Primo Testamento e Bibbia cristiana

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di Patrizio Rota Scalabrini
 
Quando prendiamo in mano una Bibbia dove ci sia anche il Nuovo Testamento, comprendiamo di avere a che fare con la Bibbia cristiana. Sarebbe però un inganno ritenere che la prima parte di essa, quella cioè i cristiani chiamano “Antico/Primo Testamento” e gli ebrei “TeNaK” siano equivalenti e che soprattutto abbiano la medesima direttrice di senso.
 
1. Il canone cristiano dell’Antico/Primo Testamento: tra canone breve e canone ampio
Bisogna dire che il cristianesimo delle origini non ha fissato un proprio canone per il suo Antico/Primo Testamento, ma ha accolto come canonici quei libri che l’ebraismo considerava tali. Nel II secolo, quando cominciano le diatribe cristologiche, Giustino e Melitone di Sardi fanno uso del Primo Testamento per dimostrare che esso parla di Cristo. Ebbene, nel fare ciò essi si limitano ad usare soltanto i libri accettati dagli ebrei, e quindi non fanno riferimento ai cosiddetti “deuterocanonici”. Un elenco del canone ebraico ci è trasmesso proprio da Melitone di Sardi, che presenta i libri del canone ebraico, ovviamente con una sistemazione diversa. Peraltro si vede che le Lamentazioni sono computate con Geremia, Neemia con Esdra, e manca il Libro di Ester (mancante peraltro nella stragrande maggioranza delle liste canoniche greche). Queste testimonianze non dimostrano però che dalla chiesa delle origini fossero esclusi altri libri sacri, come si può ben vedere dal fatto che Clemente di Alessandria (fine del II secolo) cita anche libri deuterocanonici e non pochi apocrifi, non mostrando dubbi sulla loro qualità di Scritture sacre. La posizione di Origene è più complessa, perché egli conosce l’esistenza di libri che sono presenti nella traduzione greca dei LXX, ma non commenterà mai nessuno di questi e d’altra parte, nella discussione con Giulio l’Africano, sembra accettarli. Inoltre, Origene cita con frequenza questi libri nelle sue opere sacre. D’altra parte è indubbio che la pratica sinagogale, con i libri letti nella sinagoga, sia passata nella chiesa delle origini; inoltre l’uso apologetico di tali libri nelle discussioni con il giudaismo, ha comunque segnalato un posto di particolare autorità per i libri del canone breve. È vero che la chiesa antica leggeva in traduzione greca, ma mostra di attenersi, nella liturgia, al patrimonio comune con l’ebraismo. Non si può allora «in alcun modo sostenere che il cristianesimo e il giudaismo, a partire dalla frattura avvenuta fra di loro in seguito agli avvenimenti dell’anno 70 d.C., non abbiano più avuto nulla da dirsi e siano andati ciascuno per la propria strada» (A. M. Ritter, Kanonbildung, da parte di E. Zenger, « La Sacra Scrittura degli ebrei e dei cristiani », in E. Zenger (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia, Brescia, Queriniana 2005, 9-45, qui 35-36).
Per avere un primo commento cristiano ad un deuterocanonico bisogna aspettare il De Tobia di Ambrogio. Soltanto verso il 400, il canone ampio, quello che segue i LXX, viene riconosciuto dalla chiesa occidentale come Sacra Scrittura. In questa fase segnaliamo in particolare il Decreto Gelasiano (ca. 492-498), dove è evidente l’assunzione del canone lungo
Da parte della chiesa orientale si aderisce alla scelta della chiesa occidentale verso il VII sec. Con la Riforma, il mondo protestante ritorna al canone breve, all’hebraica veritas, cui teneva tanto Gerolamo. Si sa infatti che la posizione di Gerolamo era opposta a quella di Agostino, e contraria all’ampliamento del canone. In ogni caso le ragioni per cui ad un certo punto, in mezzo a varie resistenze, la chiesa antica canonizzò fondamentalmente la lista dei LXX non sono del tutto chiare, e restano ipotetiche. Possiamo presumere che i teologi del cristianesimo dell’antichità preferissero usare la traduzione greca del Primo Testamento, che si prestava maggiormente ad interpretazioni cristologiche. L’adozione del testo greco favoriva, alla fin fine, anche l’adozione del canone della Bibbia greca. In secondo luogo, attraverso la canonizzazione di questi libri, tra i quali alcuni che raccontano la storia del popolo d’Israele fino alle soglie del Nuovo Testamento (cfr. 1-2Maccabei), si sottolineava maggiormente la continuità storico-salvifica tra Primo e Nuovo Testamento. Infine bisogna dire che alcuni libri si sono imposti per il loro carattere letterario di fine fattura e di lettura gradevole, nonché per il loro valore catechetico-pedagogico, che ne fa comunque una lettura edificante. Questo spiega il successo di libri come Tobia, Siracide greco, Sapienza, non soltanto nelle comunità cristiane, ma anche in quelle ebraiche, specie per l’istruzione dei proseliti.
