Leopardi e la Bibbia

 
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di Lisa Cattaneo
 
1. LA FORMAZIONE
Nella biblioteca paterna leopardi ha potuto leggere la Bibbia poliglotta (Londra 1657); Bibbie del Cinqe, Sei e Settecento nelle lingue originali; la Vulgata; Bibbie in traduzione moderna; trattati di teologia, morale, dogmatica; opere di consultazione storico-linguistica sulla cultura ebraica; commenti a testi biblici; opere poetiche di ispirazione scritturale fanno della biblioteca paterna, quotidianamente frequentata, l’ideale luogo di formazione per un uomo di chiesa quale Giacomo, nei desideri del padre, sarebbe dovuto diventare.
Seguendo la tradizione di famiglia, i giovani Leopardi ricevono, in forma privata, un’educazione gesuitica, secondo la Ratio studiorum della Compagnia di Gesù, nello spirito, cioè, di Ignazio, la cui dottrina nasce da fonti quasi esclusivamente bibliche. Criterio didattico che guida la scelta delle pagine bibliche per l’educazione religiosa dei giovani vede i Vangeli da una parte, i Libri Poetici e Sapienziali dall’altra. La Ratio prevede anche lo studio dell’ebraico e del greco oltre naturalmente al latino.
Dall’epistolario del conte Monaldo, sappiamo che per l’ebraico e il greco il giovane Giacomo è da considerarsi autodidatta. Tra le due lingue bibliche, Leopardi è interessato in particolare alla prima, come dimostrano le molte pagine dello Zibaldone dedicate alla lingua e alla cultura ebraica in senso lato, mentre i riferimenti al greco biblico sono molto modesti.
A 18 anni, con li fratello Carlo, traduce il Salmo 46in sette lingue: inglese, francese, spagnolo Carlo; italiano, latino, latino metrico e greco Giacomo. Leopardi, tuttavia, dall’infanzia alla maturità, quando cita la Bibbia, la cita dalla Vulgata di Girolamo, che rappresenta il referente principe della sua formazione scritturale.
In molte pagine dello Zibaldone, Leopardi annota le sue riflessioni sui vari libri biblici che legge, in articolare i primi capitoli di Genesi, Ecclesiaste, che attribuisce a Salomone, Giobbe.
Nonostante questa documentata formazione letterario-religiosa, nonostante già autori come De Sanctis,
Gentile, Levi avessero messo in luce la poliedricità di tale formazione, la critica ha ignorato per lungo tempo la presenza o, perlomeno, la portata della componente biblica nell’opera leopardiana, limitandosi, nella miglior delle ipotesi, a sottolineare occasionalmente alcune vistose concordanze testuali. E questo è dovuto principalmente al pregiudizio, soprattutto in casa nostra, che Bibbia sia uguale a cristianesimo. Quando ci si trova, quindi, di fronte ad autori con una precisa identità cristiana, come Dante o Manzoni, si dà per pacifica l’ascendenza biblica, mentre per autori “laici”, non passa neppure per l’anticamera del cervello la possibilità di una presenza della Bibbia nelle loro opere.
Ignoranza della Bibbia come opera anche letteraria e pregiudizio ideologico non permettono, soprattutto non hanno permesso per lungo tempo (ora le cose, per la verità, stanno cambiando), di valutare appieno la funzione di testo cardine della formazione occidentale assunta dalla Scrittura.
 
