La Bibbia e la letteratura dell'Occidente

 
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di Jean-Pierre Sonnet
© Lumen Vitae, Bible et sciences humaines, n°4, 2001, pp. 375-388
(per gentile concessione dell'autore; traduzione di Luciano Zappella)
 
La Bibbia è fatta per essere decifrata
e per risuonare all’interno di altre letterature
P. Beauchamp
 
 
All’inizio di Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia ad oggi, Harold Bloom dice le seguenti parole:
 
Intorno all’anno 100 avanti l’Era Volgare, un fariseo compose ciò che la tradizione ha chiamato il Libro dei Giubilei, titolo esuberante per un modello di pessima scrittura. Quest’opera garrula è anche conosciuta come la Piccola Genesi, fatto curioso considerando che è molto più lungo della Genesi e tratta anche l’Esodo. Non mi diverte leggere il Libro dei Giubilei, ma ne sono affascinato, non per quello che contiene ma per tutto ciò che esclude[1].
 
   Ciò che il Libro dei Giubilei scarta dalla Genesi e dall’Esodo, spiega Bloom, è, a ben guardare, la loro trama narrativa[2]. L’autore del Libro dei Giubilei ha dimenticato l’essenziale: la Bibbia, prima di ogni altra cosa, racconta delle storie. E questo – aggiunge il critico americano – è ciò che fa anche Omero.
 
Non si può attribuire il primato della forza narrativa all’uno piuttosto che all’altro. Possiamo soltanto dire che la Genesi e l’Esodo, l’Iliade e l’Odissea, fissano i parametri della forza letteraria ovvero del sublime, e che dopo di loro giudichiamo Dante, Chaucer, Cervantes, Shakespeare, Tolstoj e Proust secondo questi criteri[3].
 
Ecco una campionatura del fatto letterario a cui la coscienza culturale italofona non ci ha molto abituati. Gli anglosassoni, eredi della King James Version, conserverebbero la memoria di genealogie letterarie che a noi sfuggono? Trattandosi della Bibbia, l’opinione di Bloom riecheggia il famoso studio del critico canadese Northrop Frye, che ha riconosciuto nella Bibbia il grande codice della letteratura occidentale[4]. In questa analisi, Frye riprende, con stupefacente perspicacia critica, la frase del poeta e pittore inglese William Blake (1757-1827): «The Old and New Testaments are the Great Code of Art». Non ci si inganni però: l’indice dell’opera di Frye rimanda a Dante come a Milton, a Goethe come a Byron, a Arthur Rimbaud come a Wallace Stevens: il fenomeno del «grande codice» va oltre il solo ambito anglofono, e l’osservazione di un altro testimone della fecondità letteraria della Bibbia, George Steiner, consentirà di rendersene conto:
 
La nostra poesia, il nostro teatro e la nostra narrativa sarebbero irriconoscibili se omettessimo la presenza continua della Bibbia (…) Tale presenza va dall’immensa mole delle parafrasi bibliche alle allusioni più marginali o mascherate. Essa comprende tutte le forme di intertestualità, di fusione tra le righe. Come circoscrivere una ricaduta così costante che va dalla traduzione o parafrasi dei testi biblici nei misteri medioevali alla presenza obliqua della Bibbia in Assalonne, Assalonne di Faulkner? Quale voce unica può rendere conto dell’utilizzo di Acab e di Giona fatto in Moby Dick, del riuso di personaggi biblici e delle epistole nella Divina Commedia di Dante, e della rinarrazione massicciamente amplificata del mondo dei Patriarchi nella tetralogia che Thomas Mann ha dedicato a Giuseppe? Se un personaggio secondario come la moglie di Lot appare già nella poesia medievale inglese, la si ritrova in Blake o in Joyce. Ma si trova pure al centro del poema di D. H. Lawrence, She Looks Back. La sostanza di Mosè e di Sansone occupa un posto di primo piano nel romanticismo francese con Victor Hugo e Alfred de Vigny. Proust, come noi lo conosciamo, non esisterebbe senza Sodoma e Gomorra. Non ci sarebbe neppure Kafka senza le tavole della Legge. Niente Racine senza Ester e Atalia. Gli echi biblici, i giochi di citazioni mascherate o la parodia sono indispensabili tanto al Faust di Goethe quanto ai misteriosi riflessi dell’Eden e della caduta ne La Coppa d’oro di Henry James (titolo che sembrerebbe uscito dall’Ecclesiaste) o alle mutazioni desolate e sardoniche dell’intreccio principale in Aspettando Godot di Beckett. L’enumerazione sarebbe folle[5].
 