2. Il Primo Testamento come storia della salvezza
Il problema del canone cristiano, però, non si esaurisce nel dibattito circa il canone breve o il canone lungo, ma riguarda piuttosto la sua struttura quadripartita. Infatti, anche se le chiese della Riforma sono tornate al canone biblico ebraico, ciò riguarda la sua estensione, ma non la struttura della Bibbia ebraica, dato che hanno conservato la disposizione canonica invalsa nelle chiese e fondamentalmente conforme alla Bibbia greca. Questo punto va chiarito anche se bisogna precisare che la storia del canone cristiano, anche rispetto alla sua struttura, risulta assai più complessa di come qui la esponiamo.
In primo luogo, rispetto alla Bibbia ebraica, la disposizione dei libri risulta diversa e riflette la lettura cristologica di essi. Per la Tôrāh non vi sono diversità.
Le cose cambiano invece per il corpo profetico. La sequenza dei Profeti anteriori e posteriori non è mantenuta nel canone cristiano. I Profeti anteriori sono infatti considerati parte integrante dei libri storici. Così ai libri di Giosuè e Giudici viene affiancato il libro di Rut, in quanto parla della nonna di Davide. Seguono 1-2 Samuele e 1-2 Re. A questo punto la Bibbia cristiana continua proponendo altri libri considerati testimonianza di storia della salvezza che, nella Bibbia ebraica, sono collocati tra i Ketûbîm (Scritti): 1-2Cronache, Esdra e Neemia, disposti secondo la successione cronologica, cioè secondo i contenuti più aderenti al racconto storico. Segnaliamo qui, per inciso, che, stando al canone cristiano lungo, questa forma storico-salvifica è ancora più evidente. Infatti, alla sequenza di libri di cui sopra, si pospongono i deuterocanonici Tobia, Giuditta, Ester (nella recensione più ampia del testo greco) e soprattutto 1-2Maccabei, il cui racconto giunge fino alle soglie del I sec. a.C.
Appare chiaro il criterio che ispira questa sequenza: partendo dal racconto della creazione e della liberazione, testimoniati dalla Tôrāh, si giunge fino alla restaurazione del popolo di Dio nella terra, o addirittura fin quasi in prossimità dell’era cristiana, con i Maccabei.
Questo è funzionale ad un progetto teologico, che è quello di raccontare la storia della salvezza fino al suo compimento in Cristo. In questa prospettiva, il valore eminente della Tôrāh viene parzialmente ridimensionato, anche se la fede nella Creazione e nell’Esodo continua a dare coerenza cronologica all’intero racconto.
3. Il posto dei libri didattici
Quanto rimane degli Scritti, che non sia già stato collocato nei libri storici o nei profetici (come Daniele e Lamentazioni), viene accorpato in un secondo blocco canonico, denominato libri didattico-sapienziali.
Altra novità, che si avverte immediatamente, è l’inversione della successione Salmi-Giobbe. Così i libri sapienziali iniziano con la figura di Giobbe, l’innocente sofferente, tipo del Cristo, e continuano poi con il libro delle preghiere che il credente recita con Cristo.
Ai libri sapienziali spetta il compito di illuminare il presente della fede; così vengono collocati in questo corpus canonico anche il libro dei Proverbi, il Qoelet e il Cantico dei Cantici.
