di Abramo (Genesi 12), la chiamata di Gedeone (Giudici 6), la chiamata di Isaia (Isaia 6) e quella di Ezechiele (Ezechiele 1-3), nonché l’annuncio a Maria (Luca 1,126-38).
[13] Il testo per eccellenza è Geremia 31,31-36.
[14] Si noti che nel primo racconto della creazione (Genesi 1) si ripete per dieci volte «Dio disse».
[15] Così P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura (Universale Laterza 874), Laterza, Roma-Bari 2007.

 

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