Si trova qui il fenomeno che indagheremo in questo capitolo. Come ha potuto la Bibbia essere all’inizio di una simile tradizione in letteratura? Probabilmente, a motivo della sua autorità, morale e spirituale, ma anche, contemporaneamente, e in un modo che spesso sfugge al credente, a motivo della sua intima qualità letteraria. «La Bibbia è almeno una letteratura e il Dio di Israele è se non altro il più grande personaggio letterario dei tempi», scrive Erri de Luca, fine lettore della Bibbia pur senza essere credente[6]. Quale relazione osservare tra questa doppia autorità, religiosa e letteraria, della Bibbia e la fecondità che essa ha avuto nelle letterature?
Saranno qui analizzati due aspetti del fenomeno. Da una parte, la Bibbia, rispetto alla letteratura occidentale, ha svolto il ruolo di matrice; oltre ai classici greci, è stata la Bibbia a fornire il repertorio di figure e di intrecci che popolano la cultura occidentale. Dall’altra, la Bibbia, in tale parto, ha ricevuto anche un ruolo paterno: la letteratura occidentale ha intrattenuto con il libro un rapporto in forma di lotta con l’angelo, analogo alla lotta di Giacobbe in Gen 32. Il pensiero letterario si è misurato con le Scritture nello stesso modo in cui ci si misura con l’autorità paterna e con la legge del padre. In questo quadro di famiglia, il corrispettivo greco della Bibbia, l’opera di Omero, ha svolto un ruolo altrettanto fondante, sebbene diverso (e avremo modo di osservare interessanti incroci nei due lignaggi). Al termine della nostra indagine si imporrà una domanda: in questa inattesa discendenza, e specialmente negli ultimi di questi rampolli letterari, dai tratti quantomeno inattesi (come la Gerusalemme di Isaia, la Bibbia potrebbe esclamare davanti a loro: «Questi, chi me li ha generati?» [Is 49,21]), la Bibbia si perde o si salva?
 
 
1. L’arte del racconto biblico
 
Per cogliere meglio la fecondità delle Scritture bibliche nella scrittura letteraria dell’Occidente, bisogna individuare la peculiarità dell’arte letteraria della Bibbia. Nella sua opera L’arte della narrativa biblica, Robert Alter, specialista di letteratura comparata, ha felicemente messo in luce l’arte biblica della narrazione. L’insieme del suo studio è sostenuto da una tesi audace: la rivoluzione monoteistica tipica della fede di Israele è accompagnata da una rivoluzione letteraria[7]. Mentre la letteratura del Vicino Oriente antico ricorre massicciamente all’epica in versi nei suoi racconti fondanti (Enuma Elish, Atrahasis, Gilgamesh), la Bibbia fa ricorso a un altro espediente letterario: la prosa narrativa. Perché questo ricorso al racconto e alle risorse di storie in prosa per dire la storia e i fondamenti della storia? Per il fatto che solo la prosa narrativa, con la sua dinamica complessa e aperta, consente la rappresentazione del sottile rapporto tra la libertà divina e quella umana che si confrontano nella storia. Sulla scena del racconto, nella semplicità e nella complessità dell’intreccio, nello spazio e nel tempo della interazione tra i personaggi, assistiamo anche a ciò che sfugge alla rappresentazione del discorso in versi dell’epopea e al discorso speculativo, all’incontro tra il progetto di Dio e la libertà degli esseri umani[8]. L’intenzione teologica è qui interamente «calata» nella articolazione narrativa e, come sottolinea Alter, vi è «una interfusione completa fra arte letteraria e visione teologica, morale e storico-filosofica, in cui la percezione più piena della seconda dipende dalla più completa comprensione della prima»[9].
Vi è, nella prosa narrativa della Bibbia, una modalità narrativa peculiare, finalizzata al progetto cui si è appena accennato, modalità che Erich Auerbach ha messo in luce nel suo studio Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. Per far cogliere questa modalità specifica, Auerbach mette in campo un confronto tra la Bibbia e l’Odissea di Omero[10]. Lo specifico di Omero, spiega Auerbach, è di collocare tutto nel primo piano della narrazione, sotto una luce uniforme e senza una vera e propria tensione (la fisionomia dei personaggi come pure i loro pensieri e sentimenti, le grandi linee come i dettagli dell’azione). Il narratore biblico, invece, si limita a primi piani più sobri – tanto sobri quanto significativi – e in questo modo conferisce alla sua narrazione degli sfondi drammatici.
 
