Questione di supporto: dal papiro al codice

 


(tratto da André Paul, La Bible et l'Occident, Bayard, Paris 2007, pp. 169-175)

 


meghillah di Ester

 

Nella seconda metà del II sec., in ambito cristiano, gli scritti letterari assumono una forma del tutto nuova, il «quaderno con le pagine», in latino codex. Questo fatto andava di pari passo con la fissazione, la raccolta e la diffusione delle opere che i cristiani riconoscevano come «Scritture». Tale inedita presentazione del libro si imporrà fino ad oggi. Nell’antichità, essa soppianterà progressivamente il rotolo, in ebraico meghillah, in latino volumen.

Nel mondo greco-romano, il passaggio dal volumen al codex era cominciato nel I sec. e terminerà di fatto all’inizio del V. Fin da subito, i cristiani furono i primi e ardenti promotori di questa forma rivoluzionaria di libro. Alcuni pensano che ne fossero gli inventori, ma nessuno sarebbe in grado di provarlo. La simultaneità dell’affermazione del codice letterario con la formazione del corpus cristiano delle Scritture è tuttavia sorprendente. Parallelamente, la pergamena soppiantò il papiro. Gli ebrei la preferivano da tempo. Presso di loro, l’uso della pelle si era progressivamente diffuso a partire dal VI sec. a.C.; in questo modo, essi imitavano i Persiani, loro dominatori. I manoscritti ritrovati nelle grotte di Qumran sono dei preziosi testimoni, visto che la maggior parte di essi è su pergamena. Alle soglie dell’era cristiana, si trattava di un’eccezione ebraica, che diventerà cristiana in seguito. Nella società ellenistica e poi romana, i rotoli erano di solito su papiro. Nella tarda romanità, verso il IV sec, si impose l’uso generalizzato della pergamena. Ciò fu determinante per il successo irreversibile del codice.

Il rotolo si presentava come una striscia continua, utilizzata da un solo verso e limitata in lunghezza. Qualche caso di «opistografia» (dal greco opistographos, «scritto sul verso») o di scrittura sulle due facce si incontrano però nei testi di Qumran.

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Rotolo epistografico proveniente da Qumran

Le biblioteche avevano imposto alcune normalizzazioni. Il rotolo era lungo tra sette e dieci metri. Un dialogo di Platone corrispondeva ad una misura standard. Una simile costrizione determinò la suddivisione di lungi insiemi in unità più brevi. Così, la Legge di Mosè si trovò suddivisa in cinque libri, ognuno con il proprio titolo. Alcuni rotoli comprendevano più scritti di taglia media, per esempio i dodici piccoli Profeti, ma di solito la lunghezza del libro coincideva con quella del volumen. Fino al III sec. a.C., l’ampiezza dei rotoli era piuttosto ridotta. Ognuno poteva accogliere, per esempio, un libro di Omero, una tragedia di Euripide o un discorso di Demostene, cioè un testo che andava da 600 a 1000 righe o versi. La lunghezza dell’opera poteva essere determinata da quella del rotolo di cui si disponeva. Talvolta il tempo di una lettura pubblica serviva da misura nella delimitazione di una unità. Le cose evolsero. La dimensione del rotolò si allungò. Ciò è attestato tra l’altro dalla lunghezza dei libri storici di Polibio (II sec. a.C.) o di Diodoro Siculo (I sec. a.C.). Tre secoli prima, i libri di Tucidide erano ben più corti. La situazione cambiò radicalmente con il codice, il quale non imponeva tali limiti. Alcuni fogli separati venivano tagliati nel formato voluto, impilati uno sull’altro, legati nel mezzo con un filo e infine piegati. Il tutto poteva ricevere una copertina o una rilegatura. La più antica che si possieda è a forma di portafoglio, con un codice di Filone di Alessandria del III sec. Libri di grande valore o un insieme di libri potevano essere copiati su un solo codice. La costituzione del corpus letterario trovo qui un potente incentivo. I primi e grande beneficiari ne furono gli scritti composti e raccolti dai cristiani.