Il canone cattolico vi inserisce anche i libri della Sapienza di Salomone e soprattutto lo splendido Siracide, che è veramente una summa giudaica del sapere sapienziale.
La composizione di questo corpo canonico segue ancora una volta un intento teologico e cioè decifrare le varie esperienze della vita, valide per ogni tempo, alla luce del mistero di Cristo. Così ad esempio il Cantico dei Cantici deve diventare, senza annullare il proprio significato letterale di ‘canto d’amore’ tra l’uomo e la donna, celebrazione del canto dell’amore di Cristo per la Chiesa.
Si deve infine notare che l’assenza di Daniele con la sua fede apocalittica nella risurrezione dei morti, è in parte compensata nel canone cattolico dalla presenza del libro della Sapienza, con la sua tesi dell’immortalità dell’anima dei giusti e, forse, della risurrezione.
Infine, nel canone cattolico, la presenza del Siracide assicura una sorta di rivisitazione, attraverso la nota serie di medaglioni dedicati a personaggi famosi del passato, con cui questo libro delinea l’intera vicenda del popolo di Dio come storia dell’Alleanza e della salvezza. In tal modo il presente dei libri sapienziali mostra l’attualità della Tôrāh e del messaggio dei libri storici.
4. I Profeti e la prospettiva messianica
Il corpus dei Profeti comprende, nella Bibbia cristiana, soltanto i Profeti posteriori, con l’aggiunta di Daniele e delle Lamentazioni. Queste ultime sono, infatti, interpretate come Lamentazioni di Geremia e di conseguenza collocate dopo il suo libro. Allo stesso modo il canone cattolico e ortodosso aggiunge il libro di Baruc, segretario di Geremia.
La cosa più importante da notare è la successione che i Profeti intrattengono rispetto agli altri corpus canonici. Se la Tôrāh parla della rivelazione originaria di Dio, e gli altri libri storici parlano del passato e i didattici del presente, il compito dei Profeti è annunciare il futuro, il tempo messianico. Risulta perciò di grande interesse il primo libro dei Profeti, che, nel canone cristiano, è Isaia (non Geremia come nel Talmud), che è notoriamente il libro più ricco di profezie messianiche.
La sostanziale similarità della forma canonica dei Profeti posteriori, registrabile nel canone cristiano e in quello ebraico, non deve far dimenticare le diversità di lettura, che non sono necessariamente opposizioni.
L’ebraismo subordina i Profeti alla Tôrāh, della quale essi costituiscono un’attualizzazione, un commento. Al contrario, nella Bibbia cristiana, poiché la stessa Legge è letta come promessa del Cristo (si pensi al cosiddetto Protovangelo, agli oracoli di Balaam, alla promessa deuteronomica di un profeta come Mosè), il corpus profetico possiede una maggiore autonomia e il suo compito è quello di preparare l’intelligenza spirituale del mistero di Cristo. Ovviamente questa lettura cristologica non appiattisce gli altri aspetti del messaggio dei profeti, ma pone, per così dire, accenti diversi. Così i carmi del Servo del Signore presenti nel libro di Isaia, diventano profezia della missione e Passione di Cristo Gesù; allo stesso modo Geremia, il profeta ingiustamente perseguitato, è profezia nella propria carne, delle sofferenze del Cristo.
Anche Daniele è collocato tra i profeti proprio per vari testi letti in prospettiva cristologica; si pensi qui al tema del potere del Figlio dell’uomo (Dn 7,13ss.) e alla profezia delle settanta settimane (Dn 9,24ss.), ma soprattutto alla chiara affermazione della fede nella risurrezione della carne.
Come si nota, la visione del mondo e della storia attestata nei libri profetici spingono decisamente, secondo la forma canonica cristiana, verso il compimento in Cristo.
5. La conclusione del Primo Testamento
Un altro aspetto da valorizzare è la finale dei Profeti, ossia Malachia 3,22-24, vista come una conclusione aperta. Si pone qui in realtà un problema. C’è infatti un’oscillazione nel canone cristiano tra una forma che vorrebbe Dn 14 come conclusione, e quella che privilegia il testo malachiano, così come ha fatto la tradizione che si richiama a Gerolamo.
