La lettura cristiana: l’età patristica

1. Introduzione

Nonostante la sua vasta produzione, l’esegesi patristica della Bibbia viene poco considerata in quanto ci sembrano superati i canoni ermeneutici usati dai Padri della chiesa; la loro esegesi ci pare scarsamente scientifica, perché non risponde né ad esigenze di sistematicità né ad esigenze esperienziali. Eppure, la letteratura cristiana primitiva non è altro che esegesi biblica. Non a caso, nel De viris illustribus, Girolamo afferma che fare la storia della presenza letteraria dei cristiani significa fare la storia di tutti coloro che hanno tramandato qualcosa intorno alle Scritture. Anche Origene afferma che i cristiani traggono la conoscenza che prova l’uomo a vivere in modo virtuoso e felice da nessuna altra parte se non dalle parole della Scrittura. Qualche studioso recente, a proposito dei primi autori cristiani, ha parlato addirittura di biblicismo. Ma anche in seguito, e fino all’epoca contemporanea, la teologia altro non è che spiegazione della Scrittura: non c’è opera teologica fino all’Ottocento che non sia piena di citazioni bibliche.
L’approccio alla Bibbia e la familiarità nei suoi confronti obbedisce al duplice movimento di lontananza (testo ispirato) e di vicinanza (l’essere umano può maneggiare il testo). Per gli autori antichi la Bibbia è criterio di verità, anche nei riguardi delle altre sapienze antiche, le quali sono state in parte recepite dalla Bibbia (si pensi all’idea che Platone fosse discepolo di Mosè, oppure alla tradizione secondo la quale il primo saggio greco, Museo, maestro di Orfeo, non si altro che una deformazione del nome Mosè). In Esodo 3 e 12 si dice che gli ebrei si sono portati via le suppellettili d’oro degli egiziani poi riconvertite nel culto ebraico: Origene parla di sacro furto (la cultura pagana messa al servizio della cultura biblica).
Gli autori antichi trattavano la Bibbia «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2): amore e familiarità ma anche grande rispetto. Tutta l’esegesi patristica testimonia di questa spontaneità di rapporto con la Bibbia. Nella Chiesa antica esiste una notevole scioltezza di relazione con la Scrittura. Gli autori antichi ci insegnano una multiformità di approccio al testo sacro.
L’esegesi antica non è né ingenua né superficiale; essi, pur non conoscessero il metodo storico-critico, sapevano andare in profondità, sapevano percepire molte componenti che sono state poi avvertite nel nostro tempo anche dalle scienze umane. Alla nostra mentalità danno fastidio sia il “rispetto” nei confronti della Bibbia, da noi giudicato troppo esautorativo, sia la “libertà” di approccio, da noi giudicato troppo poco scientifico. Non bisogna pensare però che questo paradigma interpretativo rendesse ingenui gli esegeti antichi, i quali ben sapevano cogliere le stranezze e le incongruità del testo, da loro ricondotte ad un disegno unitario, riletto in senso antropologico. In presenza, per esempio, delle categorie dell’atopon (non situato) e dell’alogon (assurdo), essi sostengono che, siccome la Bibbia è opera di Dio il quale non può dire né atopaaloga, allora è necessario lo sforzo umano della ricerca per capirne il senso. Bisogna superare l’evidenza del testo per scoprirne l’intenzione. Ovviamente, non mettevano in discussione il valore storico dei racconti; e tuttavia da essi estraevano il valore culturale e religioso perenne per l’uomo. Il procedimento era quello dell’individuazione di un senso ulteriore del testo. Del resto, anche nei testi pagani ci sono delle stranezze, degli aspetti scandalosi o immorali e gli esegeti alessandrini si muovevano allo stesso modo.
L’esegesi dei Padri nasce dall’esigenza di spiegare il rapporto con tra AT e NT, tra giudaismo e cristianesimo. Si è passati dal kérygma cristiano alla interpretazione e al collegamento con l’AT; come è possibile che AT e NT convivano? Che interesse possono avere le tradizioni giudaiche per quei pagani che si convertono al cristianesimo? Tra II e III sec. una crisi drammatica, la cui composizione è stata tutt’altro che immediata, ha sconvolto la chiesa; essa ha avuto per oggetto l’accoglienza o il rifiuto dell’AT. Il panorama è piuttosto variegato: i giudeocristiani (cfr. il corpus clementinus) accettano l’AT anche come testo normativo; un Ignazio d’Antiochia lo accetta ma lo ritiene ormai superato e assorbito in Cristo; altri gruppi (cfr. lo Pseudo Barnaba) radicalizzano la posizione paolina e accettano l’AT solo nella misura in cui lo si interpreta cristologicamente; altri ancora (gli gnostici) lo rifiutano categoricamente (il Dio dell’AT è carnale, quello del NT è pneumatico; cfr. le Antitesti di Marcione). Sarà proprio in ambiente gnostico che nasce la prima opera esegetica, il Commento al vangelo di Giovanni di Eracleone discepolo di Valentino, composta nel 160.
 