Non è facile immaginare contrasti stilistici maggiori tra questi testi ugualmente antichi ed epici. Da una parte [nell’Odissea] fenomeni a tutto tondo, ugualmente illuminati, delimitati nel tempo e nello spazio, collegati tra loro senza lacune, in primo piano, pensieri e sentimenti espressi, avvenimenti che si compiono con agio e senza eccessiva tensione. Dall’altra parte [nella Genesi], dei fenomeni viene manifestato solo quel tanto che importa ai fini dell’azione, il resto rimane nel buio; vengono accentuati soltanto i punti culminanti e decisivi dell’azione; le cose interposte non acquistano esistenza; luogo e tempo sono indefiniti e bisognosi di chiarimento; i pensieri e i sentimenti restano inespressi, vengono suggeriti soltanto dal tacere e dal frammentario discorso; l’insieme, diretto con la massima e ininterrotta tensione a uno scopo, e perciò molto più unitario, rimane enigmatico e nello sfondo[11].
 
A differenza quindi del narratore omerico, il quale rende sempre i suoi personaggi luminosi, anche quando sono in gioco – come nell’Iliade – le pulsioni più irrazionali del loro cuore, il narratore biblico, sebbene onnisciente, è estremamente discreto a loro proposito, e in particolare per quanto riguarda le motivazioni dei personaggi.
Il minimalismo di questo narratore si esprime anche nel suo ripetuto ricorso all’ellissi che punteggia il racconto di lacune e altre omissioni intenzionali. Quando Daniele è sceso nella fossa dei leoni e il re pone i sigilli sulla pietra che ricopre questa fossa, il narratore non ci dice niente di ciò che avviene nel recinto della fossa, tra Daniele e le belve; preferisce seguire il re nei suoi appartamenti e nella sua insonnia, e farci tornare con lui di primo mattino «di fretta» alla fossa (Dn 6,18-20). Nell’episodio dell’adulterio di Davide con Betsabea (2Sam 11), il marito di costei sapeva o non sapeva che sua moglie lo ingannava con Davide? Alcuni indizi lo lasciano credere, altri no[12]. Che metta in chiaro le cose a posteriori (con in Dn 6) oppure no (come in 2Sam 11), il narratore obbliga il lettore ad avanzare delle ipotesi e a verificarle continuamente nel corso della lettura. Scrive Alter: «Siamo costretti ad arrivare al personaggio e al motivo — come in scrittori impressionisti quali Conrad e Ford Madox Ford — tramite un processo di inferenza, a partire da dati frammentari, spesso con momenti cruciali dell’esposizione narrativa strategicamente sottaciuti per essere proposti più avanti nella trama, e ciò conduce a prospettive molteplici e talvolta persino oscillanti sui personaggi. C’è in altre parole un mistero presente nel personaggio così come lo concepiscono gli scrittori biblici, un mistero che essi esprimono attraverso i loro tipici metodi di presentazione»[13]. Ci resta da vedere come la letteratura occidentale abbia ampiamente messo a profitto questa peculiarità del testo-matrice.
 