Il testo di Dn 14 presenta l’affermazione che Ciro, re di Persia, si è convertito al Dio degli ebrei: «Allora il re esclamò:“Grande tu sei, Signore Dio di Daniele, e non c’è altro Dio al di fuori di te”» (Dn 14,41).
È chiara la funzione attribuita a questo testo deuterocanonico: le Scritture e la fede d’Israele sono destinate ad essere comunicate alle genti per la loro conversione. La Chiesa cristiana, in questa tradizione dei LXX, vedeva un’anticipazione del suo stesso esistere.
Maggiori consensi riceve, però, la conclusione malachiana, che suona così: «Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull’Oreb, statuti e norme per tutto Israele. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,22ss.).
La Bibbia cristiana accentua la seconda parte dell’appendice del libro di Malachia, e cioè la dichiarazione dell’intenzione divina di inviare il profeta Elia, affinché possa illuminare la via prima del giorno del Signore. Il Nuovo Testamento cita spesso questa conclusione di Malachia (cfr. Mt 17,10-13; Mc 9,11-13; Lc 1,17), identificando l’Elia redivivo con la figura del Precursore, il Battista. Questa promessa profetica risulta quanto mai adatta a costituire le ultime parole con cui si chiude il Primo Testamento e a saldarlo così con l’inizio del Nuovo, che comincia subito dopo con la genealogia del Cristo, coerente con la prospettiva dei libri storici e, poco più avanti, con il racconto della preparazione della missione di Gesù con la predicazione del Battista.
6. Due forme canoniche a confronto
Questa conclusione di Malachia ci fa comprendere come le due forme canoniche non si escludano, ma si arricchiscano reciprocamente. La forma canonica ebraica ricorda al cristiano l’importanza dell’iniziativa di Dio, manifestatasi nella Creazione e nella salvezza d’Israele. Il canone cristiano viene ad accentuare semplicemente come questa salvezza attraverso Israele sia destinata a tutti i popoli e si realizzi ultimamente in Cristo. L’importanza della Tôrāh non è affatto negata; Gesù infatti non è venuto ad abolire, ma a dare compimento (cfr. Mt 5,17).
Per quanto riguarda i libri sapienziali, i due canoni ribadiscono l’importanza della ricerca della vera sapienza, nell’ascolto, nella preghiera, nella meditazione della Legge del Signore. L’accentuazione cristiana sarà nell’individuare il telos, traguardo della Legge, nel Cristo (Rm 10,4).
Il libro dei Profeti non liquida la Legge, come appare chiaro anche dalla finale malachiana, tanto amata dai cristiani, in cui viene ribadito il comandamento della Legge consegnata sull’Oreb. Il futuro che Gesù Cristo apporta non annulla le speranze dei Profeti, ma le rende ancora più ampie e universali.
 
7. Il Primo Testamento come prima parte della Bibbia cristiana
Considerare il Primo Testamento come la prima sezione della Bibbia cristiana bipartita, significa anche indagare se tra le due parti esista un parallelismo. Affiancando le due parti, possiamo rilevare le seguenti corrispondenze.
Per quanto riguarda il fondamento, l’archê, alla Tôrāh corrispondono i vangeli; per quanto riguarda il passato del popolo di Dio, ai libri storici corrisponderebbero gli Atti degli Apostoli; in relazione al presente vissuto dai credenti, ai libri sapienziali corrispondono le lettere apostoliche; infine, per quanto attiene al futuro, ai libri profetici corrisponde l’Apocalisse di Giovanni.
In questa prospettiva, i due libri angolari risultano Genesi e Apocalisse, che offrono una cornice storica universale, che viene evidenziata anche dalle parole-gancio e dalla ripresa delle immagini. Si pensi qui, allora, a quante allusioni sono presenti in Apocalisse 21-22 al racconto della creazione, fino a Gn 3, con il tema dell’albero della vita. Esemplifichiamo tutto ciò riportando alcuni versetti di Apocalisse e ponendo in corsivo i richiami a Gn 1-3.
(Ap 21,1ss) «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più... Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello… In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita… Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole… Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città».