 
2. IL LIBRO DELLINFANZIA
Mentre nella produzione del giovane Leopardi troviamo titoli esplicitamente religiosi (Crocifissione e morte di Cristo, il progetto di una serie di inni sacri dei quali realizza solo l’Inno ai patriarchi), nelle opere della maturità la Bibbia sparisce dalla superficie per affondare in un humus da cui generano nuovi frutti.
Ci spiega questo fenomeno un breve passo di Gabriel Josipovici (Il libro di Dio, Rusconi, Milano 1992) in cui si afferma che la nostra percezione delle Scritture è sempre quella di un libro speciale; sia che siamo credenti sia che non lo siamo, «tendiamo a pensare alla Bibbia come a qualcosa di estremamente differente da ogni altro libro (…) Una volta la Bibbia non era un libro, ma storie raccontateci dai nostri genitori. Quando una storia ci viene letta, raccontata nell’infanzia noi l’accettiamo senza porci domande. Riferitaci da qualcuno in cui crediamo, e che forma parte del mondo nel quale viviamo, essa ci appare naturale ed inevitabile così come il mondo stesso».
La Bibbia è il libro dell’infanzia anche per Leopardi, è una storia letta e riletta nell’infanzia, una storia che racconta una storia di salvezza. È quindi carica di un valore emotivo che non trova paragoni con alcun altro testo. S’intreccia col vissuto fino a penetrare nell’inconscio come una sorta di messaggio subliminale di straordinaria efficacia.
Leopardi, una volta adulto, rifiuta con l’intelligenza critica il contenuto del libro dell’infanzia, ma la forma, lo stile, il ritmo, la struttura della Bibbia non possono essere intaccate, perché ormai divenute costitutive della sua forma mentis.
Per la poetica leopardiana, poi, l’infanzia dell’individuo corrisponde all’infanzia dell’umanità «imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli, e partecipi di quell’ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole gli astri e gli animali e le piante e le mura dei nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna…» (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica).
Completiamo con lo Zibaldone: «Nella Bibbia bisogna considerare l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima (anzi di un popolo quasi primitivo affatto nei costumi ec. e certo la più antica immaginazione che si conosca oggidì); ben attese e pesate e valutate quanto si deve queste due qualità che nella Scrittura si congiungono, niuno più si farà maraviglia della straordinaria forza ch’apparisce nei Salmi, nei Cantici, nel Cantico, nei Profeti, nelle parti e nelle espressioni poetiche della Bibbia, alla quale forza basterebbe forse una sola di dette qualità» (3543).
 
 
3. I DEBITI
Per svolgere questa sezione, potremmo partire da quei testi biblici per i quali è evidente una volontà di appropriazione da parte di Leopardi, come procede Paolo Rota nel suo saggio Leopardi e la Bibbia, nel quale prende successivamente in esame Genesi, Salmi, Qoelet, Giobbe, Vangeli con relativi rimandi all’opera leopardiana. Oppure si può procedere in senso inverso: da Leopardi risalire alla Bibbia. Scelgo il secondo senso, perché mi sembra metodologicamente più corretto, anche se il primo sarebbe, forse, più piano.
 
a. Il rovesciamento.Il riuso che Leopardi fa del materiale scritturistico passa spesso attraverso il rovesciamento quando non la negazione dello stesso; e proprio questo prova come la lettura leopardiana della Bibbia non sia mai “indifferente” .
Alcuni grandi topoi della poesia leopardiana: camminare/errare - caducità della giovinezza vanità delle cose deserto interrogazione, vengono dalla Bibbia, pur se mediati da Petrarca, Tasso, Chiabrera, ecc. Leopardi stesso lo afferma: «La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l’Alfieri nella sua Vita. Non per altro se non perché essendo i più antichi, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà». (Zibaldone, 11 Maggio 1821).
Leggiamo alcuni versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia. (vv. 21–36)
 
Il pastore è figura biblica per eccellenza così come il termine errare errante: colui che ha perso l’orientamento, che vaga senza meta, perché non ha una guida.
Anche il cammino è topos fondamentale nella Bibbia, in duplice valenza:
Il Signore veglia sul cammino dei giusti,
ma la via degli empi andrà in rovina (Sal 1, 6)
 
È la vocazione di Abramo:
«Il Signore disse ad Abram. “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò…”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, …e si incamminarono verso il paese di Canaan» (Genesi 12, 1-2 .4.5)
 
ma è anche la condanna di Caino:
«Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra» (Genesi 4, 10-12).
Questa è la sorte di chi confida in se stesso,
l’avvenire di chi si compiace nelle sue parole.
Come pecore sono avviati agli inferi,
sarà loro pastore la morte;
scenderanno a precipizio nel sepolcro,
svanirà ogni loro parvenza:
gli inferi saranno la loro dimora. (Salmo 49, 14–15)
Il pastore leopardiano è il negativo del pastore del Salmo 23,1–4:
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca,
mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
 
È il negativo del Davide del Salmo 51,3.14-15:
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
E i peccatori a te ritorneranno.
 