2. La dottrina esegetica della Grande Chiesa
La dottrina esegetica della grande chiesa si sviluppa proprio come reazione all’esegesi degli gnostici per una specie di reazione apologetica. È l’eresia gnostica che ha fatto progredire l’esegesi. È grazie agli gnostici, per esempio, la chiesa fissa il canone del NT. In reazione agli gnostici, viene elaborata la dottrina dell’economia divina AT e NT rispondono a forme diverse di pedagogia divina nei confronti del popolo (Ireneo di Lione: per temporalia ad aeterna, per carnalia ad spiritualia, per terrena ad coelestia). Le due grandi tipologie dell’esegesi patristica sono: l’allegoria e la tipologia.
 
a. L’allegoria, metodo già conosciuto e usato dai grammatici greco-latini, si basa sul principio ciceroniano dell’alium dicitur et alium intellegitur: il testo dice una cosa ma ne vuole significare un’altra. L’allegoria potrebbe essere così schematizzata:
_______________________________________ senso superiore
_________________________________________ testo
Il testo è un pretesto per individuare un senso superiore, il senso vero. Tra testo e senso c’è la stessa differenza che corre tra il mondo sensibile e il mondo delle idee. Tale procedimento nega la storicità del testo di base. L’allegoria viene usata in particolare per spiegare gli aloga e gli atopa del testo. Di ascendenza platonica, questo metodo viene usato spessissimo dagli esegetici alessandrini in riferimenti ai poemi omerici.
 
b. La tipologia, già presente in Paolo, viene formalizzata più tardi. Schematicamente:
typos                                                                   antitypos
__________?___________________________?_____________________
Il fatto successivo conferisce maggior senso al fatto originario. Tale procedimento, oltre a non negare la storicità del testo, salvaguarda l’armonia tra i due Testamento: il sole di Cristo (NT) illumina una verità preesistente (AT) che prima non si vedeva in quanto non illuminata. Il presupposto è la concezione lineare della storia (cfr. viaggio di Abramo), contrapposta a quella ciclica dei pagani (cfr. viaggio di Odisseo). La concezione cristiana della storia può essere definita come dei cerchi che procedono: ci sono costanti storiche che ritornano ma mai allo stesso modo. La tipologia concilia la linearità della storia con il riproporsi di situazioni: il fatto storico del NT riprende il fatto storico dell’AT, la cui storicità è mantenuta.
La tipologia è considerata il più tipico dei metodi esegetici dell’antico cristianesimo in quanto rispetta la verità del testo. In Ireneo si trovano diversi esempi. Ma anche Paolo utilizza la tipologia per rintracciare nell’AT segni messianici di Gesù affinché anche i giudei lo riconoscessero. Nei primi secoli si fanno delle raccolte di testi sacri per far emergere le corrispondenze tra AT e NT. A partire dal IV sec., anche l’iconografia sacra sfrutta la tipologia. Ma si veda anche il Dittocheum di Prudenzio.
La tipologia non scalza del tutto l’allegoria, la quale, almeno in sede popolare, è più suggestiva. L’allegoria ha avuto infatti una vita molto lunga, fino al Medioevo e oltre. Paolo usa il termine «allegoria» intendo però la tipologia. Diodoro di Tarso dice: «Zeus ha chiamato Era sorella e moglie. La lettera del testo significa che Zeus si è unito con la sorella così da essere sorella e moglie; questo il senso letterale»; in senso allegorico, però, significa che Zeus si unisce all’aria e dà luogo alla mescolanza degli elementi, che sono detti fratello e sorella e marito e moglie. L’allegoria serve dunque a togliere la scabrosità del testo.
 