Il termine codice, anticamente caudex, è latino. La sua traslitterazione greca kodix è relativamente tarda. Il termine indica dapprima una raccolta di inventari o di archivi. Nel III sec., dopo la riforma di Diocleziano, lo si incontra nei papiri egizi con il significato di registro fiscale o di catasto. Nel mondo greco, non esisteva un termine specifico per il codice letterario. Si usava biblos o biblion, «libro». Si faceva ricorso ad altri vocaboli, in funzione dell’uno o dell’altro aspetto o componente dell’oggetto: membranai «pergamena», deltos«tavoletta», derma «pelle», pyxios «tavoletta», teuchos«tomo», somation «piccolo corpo».

L’origine del codice è romana. Presso i Latini, il termine indicava un insieme di tavolette legate tra loro da una cordicella. Seneca (morto nel 65) attesta che «il nome caudex è dato dagli antichi a un insieme di più tavolette» (plurium tabularum contextus caudex apud antiquos uocatur); e precisa che «il nome di codex è dato alle tavolette pubbliche» (publicae tabulae codices dicuntur). Si chiede poi se Claudio Caudex, console nel 264 a.C., non derivasse il suo soprannome da caudex, la forma antica del codice (De brevitate vitae 13). Soltanto all’inizio del III sec. il termine indicherà dei quaderni di pergamena o di papiro con dei testi letterari: all’inizio e fino a quel momento li si chiamava membranae, «pergamena». La prima attestazione letteraria del «codice» nel senso di libro si incontra in un poema di Commodiano della seconda metà del III sec.

Si possono distinguere tre tappe nella storia della formazione e dell’affermazione del codex letterario.

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1. Inizialmente vi è la tavoletta da scrittura, di cera o di legno, probabilmente di origine orientale. La si utilizzò in Grecia e soprattutto a Roma per i conti, i testamenti, la registrazione delle nascite o per gli esercizi a scuola. Si legavano le tavolette per due, tre o più, e ciò dava il dittico, il trittico, ecc. Si praticava un foro nel quale passava una cordicella.

2. Venne poi il libretto di pergamena (membranae in latino e poi membranai in greco), il precursore immediato del codice vero e proprio. Probabilmente da Roma, il suo uso si diffuse assai raidamente, nel I sec., fino al Medio Oriente.

Sono questi i «quaderni di pergamena», chiamati proprio membranai, che Paolo di Tarso chiede a Timoteo di portargli (2Tm 3,14). Si trattava di quadernetti di note, di appunti o brogliacci di lettere. Una trentina d’anni prima, sembra che i discepoli di Gesù di Nazareth abbiano usato delle membranai nelle loro missioni, su cui avrebbero annotato le dichiarazioni del loro maestro e soprattutto le loro relazioni spesso commentate di ciò di cui erano i testimoni diretti. In vista degli spostamenti, probabilmente frequenti, nelle regioni ellenofone, alcune di queste note dovevano essere tradotte in greco. Questa potrebbe essere l’origine scritta delle tradizione raccolte e trasmesse dalla prima letteratura cristiana, dalla fine del I sec. alla metà del II. Si pensi, tra l’altro, alle raccolte dei «loghia del Signore». I racconti evangelici non erano ancora né diffusi né identificati in quanto tali.

3. Dal libretto di pergamena al codice letterario il passo fu breve. Alcuni lo compirono senza attendere troppo. Vi era infatti la tendenza a svalutare le membranae, riservate ai brogliacci da buttare e alle note personali. E il rotolo di papiro si mantenne a lungo, a Roma come altrove: restava il supporto nobile delle opere letterarie. Bisognerà attendere la fine del IV sec. perché gli effetti di tale rivoluzione fossero acquisiti. È durante questo periodo di esitazione che i cristiani si distinsero. Fin dal II sec., essi adottarono prevalentemente il codice, a cui riservarono presto l’esclusività della loro produzione scritta. Era per loro un modo di sottolineare la differenza con gli Ebrei. Ma ancora più, il mezzo per imporsi attraverso la mediazione peculiare dei loro scritti nella società culturale del mondo greco-romano. Ma non sembra che abbiano inventato la cosa. Negli anni 84-86, il poeta e polemista Marziale (Epigrammi I,2) raccomandava le membranae contenenti le proprie opere e altre come quelle di Omero, di Virgilio, di Tito Livio e di Ovidio. Non senza eccessi, egli vanta la capacità e la maneggevolezza di questa nuova forma di libro.