È invece il calco del Salmo 49,15 (cfr sopra) amputato, però, del versetto 16:
Ma Dio potrà riscattarmi,
mi strapperà dalla mano della morte.
 
Ancora: leggendo Canto notturno …
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dire questa
Solitudine immensa? ed io che sono? (vv 84-89)
 
non è possibile non risentire il Salmo 8:
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perché te ne curi? (vv 4-5)
 
Leopardi giovane scriveva «David prendeva dalle stelle argomento per elevarsi a Dio»:
I cieli narrano la gloria di Dio,
e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio
e la notte alla notte ne trasmette notizia. (Salmo 19, 1-3)
 
Per il salmista, la contemplazione del cielo è occasione di preghiera; per Leopardi la contemplazione del cielo, anziché portare alla lode del Creatore, porta alla commiserazione della creatura, che si chiede angosciata ed io che sono? senza avere risposta.
Stessa domanda, stessa ri-scrittura troviamo nell’ultimo esito della poetica leopardiana
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto, e quando miro
quegli ancor più senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? (Ginestra vv. 158-185)
 
A questa domanda, rispondono i vv. 186-201:
E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol cui premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
 
Il Salmo 8, alla domanda «che cos’è l’uomo», risponde:
…l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
tutti i greggi e gli armenti,
tutte le bestie della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
che percorrono le vie del mare.
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra. (vv. 6–10).
La risposta di Leopardi, che pure parte dalla stessa domanda del salmista, è diametralmente opposta: il cielo del Leopardi non è il cielo di David, ma Leopardi conosce bene il cielo di David.
 
b. Il tempo. Tema tipicamente leopardiano è il fluire del temposecondo la concezione lineare ebraico-cristiana: il Creatore pone l’uomo in un giardino perfetto, che in quanto tale non muta, è fuori dal tempo. Il peccato spezza l’incanto dell’hortus conclusus e apre al tempo che passa, apre alla fatica della storia, al difficile, ma fiducioso cammino del popolo sostenuto dalla promessa di Dio verso il “giorno di Adonai”. Per la Bibbia il tempo, quindi, prende senso dal futuro escatologico, ha senso in funzione della fine dei tempi.
Anche per Leopardi il tempo è lineare, è fatto di passato (che si rimpiange), di presente (che apre alla speranza), ma è decapitato del futuro escatologico, del futuro metastorico, per cui il tempo che viviamo, il tempo storico non è attesa del giorno del Signore, ma attesa frustrante di un futuro che non mantiene le promesse, è lo sfiorire della giovinezza, è il morire della speranza.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie d’intorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
…….
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
…..
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovinezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti (A Silvia vv. 1-12.28-29.49-61)
Questo di sette è il più gradito giorno
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave. (Il sabato del villaggio vv. 38–51)
 
Inevitabile, a questo punto, il rimando a Qoelet, che, insieme a Giobbe, è il libro biblico più presente nell’opera leopardiana.
Sta’ lieto, o giovane, nella tua giovinezza,
e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù.
Segui pure le vie del tuo cuore
E i desideri dei tuoi occhi.
………….
Caccia la malinconia dal tuo cuore,
allontana dal tuo corpo il dolore,
perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio. (11, 9a/b-10)
 
Ma perché Leopardi introduce quel Altro dirti non vo’ ? perché c’è anche un 9c:
Sappi però che su tutto questo
Dio ti convocherà in giudizio
 
che si lega a Genesi 3, 6:
«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza»,
 
e che il nostro Poeta, sopprimendolo, dimostra, senza equivoci, di conoscere nella lettera e nello spirito.
 