 
2. La Bibbia come matrice letteraria
 
Della letteratura occidentale si può dire che essa si sia ampiamente data da fare per riempire gli «spazi bianchi» della Scrittura. Il corpus letterario dell’Occidente assomiglia infatti a un palinsesto; esso è nato da un infinito processo di riscrittura delle trame riprese dalla Bibbia (senza dimenticare ovviamente la matrice greca), trame in cui si enunciavano, in modo per così dire invalicabile, l’inizio, la fine e la peripezia centrale della storia. Questo processo ha avuto una natura essenzialmente suppletiva: bisognava infatti sopperire alle indeterminatezze generate dalle ellissi del racconto. Si tratta di un processo innescato dalla tradizione ebraica antica, nella sua grande opera di traduzione (la Settanta e il Targum) e di interpretazione (il Midrash). Da sempre, la tradizione rabbinica ha puntato sugli «spazi bianchi» della Scrittura. A proposito dell’evento del Sinai, il Midrash dice così: «E la scrittura di Dio sulle tavole era “fuoco nero su fuoco bianco”» (fuoco nero delle lettere su fuoco bianco dello spazio «interletterale» e interlineare)[14].
Questa sottolineatura del bianco del testo ha a che fare con la caratteristica della lingua ebraica, che David Banon, nella sua bella introduzione alla lettura del Midrash, definisce una «lingua interstiziale»[15]. In ebraico, solo le consonanti sono decisive e nel testo sacro soltanto esse sono considerate ispirate; le vocali sono affidate all’interpretazione (per questo motivo si possono, in certi casi, «vocalizzare» significati diversi in una stessa parola consonantica). Ma ha a che fare anche con la poetica narrativa della Bibbia, la quale, come si è visto, moltiplica intenzionalmente le ellissi, i silenzi e le omissioni. Perché, per esempio, l’offerta di Caino, a differenza di quella di Abele, non è gradita a Dio? Il narratore sceglie di non rivelare il motivo della scelta divina: «Yhwh gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e l’offerta di lui» (Gen 4,4-5). Vi è dunque un’ellissi nel testo, l’omissione di un «per il fatto che…», che la tradizione interpretativa, nella Settanta, nel Targum e nel Midrash, si è ingegnata di completare[16].
La letteratura si è fatta sedurre dalla stessa dinamica[17]. Anch’essa, secondo la propria natura, ha amplificato il dato così conciso della Bibbia: i personaggi hanno dovuto pensare o parlare più di quanto il narratore abbia voluto riferire; hanno dovuto avere dei motivi per parlare e per agire al di là di ciò che il narratore biblico ha deciso di dirci. Nel libro di Giobbe, la moglie del saggio viene menzionata una sola volta, al cap. 2: «Ancora stai saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori» – «Tu parli da donna insensata», le risponde Giobbe (Gb 2,9-10). Nel suo romanzo breve, La moglie di Giobbe, Andrée Chedid ha dato voce e colto a questo personaggio che spunta bruscamente sul proscenio e poi sparisce:
 
Allora la donna parla, parla forte, parla piano. Misurando a grandi passi ciò che resta della loro casa, andando e tornando sul sentiero delle vigne distrutte, del fiume secco, la donna parla. Parla con e contro la Storia, con e contro gli esseri umani, che nelle loro ossa hanno bontà e violenza. La donna parla con tutto ciò che sgorga dalle viscere e si innalza verso non si sa dove. Parla, per lei sola e per ognuno. Cerca di recintare il suo pensiero, di fissare i suoi sentimenti, di capire le ragioni di tale devastazione. Spigola delle parole, qua e là, nella speranza di scoprire, con questa disordinata mietitura, la parola in grado di consolare Giobbe e di sostenerlo[18].
 
Il libro narrativo più breve della Bibbia, il libro di Giona, ha suscitato, proprio a motivo della sua concisione, una grande quantità di riscritture. I poeti, i romanzieri, i saggisti, gli psicanalisti (Ch. Baudelaire, I. Calvino, J. Chessex, J.-P. de Dadelsen, R. Frost, J. Grosjean, F. Kafka, H. Melville, D. Sibony, Ph. Sollers, M. Tournier) hanno letto tra le righe, tra le parole del racconto biblico, quasi a raccogliere la sfida dell’ellissi iniziale che governa l’insieme dell’intreccio: per quale motivo Giona, inviato da Dio verso est, se ne fugge all’ovest? «È in questo momento che ho capito», spiega il Giona di J. Chessex, «che da sempre sognavo un ventre in cui ritornare, in cui rifugiarmi, in cui abitare per l’eternità»[19].
In materia di riscrittura supplementare, la palma spetta ovviamente a Thomas Mann, il quale ha fatto della storia di Giuseppe e dei suoi fratelli (tredici capitoli nella Genesi) un romanzo di milleseicento pagine in quattro volumi. In uno studio intitolato «Giuseppe e la moglie di Potifar. Dalla Genesi alla riscrittura di Thomas Mann»[20], André Wénin si è soffermato sul tentativo di stupro di Giuseppe da parte della moglie di Potifar, il padrone della casa di cui Giuseppe era diventato il maggiordomo (Gen 39,7-20). Pochi versetti biblici, quattordici per la precisione, danno origine in Mann a un lungo racconto di duecentoventi pagine. Così, a proposito dell’invito della donna a Giuseppe — «Unisciti a me (šikbāh ‘immî)» (Gen 39,7) —, Mann scrive, non senza ironia nei confronti del narratore biblico che ha riportato soltanto queste due parole:
 
A dire il vero, siano presi da terrore al cospetto della troncata brevità di un resoconto che tiene così poco conto delle sventure imponderabili della vita, e poche volte come in questo momento avvertiamo il pregiudizio inflitto alla verità da una concisione e una laconicità estreme[21].
 