3. Storia dell’esegesi patristica
Riprendendo il filo storico del nostro discorso, il primo autore cristiano in cui l’esegesi diventa un genere letterario autonomo, al di fuori di finalità dottrinali e polemiche, è Ippolito di Roma, il quale ha composto dei trattati esegetici in cui fa largo uso della tipologia, secondo la tecnica della explanatio (e expositio): si riporta un versetto e lo si commenta. I suoi commenti sono relativi al libro di Daniele, al Cantico dei cantici. Come molti esegeti antichi, Ippolito non ha (e non può avere) sensibilità filologica; ciò che gli interessa è l’unità della Scrittura.
a. La scuola alessandrina
Il centro più fecondo dell’esegesi antica è senz’altro Alessandria, crocevia di molte presenze culturali: egizi, greci, ebrei, romani. Ad Alessandria aveva operato Filone, il quale svolge un’importante funzione di mediazione tra testo biblico e cultura filosofica ellenistica. Filone dice che i giudei non devono essere più micropolìtai, ma kosmopolìtai. Egli interpreta l’AT secondo un’allegoria antropologica: sotto la lettera si legge il senso antropologico (noētòs). Le categorie antropologiche sono raggiunte soprattutto tramite la via etimologica (il nome è l’essenza). Nella radice del nome brucia ancora l’impulso originario che l’ha forgiata. L’etimologia mobilita le risorse della cultura ellenistica di Filone: la lettura allegorica diventa interpretazione antropologica e psicologica. In sostanza, l’allegoria di Filone coglie il lato antropologico di un personaggio attraverso l’analisi del suo nome.
I pagani capivano che l’uso dell’allegoria da parte dei cristiani era finalizzato alla noblitazione del testo. C’è stato chi ha criticato il procedimento allegorico usato dai cristiani, in particolare il filosofo neoplatonico Porfirio. Secondo quanto dice Eusebio, Porfirio sosteneva: «A certe persone piene di desiderio di trovare il modo di non rompere del tutto con la povertà delle scritture giudaiche, ma di liberarsene ricorrono a commentari che sono incoerenti e senza rapporto con il testo scritto e che apportano non una spiegazione soddisfacente per gli stranieri, ma ammirazione e lode per le persone di casa. Essi esaltano come enigmi le cose che presso Mosè sono dette chiaramente e le proclamano pomposamente come oracoli pieni di misteri nascosti; essi affascinano con il fumo dell’orgoglio il senso critico dell’anima e poi fanno commentari» (Hist. Eccl. VI,19,4). L’allegoria è vista come momento di esasperazione dell’anima, una forma di superbia: il testo umile viene innalzato tramite l’allegoria.
Il rifiuto dell’allegoria espresso da Porfirio è un segno dell’esasperazione esegetica. L’allegoria, di per sé, non è insita nel testo, ma viene immessa in un testo a partire dal presupposto della fede; sicché l’esegesi (lett. «tirar fuori») a volte diventa una in-egesi («metter dentro»); il tutto frutto di una precomprensione che non deriva da arbitrarietà, ma dal senso globale del testo. L’esegesi risponde sempre ad un principio di unità: il testo si tiene; solo così si possono istituire dei collegamento e introdurre elementi che hanno senso se inserti nell’insieme.
Alessandria è una città ad alta densità gnostica. Qui si sviluppa il motivo dell’armonia dei due Testamenti, motivo che dipende dalla lettura pasquale dell’AT. Essa è stata favorita dalla applicazione che il vangelo stesso e Paolo fanno a Cristo di certi testi dell’AT. Si veda Sal 2,1-2 (Perché questo tumulto fra le nazioni, e perché meditano i popoli cose vane? I re della terra si danno convegno e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Unto) citato in At 4,25-26 (liberazione di Pietro e Giovanni); Sal 2,7 (Io annunzierò il decreto: Il Signore mi ha detto: «Tu sei mio figlio, oggi io t' ho generato) applicato in At 13,33; Sal 109,1 (Il Signore ha detto al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi») recepito in Mt 22,44 (il Messia è superiore a Davide) e ripreso in At 2,34-35 (Davide infatti non è salito in cielo; eppure egli stesso dice: «Il Signore ha detto al mio Signore: "Siedi alla mia destra, finché io abbia posto i tuoi nemici per sgabello dei tuoi piedi"»); si veda anche 2Cor 3,12-16: «Avendo dunque una tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza, e non facciamo come Mosè, che si metteva un velo sul volto, perché i figli d'Israele non fissassero lo sguardo sulla fine di ciò che era transitorio. Ma le loro menti furono rese ottuse; infatti, sino al giorno d'oggi, quando leggono l'antico patto, lo stesso velo rimane, senza essere rimosso, perché è in Cristo che esso è abolito. Ma fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane steso sul loro cuore; però quando si saranno convertiti al Signore, il velo sarà rimosso.»
Per i giudei, la passione e la morte di Cristo si situano fuori dal modulo anticipativo; di conseguenza, i cristiani hanno avvallato una serie di testi fino ad allora non considerati messianici ma che, alla luce del mistero pasquale, si caricavano di potenzialità messianiche. Cfr. Is. 53; Sal 22,1 (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?); Sal 69,21 (Hanno messo fiele nel mio cibo, e mi hanno dato da bere aceto per dissetarmi). Il Sal 16,10 (Poiché tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione), per esempio, come poteva essere letto da parte dei giudei come profezia della risurrezione di Cristo, come dice At 2,31 (previde la risurrezione di Cristo e ne parlò dicendo che non sarebbe stato lasciato nel soggiorno dei morti, e che la sua carne non avrebbe subito la decomposizione); il Sal 40,10 (Ma tu, o Signore, abbi pietà di me e rialzami, e io renderò loro quel che si meritano) viene letto come anticipazione del tradimento di Giuda (cfr. Mt 26). Per i cristiani Cristo diventa la chiave di lettura capace di rimuovere il “velo”: Cristo svela il valore messianico dei testi. È la fede cristiana che getta luce messianica sui testi; è la fede la chiave ermeneutica; non è l’esegesi che suscita la fede, ma la fede che suscita l’esegesi. Tutti gli sforzi dei cristiani di persuadere i giudei del valore messianico dei testi sarebbero falliti se non ci fosse stata la fede in Cristo.
Ad Alessandria vivono i primi grandi esegeti cristiani. Clemente di Alessandria ha scritto una sola opera propriamente esegetica, le Ypotyposis («adombramenti», «modelli nascosti»). In essa, Clemente presenta il riassunto di alcuni libri della Bibbia: il vangelo come realizzazione della Legge, l’AT riletto alla luce di Cristo; egli afferma che esiste un solo Testamento, formato da AT e NT. Clemente, sviluppando la sua dottrina del vero gnostico in opposizione alla gnosi, afferma che ogni uomo può, con la vera gnosi, diventare vero gnostico. Non si tratta di sostituire la conoscenza alla fede (è la fede che salva), ma la fede diventa sempre più piena nella misura in cui l’uomo la investe delle sua capacità razionali. Su questa base, egli afferma che i testi oscuri vanno interpretati per mezzo della gnosi, cioè dell’allegoria. Essi sono simboli (parte che rimanda al tutto) e, se tutto si tiene, ci sono buone possibilità che sia giusto. Clemente usa anche la tipologia. Accanto alla lettura tipologia, egli affianca la lettura cosmologica e la lettura intelligibile.
Nonostante la diminuzione della virulenza della gnosi, il problema dell’armonia dei due Testamenti non si attenua, ma, da motivo storico, diventa motivo dottrinale ed ermeneutico in quanto consente un’esegesi dotta della Scrittura, sottolineando l’armonia interna al testo. Il criterio dell’armonia dei Testamenti preserva l’esegesi da banalizzazione e da cadute storicistiche. Esso è terreno di esercizio che soddisfa l’esigenza di destinazione spirituale del testo. L’AT infatti è commentato più del nuovo perché è l’AT che consente di comprendere la gradualità del percorso dell’uomo: il NT infatti fa cogliere la pienezza dei tempi, mentre l’AT fa cogliere come si è arrivati a tale pienezza. La pienezza emerge alla fine di un percorso, non è un dato immediato; ciò corrisponde ad un cammino di perfezionamento umano (anche i cristiani hanno una “dura cervice”). Il criterio dell’armonia attiene ad una visione antropologica più che ad una scienza esegetica. L’esegesi antica, quindi, è la spia di una spiritualità e di una antropologia.
La figura esemplare per tutta l’esegesi antica è sicuramente Origene, il più grande esegeta della chiesa antica. L’opera di Origene racchiude tutti gli atteggiamenti dell’esegesi antica:
a) la ricostruzione del testo. Egli è uno dei pochissimi autori cristiani che conosce l’ebraico; ha avuto modo di studiare la Bibbia non solo sul testo greco. Compose non a caso gli Exapla (sexupla), in cui l’atteggiamento non è quello della filologia moderna, ma si utilizzano tutte le versioni per arricchire l’interpretazione. Lo schema è il seguente:
 