Infine in questo parallelismo appare chiara l’importanza di Ml 3,22-24 come conclusione del Primo Testamento e passaggio al Nuovo Testamento. Ribadiamo come questo testo sia citato più volte nel Nuovo Testamento (Mt 17,10-13; Mc 9,11; Lc 1,17). In questo modo viene legittimato sul piano canonico il Nuovo Testamento come prosecuzione del Primo; d’altro canto il Primo Testamento assolve allora la funzione di collocare l’iniziativa salvifica ed escatologica di Dio, attuatasi in Gesù, il Cristo e il Figlio di Dio, «entro l’orizzonte drammatico del suo patto con Israele (cfr. Gn 15; 17; Es 19-34; Ger 31,31-34) e con tutta la creazione (cfr. Gn 9)» (E. Zenger, op. cit., 45).
Entrando più nel dettaglio, proprio il riferimento al Primo Testamento potrebbe aiutare a capire alcuni aspetti del canone del Nuovo, specie la realtà del vangelo quadripartito. A tal proposito riportiamo alcune considerazioni di G. Borgonovo.
Ci poniamo ora la domanda del perché la Grande Chiesa abbia adottato il canone del vangelo quadriforme. Ebbene, a tale domanda mi sembra di poter avanzare due risposte. Esse da una parte cercano di unire i dati storici che abbiamo e dall’altra di guardare dentro la storia del II sec.
La prima risposta mi sembra convincente confrontando la struttura canonica del Primo Testamento e quella delle Scritture cristiane. La Bibbia ebraica, quella letta appunto dalla comunità ebraica, era la TaNaK (Tôrāh, Nebî’îm, Ketûbîm). A questo proposito ricordo un particolare molto importante. Il primo versetto del libro degli Atti allude indirettamente al libro stesso come ad un deuteros logos, come se fosse un Deutero-nomio, quando afferma: «Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo…». Appunto il protos logos, e quindi quello che l’autore sta scrivendo è un deuteros logos. Non è insomma impossibile guardare alla trama dei libri che compongono il Nuovo Testamento ritrovando, in qualche modo, la stessa struttura della Bibbia ebraica; addirittura lo stesso numero dei libri, e i numeri non sono un’oggettività, ma possono essere usati e manipolati. I libri del Nuovo Testamento possono diventare 24 - se uniamo le doppie lettere di Paolo, indirizzate alla stessa comunità (1-2Cor; 1-2Ts…) -, proprio come i libri del Primo Testamento. Avremmo così il Vangelo di Gesù (che sarebbe la Tôrāh), il vangelo “su” Gesù (la testimonianza fino agli estremi confini della terra). E come il Deuteronomio finisce in sospeso, così anche gli Atti finiscono in sospeso: quando si arriva alla scena finale, non si chiude niente, ma si apre la vita della chiesa di Roma e della grande Chiesa. Perciò la struttura è pensata analogamente alla Tôrāh: una Tôrāh che è fondamento, archetipo, della storia d’Israele e un Vangelo che è archetipo della vita Gesù e della prima comunità, sino a quando questa diventa la comunità di tutte le genti. Sarebbe quindi il passato normativo della comunità ecclesiale, e non a caso la conclusione del libro degli Atti si apre al presente di ogni chiesa. Da lì in avanti inizia il presente di ogni chiesa; mantiene aperta la vita di Paolo (non si dice nulla del suo martirio), e soprattutto mantiene aperto il modo di vivere della comunità: «Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28,30-31). Qui abbiamo la riunificazione dei due concetti: da una parte il regno di Dio, il Vangelo ‘di’ Gesù, e dall’altra parte le cose riguardanti il Signore, il Vangelo ‘su’ Gesù.
Poi ci sono le lettere di Paolo a comunità presenti, ben specifiche; nell’ordine canonico sono in collocazione pressoché quantitativa (Romani, Corinzi, Galati, Efesini, Colossesi, Filippesi…). Comunità ben precise. È la profezia in atto, che è l’interpretazione del presente; quindi la seconda parte del Nuovo Testamento ripropone, allo stesso modo dei libri profetici, l’interpretazione del presente della Chiesa. Di per sé le grandi lettere sono sette, come sette sono le lettere del libro dell’Apocalisse, e già il Canone muratoriano faceva questa analogia tra le sette lettere di Paolo alle comunità e le sette lettere di Apocalisse alle chiese.