È per questo che Mann, negli spazi vuoti del testo biblico e sfruttando i dati del Targum e del Midrash, «svolge un lungo racconto per tentare di mettere in luce, con la massima finezza possibile, il volto nascosto della concatenazione reciproca dei sentimenti e delle azioni, come pure l’infinita complessità delle relazioni umane alle prese con la sofferenza. È così che un testo di mezza pagina diventa un racconto di duecentoventi pagine rigogliose e raffinate che lui stesso definisce come la “parte più romanzesca” dell’opera»[22].
 
 
3. La lotta contro il padre
 
Alla prospettiva supplementare appena menzionata, bisogna aggiungerne un’altra, più drammatica. La Bibbia è anche ciò con cui la letteratura occidentale si è misurata. È forse sorprendente, vista l’autorità, per così dire paterna, di cui sono investite le sacre Scritture? La storia della letteratura, spiega il critico letterario John Hollander, può essere concepita come una dialettica fatta di domande e risposte: «Un poema tratta un poema precedente come se ponesse una domanda e gli risponde, o lo interpreta, ne fa una glossa, lo corregge, in tutti i modi in cui un poema può dire: “In altre parole…”. In questo senso, tutta la storia della poesia può essere considerata come una catena di risposte ai primi testi (Omero e la Genesi), risposte che sono diventate loro stesse delle domande per le generazioni successive, incaricate a loro volta di rispondere»[23].
Quanto a Harold Bloom, egli interpreta questa dialettica secondo una modalità genealogica: si è sempre figli di un «padre» letterario, discepoli di un maestro, di un precursore o di un profeta. Basti ricordare la frase di Victor Hugo («Voglio essere Chateaubriand o niente») e aggiungere che il primo Rimbaud cercò di scrivere alla maniera di Hugo. In quanto genealogica, questa relazione ha anche a che fare con il complesso di Edipo[24]. Bloom ama riferirsi a Freud (che cita lui stesso il Faust di Goethe): «Ciò che hai ereditato dai padri tuoi, sforzati di farlo tuo»[25]. Nella sua opera The Anxiety of Influence, Bloom mette in evidenza le figure (nel senso di figure retoriche) di questa genealogia letteraria[26]. Nella maggior parte dei casi esse assumono la forma degli antagonismi, dal momento che l’erede può cercare di correggere o completare il suo precursore, sopprimerne la memoria, appropriarsi del suo «Io», fare in modo che l’opera più caratteristica del padre sia scritta dal figlio, ecc[27]. Questi rapporti di figliolanza letteraria sono tanto più drammatici quanto più l’autorità del padre è potente. La Bibbia, Shakespeare, Freud – ecco, secondo Bloom, «i testi dotati di maggior forza», all’origine delle genealogie tormentate della modernità letteraria[28].
In questa lotta, è talvolta la Bibbia che esce zoppa, sciancata o mutilata. Così, le appropriazioni di Giobbe nella modernità, specialmente nel teatro dell’assurdo, in Ionesco, Beckett, de Obaldia, trascurano spesso l’epilogo del libro; non hanno niente a che fare con l’happy end del racconto. «La recriminazione dei personaggi di Beckett contro un Dio che non rialza “tutti coloro che cadono”», scrive Marc Bochet, «si collega a quella di Giobbe abbandonato sul suo letame; i reietti di Beckett sono consegnati al loro triste destino di sommersi senza che nessuna trascendenza possa soccorrerli: si ha un bel attendere Godot, non arriva [….] Anche i personaggi di Beckett, frustrati nella loro vana attesa di un salvatore, finiranno per maledire questo Dio sordo e muto, come fa Mr. Tyler in Tutti coloro che cadono: “Tyler è un Giobbe moderno”»[29]. «Non c’è epilogo» dice, dal canto suo, l’ultimo capitolo de La moglie di Giobbe di Andrée Chedid. La grandezza del Giobbe moderno è quella dell’uomo schiacciato che, una volta rialzato, mantiene «la verticalità della speranza»[30] e interpella il divino senza attendere da lui un qualunque ristabilimento.
La «violenza» fatta al testo scritturistico può andare più lontano. Nel suo studio Canon and Creativity, Alter intitola il capitolo dedicato a Kafka «Distorcere (Wrenching) la Scrittura»[31]. Alter vi analizza le molteplici allusioni alla Genesi e all’Esodo che percorrono il primo dei tre romanzi di Kafka, America (del 1912, ma pubblicato nel 1927). Il modo in cui Kafka vi tratta la Scrittura, scrive Alter, è «al tempo stesso tradizionale e iconoclasta»[32]. Tradizionale nella tensione e nell’intensità spirituale con cui Kafka scruta il testo sacro (mettendo in atto la parola della Mishnah: «Girala [la Scrittura] e rigirala, perché in essa c’è tutto»: Pirqe Abot 5,22), o ancora nell’ingegnosità midrashica con la quale arricchisce la Scrittura e la tesse narrativamente; iconoclasta nella propensione di Kafka «a imprimere al testo una rotazione di 180 gradi, a estrarne valori e idee opposte a quelle che il testo biblico intende trasmettere, certamente contrarie in ogni caso a quelle del consenso interpretativo della tradizione. Se Kafka è un lettore midrashico della Scrittura, ciò che propone è molto spesso un midrash eretico»[33].