EXAPLA

I

II

III

IV

V

VI

testo ebraico

traslitterazione greca

versione di
Aquila

versione di
Teodozione

versione di Simmaco

versione dei LXX
 
b) l’interesse grammaticale: spiegazione di espressioni particolari (skolia);
c) l’attitudine pastorale che si traduce in una ampia produzione di omelie(opere essoteriche);
d) il commento sistematico scientifico nell’ambito della sua scuola (commentaria); si tratta di opere esoteriche in cui Origene avanzava delle ipotesi teologiche sulla base dei testi sacri, alcune delle quali sono state condannate dalla Grande Chiesa.
Con Origene si stabilisce il metodo esegetico della scuola di Alessandria, basato su due livelli interpretativi: il senso letterale e il senso spirituale (al cui interno ci sono letture cristologiche, eccelsiologiche, tipologiche e allegoriche). Questa duplicità corrisponde alla delineazione binaria dell’economia della salvezza: AT come ombra e NT come verità. La produzione di Origene è esemplare anche perché sottolinea che la diversità dei sensi esegetici dipende dalla diversità dei generi letterari dell’opera che si compone: l’omelia avrà applicazioni morali e spirituali, il commentario finalità filosofico-anagogiche.
Origene ha composto un’opera esoterica intitolata De principiis, in cui si trova (libro IV) il cosiddetto Trattato di ermeneutica biblica, nel quale Origene fornisce una sistematizzazione dei criteri interpretativi. Il criterio interpretativo profondo è possibile solo a chi riceve il dono dello Spirito: un lettore capisce il testo nella misura in cui si rende simile al testo (cfr. Rm 7,14: «Sappiamo infatti che la legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato»). Il lettore deve assimilare a sé il testo, anche quello precristiano, attraverso la categoria dello Spirito. La norma interpretativa del testo è il testo stesso; la Scrittura ci dà la chiave di sé. Nel De principiis IV,2,4 Origene afferma: «Il metodo che a noi sembra imporsi per lo studio delle Scritture e la comprensione del loro senso è il seguente; esso è già indicato dagli scritti stessi. Nei Proverbi di Salomone troviamo questa direttiva riguardante le dottrine delle Sacre Scritture: Non ho scritto per te trenta parole, riguardanti consigli e conoscenza, perché tu possa far conoscere la verità, rispondere a coloro che ti interrogano?. Bisogna dunque scrivere tre volte nella propria anima i pensieri delle Sacre Scritture, affinché il più semplice sia edificato da ciò che è come la carne (sarx) della Scrittura – definiamo così l’accezione immediata – e colui che è un po’ esaltato lo sia per effetto di ciò che è come la sua anima (psyche) e colui che è perfetto (…) lo sia della legge spirituale (pnuema) che contiene l’ombra dei beni futuri».
Bisogna leggere i testi della Scrittura secondo tre prospettive: la lettura carnale, la lettura psichica e la lettura pneumatica. Come si vede, esiste un collegamento tra testi biblici, categorie antropologiche e istanze soteriologiche. Il regime di senso della Scrittura è in rapporto con la struttura dell’uomo, secondo la visione tricotomica dell’essere umano presente in Paolo (Egli stesso, il Dio della pace, vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo: 1Tess 5,23). Da questa base antropologica deriva la triplice modalità di lettura della Scrittura, la quale diventa un messaggio che riguarda la completezza dell’uomo. Nell’Omelia sul Levitico, Origene, oltre al senso antropologico, parla di tre sensi storico-salvifici: la carne è per il giudeo, l’anima per il cristiano, lo spirito ha una dimensione escatologica. C’è dunque un legame profondo tra l’uomo e la Bibbia, tra l’interpretazione della Bibbia e le fasi della salvezza.
La verità dell’AT può essere afferrata solo in forza dell’avvento di Cristo: notitia Christi clavis Scripturarum. Per questo Origene arriva a sostenere che i giudei, proprio perché si attenevano alla lettera (senso carnale) delle profezie messianiche, non hanno riconosciuto Gesù come Messia. «La luce contenuta nella legge di Mosè, coperta da un velo, risplendette alla venuta di Gesù perché fu tolto il velo e subito si è potuto avere conoscenza dei beni di cui la lettera era l’ombra» (De principiis IV,1,6). Questo testo ci dà la conferma che, come si diceva prima, non è l’interpretazione spirituale che accredita l’evento-Cristo, ma l’evento-Cristo che accredita l’interpretazione spirituale. Sicché i giudei non sono non credenti perché interpretano alla lettera la Scrittura, ma sono letteralisti perché non credono: interpretando alla lettera, non hanno potuto capire Cristo, e, non capendo Cristo, hanno interpretato letteralisticamente. È necessaria quindi la fede in Cristo per non essere letteralisti; la fede è precomprensione. La gloria di Cristo si è resa manifesta solo dopo la venuta dello Spirito; l’idea che Cristo sia la chiave della Scrittura è stata concepita solo dopo l’evento pasquale. Cristo è stato sottratto agli occhi per essere riconoscibile dal cuore, cioè per essere interpretato secondo il criterio spirituale. Nei quaranta giorni tra la risurrezione e la Pentecoste c’è stata una sorta di compresenza di occhi e spirito, una fase transitoria. Tutto ciò ha influenza sull’esegesi: la mancanza di materialità stimola l’interiorizzazione e l’interiorizzazione produce l’interpretazione spirituale che fa vedere anche sotto la carnalità (la vita di Cristo) ciò che prima non si vedeva.
La lettera, anche per Origene, non è certo da scartare in quanto svolge una funzione protettiva e pedagogica: protettiva perchè il testo protegge la Scrittura da interpretazioni eccessivamente carismatiche (lo spirito va situato per essere protetto); pedagogica perché la parola di Dio si manifesta in modo progressivo (se si offre troppo chiaramente alla conoscenza, la parola di Dio perde in dignità, cerca una copertura: l’economia del nascondimento assegna alla lettera una sua sfera di senso).
Sempre nel De principiis Origene dice che la parola di Dio ha fatto in modo che sia nella Legge sia nei racconti storici venissero inseriti passi inverosimili, atti a suscitare scandalo e difficoltà. Questi luoghi problematici (adynata) erano già stati oggetto da parte della chiesa antica di un inventario. Già prima di Origene, alcuni interpreti avevano raccolto un repertorio di passi difficili (zethéseis, quaestiones). Parallela alla letteratura delle quaestiones c’è la letteratura delle solutiones (lyseis). Origene inserisce nei suoi scritti esegetici alcuni di questi testi: per esempio, Numeri 33 parla di 42 tappe degli Israeliti; la spiegazione di Origene è che Cristo è disceso fino a noi attraverso 42 antenati e i figli di Israele per 42 tappe salgono al luogo dove comincia la promessa. Quando, dice Origene, viene proclama ai fedeli una lettura di testi in cui non sembra esserci nessuna difficoltà, essi lo accettano di buon grado; mentre, se viene letto il libro del Levitico, subito la mente resta disturbata e rifiuta un cibo che non le pare suo.
L’oscurità è dunque tipica della Scrittura ed è un invito al suo superamento (Dio ha insegnato al suo popolo a penetrare gradualmente nella sua verità). Ci deve essere una sinergia tra aiuto di Dio e opera dell’uomo: l’aiuto di Dio non è così esclusivo da rendere inutili le regole ermeneutiche. Non basta il versante carismatico, ci vogliono anche regole interpretative (per esempio, i luoghi paralleli).
«Il lettore attento in alcuni passi si trova in imbarazzo perché senza un accurato esame non può mettere in chiaro se un fatto che sembra storico sia avvenuto secondo il senso letterale oppure no o se il senso letterale di una legge debba essere osservato o no. Perciò attenendosi al comando del Salvatore: Scrutate le Scritture (Gv 5,39) deve esaminare dove il senso letterale è veritiero e dove non lo è e, per quanto gli è possibile, deve ricercare, sulla base dei termini simili, il senso di ciò che secondo la lettera è impossibile, il senso diffuso per tutta la Scrittura» (De principiis III).
Il metodo di spiegare la Scrittura con la Scrittura consente di evitare l’eccessivo ricorso all’allegoria e al cambiamento dei testi. Bisogna invece immergersi nella Scrittura.
Riassumendo, i principi ispiratori dell’ermeneutica di Origene sono:
l’interpretazione globalmente cristologia della Scrittura considerata unitariamente;
l’esigenza di maggiore impegno filologico-critico per avere più testi a disposizione, più che per fissare il testo originario;
la Scrittura va accostata con preparazione e timore perché essa si serve di un linguaggio simbolico che nascondo il vero significato;
il metodo esegetico si basa su due livelli: sensibile e spirituale.
All’interno dei sensi sensibile e spirituale, Origene sviluppa la dottrina dei sensi esegetici. Più anticamente c’è una dottrina di tre sensi: letterale, morale e mistico (cfr. H. de Lubac, L’exegèse médievale. Le quatre sens de l’Ecriture, 1959). I quattro sensi della Scrittura saranno condensati nel XIII sec. da un distico del domenicano Agostino di Dacia:
 