La terza parte del Nuovo Testamento sono gli Scritti, che noi definiamo come lettere “cattoliche” o “pastorali”, diciamo “ad orizzonte ampio”. E come per il Primo Testamento il libro si chiude su se stesso nella profezia di Daniele, nella parola che non è la profezia antica, ma una parola al secondo livello, un’interpretazione della parola profetica di Daniele, così il Nuovo Testamento riporta se stesso al centro, al Golgota, con il libro dell’Apocalisse di Giovanni, che è per così dire la consumazione di ogni possibilità di apocalittica. Ogni rivelazione nasce e si spegne sulla Croce. Si spegne non nel senso che finisce, ma che non c’è più un altro evento che non sia rivelazione piena di quella Croce.
Perché, in questo contesto, quattro evangelisti? Se questa prima risposta riesce a dire qualcosa della forma complessiva del Nuovo Testamento, non ha ancora tuttavia ancora risposto al nostro interesse specifico: perché ‘quattro’ vangeli?
Ed ora approfondiamo il rapporto tra i quattro vangeli e la TaNak. Ecco, questa è una mia risposta personale, che trova ragione nella storia, ma che penso meriti un approfondimento. Il problema che porta alla complessità di quattro vangeli, forse non ci tocca, perché oggi siamo portati ad altri interessi e questioni. Il problema è il rapporto con Israele o, meglio, con il giudaismo, che è il baricentro attorno al quale mi pare ruotino tutti e quattro i vangeli. A spiegare la complessità della vita di Gesù non sono i ricordi più o meno completi, né il fatto che i sinottici si muovano intorno ad alcune memorie e che poi Giovanni – come dice anche Eusebio di Cesarea – vedendo le lacune lasciate, pur giudicando complessivamente buona l’opera dei sinottici, abbia voluto aggiungere ciò che mancava, soprattutto dei primi giorni del discepolato, cioè del passaggio dal discepolato di Giovanni il Battista a quello di Gesù. Secondo Eusebio, il vangelo di Giovanni sarebbe il tentativo di colmare la memoria di quei giorni. No, niente di tutto questo.
Mi sembra che il vero problema sia proprio il rapporto con il giudaismo. Il vangelo, nella forma dello scritto evangelico così come l’abbiamo, non è una biografia, né una raccolta dei detti, ma una narrazione su Gesù, un’illustrazione della sua figura. «Vangelo di Gesù, il Messia, Figlio di Dio» è la tesi che Marco vuole dimostrare, ricordando le parole e gli eventi di Gesù, e ricordandoli soprattutto alla luce della Croce e di quella testimonianza di risurrezione che è tutta da vivere da parte della comunità. Il vangelo, infatti, si chiude propriamente con il silenzio delle donne, le quali, piene di timore e di tremore, corrono via dal sepolcro vuoto, senza dire niente a nessuno. Ma come? Noi lo sappiamo, siamo noi la continuazione di quello scritto, noi che ascoltiamo il vangelo di Gesù, Messia e Figlio di Dio. Solo che Marco è molto sbilanciato e cita pochissimo il Primo Testamento e normalmente si spiega questa lacuna con il fatto che Marco ha scritto per dei non giudei a Roma, secondo le notizie che abbiamo dagli autori antichi. A mio parere la vera ragione è che Marco mette in atto, nel suo racconto, un tipo di lettura della storia della salvezza molto vicina a quella di Paolo. Marco è l’esecutore più fedele, in un certo modo, della teologia paolina. Egli certo riconosce la testimonianza del Primo Testamento, della Legge e dei Profeti, ma dice che quanto c’è adesso è davvero il telos, il termine, il compimento, la sintesi di tutto il resto: e allora concentriamoci su questa novità! Il vangelo di Marco è per dimostrare l’incapacità dei discepoli di uscire dallo schema giudaico. Devono uscire dalla strettezza delle visioni giudaiche: non capiscono proprio perché non ne escono. Gesù, invece, fin dall’inizio aveva ha ben chiaro questo progetto e per tale motivo si presenta con un messianismo che non è quello ‘del figlio di Davide’, ma quello del ‘Figlio di Dio’. Questa sarebbe la caratteristica di Marco.