Sino alla fine del IV sec., le statistiche elaborate a partire dai documenti ritrovati sono eloquenti. Per i testi cristiani, a partire dalla fine del II sec., la percentuale di codici è molto superiore a quella di rotoli; e il passaggio dal papiro alla pergamena sembra verificarsi pressoché sistematicamente, mentre il contrario si verifica per le opere greche e latine. Quanto agli ebrei, essi rimasero fedeli al rotolo di pergamena, tradizionale presso di loro.

 

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Ragioni pratiche ed economiche possono aver spinto i cristiani ad adottare il codice con rapidità e determinazione. Sull’esempio di Marziale, certo spinto dalla propaganda, essi dovettero apprezzare la comodità dell’oggetto nei loro viaggi missionari. Può aver giocato anche il ricorso più agevole a dei passi paralleli nelle Scritture, più facili da consultare. Vi è anche il costo più contenuto del prodotto, la sua solidità e l’estensione del contenuto. Altre cause hanno influito, probabilmente più determinanti. Dalla fine del I sec. all’inizio del II, circolavano delle raccolte delle lettere di Paolo. Si tratta delle prime vere e proprie edizioni di ciò che si chiamerà il «corpus paolino». Il numero delle lettere variava da una raccolta all’altra, sette, otto o dieci; ma l’ordine di classificazione tendeva all’uniformità. Simili operazioni erano di un’importanza capitale. E il codice nascente offriva ai creatori e ai diffusori di testi cristiani la qualità di un supporto desiderato. Dal momento che la nuova religione aveva la vocazione all’universalismo, ci si doveva comportare di conseguenza. La conservazione, la comunicazione e l’uso del patrimonio scritto si trovavano meglio garantiti dal codice, soprattutto in pergamena.

In ambito cristiano, si manifestò un effetto di reciprocità tra, da una parte, lo sviluppo e la promozione del codice e, dall’altra, la costituzione delle collezione di scritti riconosciuti e omologati come «Scritture». Prima vennero i libri della Settanta, poi le lettere di Paolo e infine i vangeli e altri scritti. In questo modo, per forma, per confezionamento e per contenuto dei loro libri, i cristiani si distinguevano tre volte dagli ebrei. Il codice recava in sé un dinamismo assemblatore; la sua ampiezza era percepita come illimitata, perlomeno in teoria. Liberati dalla costrizione fisica del rotolo, gli scribi cristiani andarono oltre. Solo gli gnostici e altri eresiarchi, grandi produttori di libri, furono dei seri concorrenti. Si noti che il filosofo Porfirio, morto a Roma verso il 305, adottò il codice per l’edizione delle Enneadi di Plotino, suo maestro. Egli faceva della sua opera, sull’esempio delle Bibbie cristiane e degli scritti gnostici, una sorta di bibbia della sapienza ellenistica, ad uso dei pagani colti. Gli ebrei non poterono evitare l’impatto dell’ambiente circostante e poco a poco l’uso del codice si diffuse presso di loro. Tuttavia, la lettura della Torah in sinagoga continuò ad essere svolta su rotolo; il codice veniva consentito solo per l’insegnamento o lo studio. Vedere dei cristiani realizzare delle copie della Legge sottoforma di codices ha probabilmente turbato gli ebrei fin dalla metà del II sec. I libri santi venivano trattati alla stregua di quaderni per appunti o di brogliacci; vi era in ciò qualcosa di sacrilego. Provenienti da ambienti urbani, a loro agio con il commercio e la trasmissione di idee, i cristiani promotori del codice manifestavano una viva presa di coscienza della loro differenza rispetto all’ebraismo. In questo modo, essi contribuirono ad inaugurare un diverso mezzo di comunicazione, anzi una nuova modalità di cultura. A differenza degli ebrei, essi si inserirono del tutto naturalmente nella società circostante con il significativo apporto di una nuova risorsa culturale. Del resto, nelle loro assemblee diventate regolari, i rotoli della Legge si trovarono assai relativizzati rispetto al Vangelo come memoria e come messaggio: era in riferimento a quest’ultimo che essi celebravano. Ciò che essi proclamavano come santo o sacro non erano né prima di tutto né essenzialmente dei libri.

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