Littera gesta docet, quid credas allegoria
moralis quid agas, quo tendas anagogia
 
In alcuni autori si parla di lettera, morale, mistica, in altri di lettera, allegoria, morale, anagogia. Il triplice senso è più alessandrino (origeniano), il quadruplice è più occidentale (Cassiano). Le due serie furono variamente combinate: nella sequenza origeniana lettera–morale–mistica (l’incontro con Cristo), la morale precede l’incontro con Cristo; nella sequenza lettera–allegoria–morale–mistica c’è un passaggio in più. Analizziamo allora i tre sensi di Origene.
a.Senso letterale (o storico). La salvezza si realizza in una storia e questa constatazione si riversa sulla lettera del testo. Agostino dirà che se si toglie il fundamentum rei gestae, l’interpretazione spirituale quasi in aere aedificatur. La lettera non è solo quella che uccide, la lettera è portatrice dello spirito.
b.Senso morale. Il diverso ordine di comparsa è significativo del diverso ruolo che esso assume. La morale non è necessariamente cristiana, casomai è precristica. Ma può essere anche una morale che accoglie il Logos. Ambrogio: prima le foglie e poi i frutti; Agostino: prima si beve il latte della morale e poi il vino della mistica. La morale viene prima del mistero, ma da esso dipende e ad esso è finalizzata. Non è una morale naturalistica, ma una tappa verso l’incontro mistico e quindi ne ha in sé i germi.
c.Senso mistico. È il senso unitivo: leggere la Scrittura come segno dell’incontro con Dio, incontro psicologico o ecclesiologico. La chiesa, popolo di Dio, percorre il suo incontro verso Dio come l’anima si muove verso Dio.
 