Se Kafka «distorce» la Scrittura, che rimane per lui un testo sacro, Joyce, nel romanzo che ha segnato la modernità, Ulisse, compie a questo riguardo un passo in più[34]. Con un’erudizione e un’ironia vertiginose, Joyce coniuga la trama della Bibbia ebraica con quella dell’Odissea di Omero, al punto da allineare i due racconti fondanti in ciò che Alter definisce un «canone sinottico», ormai profano. «Joyce vede nella Bibbia e nell’Odissea i due grandi racconti dell’origine e i due grandi modelli, nella nostra tradizione, della traiettoria della vita dei mortali. Ai suoi occhi tutto deriva alla fin fine da questi due testi fondanti, e il loro primato nella rappresentazione e nella comprensione dell’esperienza umana viene preso in considerazione dalla prima pagina del romanzo (in cui un uomo che porta il nome del profeta Malachia si confronta con un uomo che porta il nome del mitico eroe greco Dedalo) fino all’ultima»[35]. L’eroe di Joyce, Leopold Bloom, è al tempo stesso greco ed ebreo; alter ego di Ulisse, in cerca dell’Itaca del suo amore, è anche, ma non senza ambiguità, una figura biblica, nuovo Mosè, nuovo Elia, precursore del messia, e nuovo messia lui stesso, per via della totale assenza di volontà di nuocere che lo contraddistingue all’interno di un mondo straziato. Nelle due storie fondanti, Joyce ha trovato il paradigma, familiare da un lato, nazionale dall’altro, della nostra condizione di creature gettate nell’esilio dell’esistenza e animate dal desiderio di un ritorno all’unità dell’origine[36]. Ma Joyce fa svolgere questo ruolo di paradigma alla Bibbia spogliandola, attraverso la sua ironia, da ogni pretesa propriamente religiosa. «Joyce, parodiando la Bibbia in modo ripetuto e spesso prorompente, elimina tacitamente la sua pretesa a ogni autorità trascendente, affermando al contrario la sua canonicità meramente letteraria, simmetrica a quella dell’Odissea»[37].
Se la letteratura moderna giunge ad amputare la Scrittura, a distorcerla, o a «profanarla», le ha anche conferito una nuova risonanza, che il lettore credente sbaglierebbe a disconoscere. In diversi casi, infatti, e specialmente in quelli che sono stati menzionati, la letteratura associa il dato biblico alla propria inquietudine spirituale. «Senza la nobiltà delle scritture» scrive Paul Beauchamp, «non ci sarebbero sacre Scritture, né Libro ispirato se il libro, in sé, non avesse una destinazione così alta. Questo accostamento intimo, ‘familiare’, non espone ad alcun rischio di confusione fra la Bibbia e gli altri scritti: la Bibbia è fatta per essere decifrata e risuonare in mezzo alle altre lettere e alla loro esistenza; non c’è da temere che vi perda la sua tonalità propria. Liberiamoci piuttosto dall’incoerenza che ci induce, poiché bisogna spiegare la Bibbia con gli scritti antichi del Vicino Oriente, a fare astrazione dall’ambiente e dalla risonanza non meno appropriati che le arreca la nostra letteratura, evidentemente in maniera del tutto diversa»[38]. Se l’inquietudine di Joyce, quella di Kafka o quella del teatro dell’assurdo si scontrano con una certa comprensione della Scrittura, le conferiscono anche una inedita risonanza (che oggi è importante comprendere). Il credente può meditare senza fine sul fatto che questa inquietudine si esprima, ancora e sempre, facendo ricorso alla «lingua» della Bibbia. Ciò che si chiama la grazia ha una storia comune con l’ironia, e il trattamento spesso ironico che la letteratura moderna riserva al dato scritturistico non è privo di utilità: l’ironia letteraria non ha uguali nel disinnescare le bombe che altri si ingegnano di collocare negli scritti sacri. Ma non bisogna fraintendere: presso la maggior parte di questi autori, poeti, romanzieri o drammaturghi, questa ironia deriva da un’inquietudine propriamente spirituale. Spetta al credente capire tale inquietudine e capirla fino in fondo. A lui anche il compito di capire questa inquietudine nella «lingua» in cui ha scelto di esprimersi (la «lingua» della Bibbia) e, ironia per ironia, di trovare in questa Bibbia motivi per portare l’inquietudine moderna davanti a Dio.