c. La ragione. Abbiamo già evidenziato, nella seconda parte, che, per Leopardi, storia dell’individuo e storia dell’umanità corrispondono: in entrambe, la svolta avviene ad opera della ragione, che, rinnegando la natura, scopre il vero, smascherando le illusioni.
E siamo di nuovo alla Bibbia:
«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». (Genesi 2,15-17; 3,4-5).
«La colpa dell’uomo – commenta Leopardi nello Zibaldone – fu volerlo sapere per opera sua, cioè non più per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva… Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; …Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta: ragione, parlando assolutamente, non male adoperata, giacché non cercava se non la scienza del bene e del male… il decadimento dell’uomo non consisté nel decadimento della ragione, anzi nell’incremento. (397–398 ).
 
d. L’incremento della ragione pone fine all’età dell’infanzia, delle illusioni e dà inizio alla maturità e, con la maturità, all’infelicità. Di nuovo, risuona il Qoelet:
«Io, Qoelet, sono stato re d’Israele in Gerusalemme… Pensavo e dicevo tra me: “Ecco, io ho avuto una sapienza superiore e più vasta di quella che ebbero quanti regnarono prima di me in Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento, perché molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore. (1, 12.16–18).
 
 
Per la Bibbia, la tragedia è ineliminabile dalla storia, ma non ne è l’ultima parola:
Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse. (Isaia 9,1).
Consolate, consolate il mio popolo,
dice il vostro Dio.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che è finita la schiavitù; (Isaia 40,1-2a).
«Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete» (Mt 28,6-7).
 
Per il Leopardi del 1826, esiste solo la tragedia:
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male, che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non è altro che un male, né diretti ad altro fine che al male. Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose; tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso de’ tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. ( Zibaldone Bologna, Aprile)
 
Il rimando a Genesi 1, al primo racconto della creazione, è inevitabile: ad ogni atto creativo per ben sei volte, leggiamo E Dio vide che era cosa buona; alla settima, dopo la creazione dell’uomo, Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
Il terrificante crescendo leopardiano riprende la struttura reiterata di Genesi, rovesciando radicalmente la cosmogonia biblica: dalla benedizione si passa alla maledizione. Mai, come quando scrive queste parole, Leopardi ha davanti a sé la parola biblica. Con un’immagine estremamente pregnante, una studiosa ha scritto: «qui la scrittura leopardiana sembra davvero lo specchio negativo della Bibbia: la ribalta, ma senza cessare un solo secondo di fissarla» (Elena Niccoli).
 
e. Leopardi fraternizza non solo con Qoelet, ma anche con Giobbe, «uomo integro e retto, (che) teme Dio ed è alieno dal male» (Gb 2, 3). Il libro di Giobbe, ancor più di Qoelet, sembra lontano anni luce dalla struttura tragedia-commedia propria della Bibbia: racconta, infatti, il tragico inganno ordito da Dio e Satana, uniti in una assurda scommessa, ai danni di un giusto. Lo scopo ultimo del libro non è quello di spiegare il mistero della sofferenza ingiusta e neanche quello di risolvere il problema del male, è piuttosto il tentativo dell’uomo, turbato e sconvolto dal dolore, di capire la propria posizione di fronte al Dio santo. Giobbe, infatti, non si lamenta per tutte le disgrazie piovutegli addosso, ma soffre terribilmente per il silenzio di Dio, al quale si rivolge con domande sempre più incalzanti, sostenute dalla dignità, dalla fierezza del giusto, che chiede a Dio di riconoscere pubblicamente la sua innocenza. Giobbe non si vergogna di gridare il suo dolore, esige una risposta, che non viene, ma che non per questo cessa di essere richiesta attraverso angosciose invocazioni, laceranti interrogativi.
La tonalità del libro di Giobbe è il pianto, l’autocommiserazione:
Stanco io sono della mia vita!
Darò libero sfogo al mio lamento,
parlerò nell’amarezza del mio cuore. (10,1)
Quante sono le mie colpe e i miei peccati?
Fammi conoscere il mio misfatto e il mio peccato.
Perché mi nascondi la tua faccia
e mi consideri come un nemico? (13, 23–24)
Io grido a te, ma tu non mi rispondi,
insisto, ma tu non mi dai retta. (30, 20)
Oh, avessi uno che mi ascoltasse!
Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! (31, 35)
 