b. La scuola antiochena
La scuola di Antiochia, a differenza del Didaskaleion di Alessandria, non è una scuola strutturata; qualcuno parla di una linea di tendenza più che di una scuola vera e propria. Iniziata da Luciano, essa è caratterizzata da un maggiore interesse filologico e dal sospetto nei confronti dell’allegoria, che invece è la parola chiave della scuola di Alessandria. I più importanti esponenti della scuola di Antiochia sono: Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, Teodoro di Tarso, Teodoreto di Ciro.
Comunemente definito «letterale», il metodo esegetico della scuola antiochena ha alla sua base il tentativo di operare una sorta di sintesi tra l’eccesso allegorizzante e il mero letteralismo: in questa direzione, Diodoro di Tarso elabora il concetto di theoria, secondo il quale l’autore sacro descrive un avvenimento della storia d’Israele e tale avvenimento è figura di una realtà messianica. Ma, e questo è il punto saliente, entrambi gli oggetti derivano dal senso letterale del passo e l’autore umano ispirato li conosce e li intende (li ”contempla”) entrambi.
 
c. Sviluppi successivi
A partire dal V secolo le grandi scuole esegetiche orientali decadono e si impone la moda dei florilegi (antologie) e delle catene (commento di un testo versetto per versetto attraverso l’esegesi di vari autori accostati). Le catene svolgono una duplice funzione per noi moderni: da un parte conservano testi andati perduti, dall’altra favoriscono la perdita dei testi. Il più importante autore catenario è Procopio di Gaza.
 