Immaginiamo adesso la comunità di Antiochia, la comunità più ricca – prima che il centro si spostasse a Roma –, la comunità che ha prodotto il nome “cristiano” ed è stata il baricentro della missione di Paolo. Ecco, quella comunità, che aveva una componente giudaica, non poteva accettare il vangelo di Marco, perché non vi si ritrovava; ecumenicamente aveva bisogno di un’altra visione, che la recuperasse, ed ecco allora il vangelo di Matteo, che inizia proprio in questi termini: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo». Per quanto riguarda la lettura del rapporto con Israele è tutta un’altra prospettiva: ciò che c’è nel Primo Testamento rimane il tesoro dal quale si può attingere («Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto» - Mt 5,17-18). Tutto rimane, e si compie esattamente nella parola e nei gesti di Gesù. Il compimento di Gesù non significa dimenticare la storia d’Israele, ma vivere fino in fondo tutta la storia d’Israele, fino ad arrivare a: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo» (Mt 28,19). Attraverso il Gesù ebreo tutti i popoli partecipano della stessa eredità di Abramo, della stessa regalità di Davide. Certo, non un Davide secondo l’attesa politica, bensì un Davide che regna dalla croce, ma l’adempimento della parola antica si compie.
Di fronte a queste due posizioni, ecco la mediazione di Luca, che non mi sembra affatto il discepolo di Paolo, ma piuttosto l’abile teologo che riesce a mettere insieme le due componenti della comunità di Antiochia. Da una parte l’anima ellenista è la novità, e dall’altra l’anima giudaica è l’eredità. La Legge e i Profeti fino a Giovanni il Battista, poi l’annuncio del Regno e infine la proclamazione del Risorto: a partire da Gerusalemme, per tutta la Samaria, fino agli estremi confini della terra. Il centro del tempo di Gesù diventa dunque un centro che di fatto disegna una storia salvifica tesa tra la storia antica d’Israele e la storia nuova di tutte le genti, che partecipano, intersecandosi nel ‘centro’ di Gesù, all’unica storia salvifica.
I racconti dell’infanzia di Luca, che recuperano le grandi figure del giudaismo, tutte pie, fedeli, sottomesse alla Legge, a partire da Gesù e la sua famiglia, che appunto adempiono alla Legge. Ma l’ultima pagina, quella degli Atti, ricorda come ormai Paolo sia su tutt’altra posizione. È un vangelo proclamato ai non giudei, perché quei giudei sono rimasti chiusi e non hanno voluto accogliere l’orizzonte nuovo, aperto da Paolo. Per gli Atti, in realtà, l’orizzonte è aperto da Pietro, ma c’è una connessione voluta, in modo da non sembrare una spartizione o una divisione. No, il primo è Pietro, che entra nella casa di Cornelio; poi Paolo continua, in tutta la sua missione.
Giovanni, in tutto questo, sta proprio a dire in che senso c’è una dialettica tra l’antico e il nuovo, tra il Primo Testamento e l’evento di Gesù, che non ha mai fine. La Legge è stata donata per mezzo di Mosè, ma la ḥesed we’emet (la grazia e la verità), la pienezza di questa promessa esodica, è avvenuta nel Figlio Gesù (Prologo). E quanto viene esplicitato in questa verità che sprigiona nell’evento di Gesù Cristo è davvero la verità di tutto il progetto salvifico e la verità del Primo Testamento stesso. È il modo per interpretare sinteticamente la vicenda dell’esodo nel giudaismo. YHWH è «misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6): questa è la carta d’identità del Dio dell’esodo, che si realizza appunto pienamente in Cristo Gesù. «Dio nessuno l’ha mai veduto» (Gv 1,18). L’unico esegeta che ce lo può svelare veritativamente è il Figlio Gesù.
Allora rifiutare il Primo Testamento (Marcione, II sec.) è un grave errore; conservarlo nella Chiesa del XXI sec. è la necessità della nostra sopravvivenza. (Testo trascritto dall’orale e non ancora pubblicato, tratto da alcuni passaggi della relazione di G. Borgonovo, tenuta alla Scuola della Parola della Diocesi di Bergamo il 4 ottobre 2006 e dal titolo: “Perché quattro vangeli? Una visita nell’officina del canone”).