Ed è proprio questa tonalità, ancor prima e ancor più dei temi trattati, questa voce di vittima ingiusta a portare il Leopardi all’immedesimazione con Giobbe. Nel Dialogo della Natura e di un Islandese, quest’ultimo commenta la condotta della sua interlocutrice con queste parole: «…tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue;…ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti;…sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli…».
mentre Giobbe grida a Dio:
Non condannarmi!
Fammi sapere perché mi sei avversario.
Le tue mani mi hanno plasmato
E mi hanno fatto integro in ogni parte;
vorresti ora distruggermi? (10, 2.8)
 
Nei versi del canto A Silvia:
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi? (vv 36-39)
 
risuonano le parole di Giobbe:
…aspettavo il bene ed è venuto il male,
aspettavo la luce ed è venuto il buio (30,26).
 
Le domande del Pastore errante
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura? (vv 52–56)
 
riecheggiano le domande di Giobbe:
Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene,
che la cercano più d’un tesoro,
a un uomo, la cui vita è nascosta
e che Dio da ogni parte ha sbarrato? (3,20–21.23)
 
Senza dubbio, il legame intertestuale tra la poesia di Leopardi e il libro di Giobbe è quello che si è sviluppato con maggior intensità su più livelli. Ma Giobbe è per Giacomo soprattutto un uomo con cui confrontarsi. L’assunzione del testo biblico si ferma, quindi, al c. 37, prima della risposta (che, per la verità, non è risposta) del Signore e del riconoscimento dell’imperscrutabilità divina da parte di Giobbe.
 
f. Un fugace accenno al Nuovo Testamento. Leopardi conosce certamente e ugualmente entrambe le parti della Bibbia, ma diversa è la sua posizione nei loro confronti. Egli non si pone di fronte alla Scrittura come ad una semplice opera letteraria, ma sa valutarne le implicazioni spirituali ed è in base ad esse che stabilisce come appropriarsene.
Nell’Antico Testamento, Leopardi individua il filone degli uomini provati dal dolore (Giobbe, Qoelet,
alcuni Salmi), nei quali ritrova se stesso: le sofferenze fisiche, i dubbi e le incertezze sulla sorte umana, le interrogazioni che implorano risposta. Nel Nuovo Testamento, c’è un’unica “parola”: l’annuncio messianico di salvezza. Leopardi s’accorge che per accostarlo servirebbe totale fiducia in quell’uomo-Dio a lui impossibile.
Non mancano, tuttavia, pagine che attestano la conoscenza del Nuovo Testamento. Pensiamo all’esergo de La ginestra: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce» (Gv 3,19). Nel Pensiero LXXXIV, Leopardi richiama l’insegnamento di Gesù per fondare uno dei punti nodali della sua “filosofia”: la condanna della società civile, quale responsabile della corruzione della virtù.
«Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere…il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di mondo, che gli dura in tutte le lingue colte insino al presente».
 
È evidente il ri-uso esasperato del termine giovanneo kòsmos/mundus, che porta alla falsificazione del verbo evangelico. Il nostro compito, però, non è giudicare l’ortodossia del Leopardi, ma evidenziare la sua consapevole, mai esibita frequentazione della Bibbia nella sua interezza.
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., Leopardi e il mondo antico, Olschki, Firenze 1982
AA. VV., Bibbia il libro assente, a cura di Comitato Bibbia Cultura Scuola, Marietti scuola, Casale M. 1993
D. BARSOTTI, La religione di Giacomo Leopardi, Morcelliana, Brescia 1975
N. FRYE, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Einaudi, Torino 1986
G. JOSOPOVICI, Il libro di Dio, Rusconi, Milano 1992
E. NICCOLI-B. SALVARANI, In difesa di “Giobbe e Salomon”. Leopardi e la Bibbia, Diabasis, Reggio E. 1998
P. ROTA, Leopardi e la Bibbia. Sulla soglia d’“alti Eldoradi”, Il Mulino, Bologna 1998

P. STEFANI, La radice biblica. La Bibbia e i suoi influssi sulla cultura occidentale, B. Mondadori, Milano 2003.

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