d. L’esegesi in Occidente
In Occidente non si può parlare di esegesi vera e propria prima del III-IV sec. In realtà, nel III sec., in occasione della persecuzione di Decio (350), ci sono dei vescovi che, in vista della preparazione dei fedeli all’eventualità del martirio, radunano dei testi di catechesi costituiti da passi biblici che servano ad irrobustire eventuali martiri (si tratta dei testimonia,«citazioni»); i più famosi sono i Testimonia Cypriani e i Testimonia Fortunati, ripartiti in vari capitoli: «gli idoli non sono dei» seguito da passi della Scrittura, «bisogna adorare un solo Dio», ecc.
Visto il suo ritardo, l’esegesi occidentale ha a che fare soprattutto con la lotta contro l’arianesimo e con il problema del rapporto tra grazia e libero arbitrio (Agostino). Questo spiega l’importanza che assume l’esegesi di Paolo (trascurata invece in Oriente).
Uno degli autori più significativi dell’esegesi occidentale è sicuramente Ambrogio. Oltre a conoscere molto bene il greco, egli possedeva solide basi esegetiche (nonostante le critiche di Girolamo che lo accusava di essere una cornacchia che si fa bella con le piume del pavone) e una buona preparazione linguistica e retorica. La sua formazione grammaticale gli serve per rispettare il significato delle parole con la tecnica della concordanza verbale utile a stabilire dei collegamenti tra testi. Il suo metodo esegetico è di stampo alessandrino, nel senso che anche lui distingue tra lettera e spirito: la Scrittura è cibo che bisogna masticare, altrimenti la durezza della lettera fa soffocare.
Nella sua esegesi, Ambrogio stabilisce sempre un rapporto tra AT e NT. Le sue prime opere esegetiche commentano la Scrittura secondo la lectio continua. Non è solo un’esigenza di sistematicità, ma anche l’idea teologica che nell’istruzione della fede bisogna seguire l’ordine che Dio stesso ha dato alla sua rivelazione. Il suo procedimento catechetico non è basato sulla scansione consueta di fede (simbolo), morale (comandamenti), grazia (sacramenti), ma è basato sulla Scrittura, convinto com’è che in essa prima o poi si ritrovano questi tre momenti, e nell’ordine voluto da Dio. La sua è insomma una catechesi biblica. Ambrogio commenta soprattutto l’AT perché esso consente al cristiano di vedere meglio il cammino percorso dal popolo di Dio verso la pienezza dei tempi (lezione morale). Cristo è inserito nell’AT.
Oltre al consueto schema binario (AT-NT, lettera-spirito), Ambrogio presenta anche uno schema ternario, che risponde anche a criteri apologetici (applicazione dell’argumentum antiquitatis al cristianesimo). Suddividendo la Bibbia in tre fasi (epoca dei patriarchi, epoca della legge, epoca del vangelo), egli sottolinea come la legge, che dà la struttura alla religiosità di Israele, sia preceduta dai patriarchi, cioè da una sorta di religiosità archetipica; la legge è come una siepe che divide la spiritualità dei patriarchi da quella dei cristiani, spiritualità che si richiamano a vicenda; di conseguenza, il cristianesimo, ricollegandosi ai patriarchi (e ai profeti), viene prima della legge. Ambrogio individua la figura di questa tripartizione nella nascita dei gemelli di Tamar (Gen 38,28-30: Durante il parto uno di loro mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò attorno a quella mano, dicendo: «È questo che è uscito per primo». Ma quando questo ritirò la sua mano, ecco che uscì suo fratello. Allora essa disse: «Come ti sei aperta una breccia?» e lo si chiamò Perez. Poi uscì suo fratello, che aveva il filo scarlatto attorno alla mano e lo si chiamò Zerach). Zerac è typus gratiae (mette fuori la mano per primo) e Perez è typus legis: «prevenendo la legge, i santi patriarchi, sciolti dai ceppi dei precetti, risplendettero della grazia evangelica, libera e simile alla nostra». In realtà nasce prima Perez (la legge) e poi Zerac (la grazia), «secondo per la nascita del corpo, ma primo per virtù e verità». Prima si annuncia la grazia (patriarchi), poi irrompe la legge, alla fine ritorna la grazia con Cristo. «Le realtà mistiche dei cristiani sono anteriori e più divine di quelle dei giudei». Questa visione ternaria motiva la predilezione di Ambrogio per i patriarchi: è presente in loro già una prospettiva evangelica espressa però con un terminologia non evangelica. Per questo c’è bisogno di un’interpretazione tipologica.
I Profeti sono più vicini ai patriarchi che non alla legge. I patriarchi pre-figurano (non sanno di essere figure di Cristo, anche se lo sono), i profeti pre-annunciano (sono consapevoli della prospettiva messianica che annunciano). Di conseguenza, i patriarchi vanno letti in chiave tipologica, mentre i profeti possono essere letti in modo più letterale. C’è nel profeta una sorta di schizofrenia: usa termini usuali, che però diventano oscuri perché carichi di un significato non usuale (aenigmata): le loro parole parlano di una realtà che non è ancora concepibile storicamente.
Nella tripartizione lettera-morale-mistica, la morale di Ambrogio è già strettamente collegata con la mistica. Nel Medioevo, Ambrogio era considerato un autore morale (Ambrosius moralis). Non si tratta però di dettare comportamenti spiccioli (cfr. il De officiis). Nel IV sec. d.C., il termine moralis (coniata nel 44 a.C. nel De fato di Cicerone, da mos) da cui deriva moralitas, indica il carattere di un personaggio. Ambrogio dice che la moralitas è il modo con cui Cristo si adegua alle debolezze del carattere dell’uomo per inserirsi in esse e migliorale. «Aveva assunto la fragilità umana: quanto grande è la moralitas del Signore!». Il Signore è moralis magister, perché «consapevole della nostra fragilità e interprete dell’amore di Dio, vuole che sia messa in atto la consolazione perché la tristezza non inghiottisca in penitente». La moralitas esprime l’essenza stessa del rapporto creaturale dell’uomo con Dio. La morale non è quindi un comportamento etico, ma il comportamento con Dio si adegua alla debolezza umana per riscattarla (si tratta di una morale cristica).
Ecco allora che Ambrogio è morale non in senso filosofico, ma in senso cristiano. Anche per Ambrogio il senso ultimo è quello mistico; ma l’incontro con Dio nella mistica è preparato dalla morale. Il percorso dalla morale alla mistica è individuato da Ambrogio nella struttura del Salmo 119, da lui definito morale per via della sua suddivisione abbecedaria (un percorso graduale) e del fatto che ogni strofa è di otto versi (simbolo dell’unione mistica). Ecclesia vel anima. Si stabilisce un collegamento tra ecclesiologia e psicologia. La morale è tensione verso la mistica ma dentro la morale Cristo (moralis magister) già agisce in quanto interviene con la sua misericordia. Ambrogio è dunque maestro di morale in quanto maestro di mistica.
Nella sua esegesi, Ambrogio è maestro della delectatio, con un’esegesi che a volte è al limite del virtuosismo. Il suo pubblico era sia umile sia colto. Eppure non fa due catechesi diverse: spiega il senso attraverso accostamenti di immagini (e si sa che l’immagine non si esaurisce in se stessa, ma si rende disponibile alla comprensione di chi la riceve) che soddisfano sia il semplice sia il colto.
L’importanza di Gerolamo risiede più nella sua opera di traduttore che non di esegeta. Egli è esegeta in quanto traduttore.
L’autore che ha formalizzato in modo preciso delle regole esegetiche è Ticonio, un esponente del donatismo. Egli scrisse un Liber regularum, nel quale stabilisce sette regole esegetiche:
De Domino et corpore eius: quando la Scrittura fa riferimento a Cristo, non distingue tra lui e il suo corpo che è la chiesa e può passare dall’uno all’altra; i testi che parlano di Cristo possono essere riferiti dalla chiesa;