[1] H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia ad oggi (Milano 1992) 13.
[2] Bloom infatti illustra a questo punto la primitiva trama narrativa del Pentateuco, che egli chiama lo «Jahwista» o anche lo «scrittore J», con riferimento ad una teoria storico-critica oggi ampiamente contestata (cf. sullo stesso tema H. Bloom – D. Rosenberg, Il libro di J (Milano 1992). Ciò non inficia la pertinenza della constatazione di Bloom secondo cui il libro dei Giubilei è uno snaturamento del racconto biblico.
[3] Bloom, Rovinare le sacre verità, 13-14.
[4] N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura (Einaudi Paperbacks 170; Torino 1986).
[5] G. Steiner, Préface à la Bible hébraïque (Bibliothèque Idées; Paris 2001) 113-116.
[6] E. de Luca, Una nuvola come tappeto (Milano 1991) 9.
[7] Cf. supra pp. *** (cap. II) la presentazione di questa tesi d’insieme.
[8] In ordine al discorso speculativo, cf. P. Ricœur, «Le récit interprétatif. Exégèse et théologie dans les récits de la Passion», RSR 73 (1985) 18-19. Un episodio della storia della Chiesa ha qui il valore di una parabola. Nel 1607, il papa Paolo V pose fine alla cosiddetta controversia de auxiliis, tra i gesuiti e i domenicani, controversia che riguardava le reciproche relazioni tra la grazia e la libertà. Il papa vi pose fine con una sorta di non luogo a procedere, proibendo a ciascuna delle controparti di considerare l’altra come eretica. Sospendere in questo modo la disputa dei teologi significava anche riconoscere i limiti del discorso teologico speculativo rispetto a ciò che pure costituisce la trama delle nostre storie: l’incontro tra la libertà di Dio e le nostre libertà individuali. Ciò che sfugge alla teologia speculativa è paradossalmente ciò che si può leggere, con piacere, abbondanza e precisione, nel racconto biblico, nel suo modo di rappresentare le azioni e le interazioni divine e umane.
[9] R. Alter, L’arte della narrativa biblica (Biblioteca biblica 4; Brescia 1990) 32.
[10] Auerbach è fedele in ciò alla raccomandazione di Chateaubriand: «Si è tanto scritto sulla Bibbia, la si è tanto commentata, che forse il solo modo che ci resta per farne percepire la bellezza è di accostarla ai poemi di Omero» (Il genio del cristianesimo, seconda parte, libro V, cap. 3).
[11] E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie 35; Torino 2000) I, 13.
[12] Cf. M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading (Indiana Literary Biblical Series; Bloomington, IN 1985) 190-222.
[13] Alter, L’arte della narrativa biblica,155.
[14] Tanhuma, Bereshit 1. Sul midrash, cf. il capitolo precedente.
[15] D. Banon, La lettura infinita. Il midrash e le vie dell’interpretazione nella tradizione ebraica (Di fronte e attraverso 845; Milano 2009) 181.
[16] Cf. la rassegna raccolta in Caïn et Abel. Genèse 4, CEvSup 105 (1998).
[17] La parentela tra i due approcci è tale che R. Alter non esita a caratterizzare le riscritture propriamente letterarie come altrettante «allusioni midrashiche» (cf. The Pleasures of Reading in an Ideological Age [New York 1989] 132-133); cf. anche a questo proposito la raccolta di studi pubblicata da G. H. Hartman – S. Budick, Midrash and Literature (New Haven, CT 1986).