De Domini corpore bipartito: la chiesa è formata dai buoni e dai cattivi; è sposa nigra et pulchra; quando nella Scrittura si parla della chiesa, bisogna valutare se si parla della chiesa buona o di quella cattiva;
De promissis et lege: la legge va interpretata in due modi: è positiva se anticipa il NT, è negativa se si chiude su se stessa;
De genere et specie: la Scrittura con le stesse parole a volte si riferisce al genere, a volte alla specie;
De temporibus: le discrepanze cronologiche vanno risolte con il principio della sineddoche;
De recapitulatione: certi passi condensano in breve concetti più distesi nel tempo;
De diabolo et corpore eius: quando si parla del diavolo si parla anche dei malvagi e viceversa.
Il criterio interpretativo per eccellenza di Agostino è la charitas, l’amore oblativo di Dio per l’uomo. La lettura di Agostino è tanto fruttuosa quanto personale.
L’opera in cui Agostino si sofferma sul come interpretare e come esporre l’interpretazione della Scrittura è il De doctrina christiana. La Scrittura necessita di un cammino di iniziazione per essere affrontata con profitto. Ecco come descrive il suo incontro con la Bibbia a 19 anni: «Itaque institui animum intendere in scripturas sanctas et videre quales essent. Et ecce video rem non compertam superbis neque nudatam pueris, sed incessu humilem, successu excelsam et velatam mysteriis. Et non eram ego talis ut intrare in eam possem aut inclinare cervicem ad eius gressus. Non enim sicut modo loquor, ita sensi, cum attendi ad illam scripturam, sed visa est mihi indigna quam Tullianae dignitati compararem. Tumor enim meus refugiebat modum eius et acies mea non penetrabat interiora eius. Verum autem illa erat quae cresceret cum parvulis, sed ego dedignabar esse parvulus et turgidus fastu mihi grandis videbar» (Conf. III,5.9; cfr. anche Gregorio Magno, Moralia in Iob XX,I,1). Ciò che Agostino non accetta è la humilitas della lingua biblica, cioè il genus umile (è per lui difficile accettare la difformità tra argomento e stile). Ma il Dio dei cristiani, diventando umile (humus), ha nobilitato l’humilitas della lingua biblica.
La via per comprendere la Scrittura è stata duplice dall’antichità al Medioevo: o mediante il ricorso all’illuminazione divina o mediante l’uso del metodo ermenutico. Nei primi tre libri del De doctrina christiana, Agostino dice come va interpretata la Scrittura e libera il terreno da alcune obiezioni che venivano mosse da personalità “carismatiche”, secondo le quali non erano necessario conoscere discipline tecniche per accostarsi alla Scrittura, ma bastava l’ispirazione entusiastica. Agostino osserva:
In effetti la disputa è con dei cristiani che hanno la soddisfazione di conoscere le Sacre Scritture senza bisogno di uomini che li guidino, e pertanto, se così è, posseggono un bene vero e di non poco valore. Tuttavia debbono ammettere che ciascuno di noi ha imparato la propria lingua nella sua infanzia a forza di ascoltarla e, quanto alle altre lingue, - supponiamo il greco, l'ebraico o altra - l'hanno apprese o ascoltandole come sopra o mediante l'insegnamento di qualche persona. Inoltre, se fosse davvero così, potremmo esortare i fratelli a non insegnare queste cose ai loro piccoli, poiché in un batter d'occhio, alla venuta dello Spirito Santo, gli Apostoli ripieni del medesimo Spirito parlarono le lingue di tutte le genti, ovvero, se di tali effetti non beneficiano, diciamo loro che non si ritengano cristiani o dubitino d'aver ricevuto lo Spirito Santo. Viceversa, ciascuno apprenda con umiltà quanto deve essere imparato dall'uomo, e colui, ad opera del quale viene impartito l'insegnamento, senza insuperbirsi e senza provarne invidia, comunichi all'altro ciò che egli stesso ha ricevuto. Né tentiamo colui nel quale abbiamo creduto, come faremmo se, ingannati dalle astuzie e dalla malvagità del nemico, non volessimo andare in chiesa ad ascoltare e apprendere il Vangelo o non volessimo leggerne il testo o ascoltare chi ce lo legge e lo espone predicando, attendendo d'essere rapiti al terzo cielo, sia col corpo sia senza il corpo - come dice l'Apostolo - e lassù ascoltare parole ineffabili, di cui all'uomo non è consentito parlare, o magari vedere, sempre nel cielo, il Signore Gesù Cristo e ascoltare da lui stesso, piuttosto che dall'uomo, l'annuncio evangelico. (De doct. Proemio 5)
L’umanità decaduta non può non far conto sul linguaggio. Il De doctrina dedica infatti molto spazio all’esposizione di un metodo di lavoro. La Parola di Dio accetta di essere indagata con strumenti umani, no per via di contati carismatici. Sarà questa impostazione a preservare le arti medievali nel Medioevo in quanto finalizzate allo studio della Scrittura. Questo metodo ha preservato la fiducia della ragione a muoversi nell’orizzonte della fede, a non lasciare che la fede navighi nell’irrazionale. Agostino invita a camminare con le proprie gambe. Ci vuole un percorso di perfezionamento. Dio non disdegna l’aiuto degli uomini:
Guardiamoci da tali tentazioni frutto di grande superbia e assai pericolose. Pensiamo piuttosto all'apostolo Paolo. Sebbene abbattuto e istruito da una voce divina proveniente dal cielo, egli fu mandato da un uomo per ricevere i sacramenti ed essere inserito nella Chiesa. Così il centurione Cornelio. Un angelo gli annunziò che le sue orazioni erano state esaudite e le sue elemosine gradite a Dio; tuttavia, per essere catechizzato fu mandato da Pietro, dal quale non solo avrebbe ricevuto i sacramenti ma anche udito cosa avesse dovuto credere, sperare e amare. E in realtà tutte queste cose avrebbe potuto farle l'angelo stesso, ma se Dio avesse fatto capire di non voler dispensare la sua parola agli uomini per mezzo di altri uomini, la dignità dell'uomo ne sarebbe risultata sminuita. Come infatti sarebbero state vere le parole: Santo è il tempio di Dio che siete voi, se Dio non avesse proferito i suoi oracoli da quel tempio che è l'uomo ma avesse fatto echeggiare dal cielo e per mezzo di angeli tutto quello che voleva rivelare agli uomini a loro istruzione? E finalmente un rilievo sulla carità che unisce gli uomini tra loro col vincolo dell'unità. Se gli uomini non avessero da imparare nulla dai propri simili, alla carità verrebbe tolta una via importante per conseguire la fusione e, per così dire, l'interscambio degli animi. (De doct. Proemio 6)
La tesi che Agostino contrasta appare invece in alcuni testi monastici (cfr. Cassiano, Institutiones V,34), dove il rapporto è a due tra lettore e testo, senza l’intermediazione di un metodo scientifico: per capire le Scritture basta la sola puritas cordis.
È grazie all’autorità di Agostino che si è mantenuta viva la necessità di apprendimento graduale e “tecnico” alla Scrittura. Cassiodoro darà grande rilievo alle questioni metodologiche: introduzione di base, ricorso agli esegeti e ai commentatori, letteratura delle quaestiones, interpellare gli anziani (come si vede, categorie tecniche e spirituali insieme).
 
Conclusione
Il recupero dell’esegesi patristica serve ad acquisire il senso del rapporto tra uomo e Parola di Dio. Questo orizzonte rinfresca il metodo storico-critico. L’esegesi dei padri ha plasmato il volto della chiesa. I Padri ci hanno insegnato a giocare con la Bibbia come l’epistola agli Ebrei gioca con l’AT. L’esegesi dei Padri non ci aiuta a risolvere problemi esegetici, ma ci aiuta a capire il senso piena della Bibbia, il rapporto che la Bibbia ha con l’uomo.

 

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