[18] «Alors la femme parle, elle parle haut, elle parle bas. Arpentant ce qui reste de leur demeure, allant et venant sur le sentier des vignes détruites, de la rivière à sec, la femme parle. Elle parle avec et contre l’Histoire, avec et contre les humains, qui ont bonté et violence dans leurs os. La femme parle avec tout ce qui surgit des entrailles et s’élève vers on ne sait où. Elle parle, pour elle seule et pour chacun. Elle cherche à boucler sa pensée, à fixer ses sentiments, à saisir les raisons de ce saccage. Elle glane des mots d’ici, de là, espérant, à travers cette moisson déréglée, découvrir la parole qui soulagera Job et qui les soutiendrait» (A. Chedid, La femme de Job [Paris 1993] 27-28).
[19] J. Chessex, Jonas (Paris 1987) 25. Per le riprese letterarie di Giona, cf. M. Bochet, Jonas palimpseste. Réécritures littéraires d’une figure biblique (Le livre et le rouleau 27; Bruxelles 2006).
[20] A. Wénin, «Joseph et la femme de Putiphar. De la Genèse à la réécriture de Thomas Mann», Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue (Le livre et le rouleau 6; Bruxelles1999) 123-167.
[21] Ivi, 285.
[22] Ivi, 132-133.
[23] J. Hollander, Melodious Guile. Fictive Pattern in Poetic Language (New Haven and London 1988) 56.
[24] All’inizio del suo studio Canon and Creativity. Modern Writing and the Authority of Scripture (New Haven, CT 2000) 3, R. Alter saluta l’impresa di Bloom prendendo le distanze proprio su questo punto. Il rapporto che Alter preferisce indicare con il termine «allusione midrashica» non è però esente da un rapporto conflittuale: cf. The Pleasures of Reading, 133-134.
[25] Bloom, Rovinare le sacre verità, 17.
[26] H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia (Campi del sapere; Milano 1983).
[27] Cf. anche gli studi raccolti in H. Bloom, Agone. Verso una teoria del revisionismo (L’alingua 44; Milano 1985).
[28] H. Bloom, Poetics of Influence (New Haven, CT 1988) 423.
[29] M. Bochet, Job après Job. Destinée littéraire d’une figure biblique (Le livre et le rouleau 9; Bruxelles 2000) 15.
[30] Ivi, 129.
[31] Alter, Canon and Creativity, 63-96.
[32] Ivi, 66.
[33] Ivi. Aggiungiamo con Alter: una rotazione a 180 gradi, è proprio ciò che Kafka impone all’episodio della torre di Babele che diventa, in America, la galleria del pozzo (di miniera) di Babele.
[34] Mi rifaccio per ciò che segue al capitolo che Alter dedica a Joyce («James Joyce: The Synoptic Canon») alla fine dello studio già citato, Canon and Creativity, 151-183.
[35] Ivi, p. 158.
[36] Così in questa scena in cui Stephen riconosce una levatrice che cammina sulla spiaggia, cosa che lo porta (nel flusso di coscienza associativo tipo della scrittura joyciana) a rivisitare la propria nascita e le origini dell’umanità: «Una sua consorella mi trasse urlante in vita. Creazione dal nulla. Che cos’ha nella borsa? Un aborto con un cordone ombelicale strasciconi, soffocato in ovatta rossastra. I cordoni di tutti son legati l’uno all’altro nel passato, cavo intrecciato d’ogni carne (…) Volete essere simili a dèi? Contemplatevi l’onfalo. Pronto. Parla Kinch. Mi dia Edenville. Alef, alfa: zero, zero, uno» (J. Joyce, Ulisse [Milano 1960] 52).
[37] Alter, Canon and Creativity, 172.
[38] P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento. Compiere le Scritture (Biblica 1; Milano 2001) II, 86.

 

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J.P. Sonnet, La Bibbia e la letteratura dell'occidente183.22 KB