 
8. Prospetto sulle differenze canoniche tra le varie chiese.
La posizione delle varie chiese in relazione al canone biblico del Primo Testamento, è piuttosto articolata e va precisata più analiticamente.
Le chiese protestanti non accettano come propriamente canonici i deuterocanonici, che vengono solitamente chiamati apocrifi, nei quali includono anche quelli che il Concilio di Trento dichiarerà ‘apocrifi’. Nell’ultima edizione della Bibbia di Lutero (Wittenberg 1545) gli apocrifi, cioè quei libri che non hanno ugual valore delle Sacre Scritture ma che è utile e cosa buona legge, sono indicati in quest’ordine: Gdt, Sap, Tb, Sir, Bar (+ Lett. di Ger), 1-2Mac, aggiunte ad Est, aggiunte a Dn. La lista include anche “la Preghiera di Manasse, re di Giuda, quando fu deportato in Babilonia”. Poi segue la nota: “Fine dei libri dell’Antico Testamento”. Secondo l’art. 6 della Confessio Belgica del 1561, i libri seguenti hanno lo stato di apocrifi: 3-4Esdra, Tb, Gdt, Sap, Sir, Bar (+ Lett. di Ger), aggiunte ad Est, Canto dei tre fanciulli nella fornace, Sus, Bel e il Drago, Preghiera di Manasse, 2Mac.
Il canone delle chiese orientali conosce delle variazioni piuttosto significative proprio perché vi è stata una forte fluidità circa la lista dei libri canonici dei LXX. Si comprende allora che la chiesa greco-ortodossa e la chiesa russa, anche influenzate dal contatto con le chiese protestanti, abbiano optato per un canone breve.
La chiesa copto-ortodossa accetta invece il canone ampio, includendovi pure il Sal 151 e 3Mac.
Il canone più esteso e più singolare è invece quello della chiesa etiopico-ortodossa, che distingue tra un canone ampio e uno ristretto; in tal modo la sua Bibbia comprende l’intera LXX con 3Esd, 3Mac e Sal 151; comprende pure i due testi dell’Appendice della Vulgata, ossia La preghiera di Manasse e 4Esd, ma soprattutto – e la cosa è importantissima per la conoscenza degli apocrifi apocalittici del Primo Testamento – anche il Libro dei Giubilei e 1Enoc etiopico.
La Bibbia della chiesa siro-ortodossa va discussa nella sua forma siriaca. Si nota allora l’omissione di Tobia e l’inclusione di 3Mac. Oggi però le edizioni della Bibbia siriaca orientale riproducono concretamente o il canone della Bibbia cattolica o di quella più ristretta, cioè protestante.
La chiesa apostolica armena usa un canone la cui lista canonica è ufficializzata da Gregorio Tat’ew (1346-1410). Il canone corrisponde alla Vulgata, ma considera 3Mac e 3-4Esd extracanonici.
In sintesi, senza entrare in tutti i dettagli, o descrivere quali scritti sono assenti da determinate Bibbie, possiamo ricordare alcuni scritti appaiono solo in alcune Bibbie:
3Mac nei LXX, nella Peshitta, nella Bibbia Copta ed Etiopica e anche in quella Armena, ma con la restrizione di “extracanonico”.
Quarto Libro dei Maccabei solo nei LXX.
− La Preghiera di Manasse nell’Appendice della Vulgata, negli apocrifi della Bibbia di Lutero e della King James Version, e nella Bibbia Etiopica.
Terzo Libro di Esdra nell’Appendice della Vulgata, negli apocrifi della King James Version, nei LXX, nella Bibbia Etiopica e anche con la restrizione di “extracanonica” nella Bibbia Armena.
− Il Salmo 151 nella Appendice della Vulgata, nei LXX, nella Bibbia Etiopica e forse anche quela Copta.
− Il Libro dei Giubilei e di 1Enoc solo nella Bibbia Etiopica.
 
Bibliografia
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E. Zenger, Il primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani, Editoriale di F. Dalla Vecchia (= GdT 248), Brescia, Editrice Queriniana, 1997.
E. E. Ellis, L’Antico Testamento nel primo cristianesimo; Canone e interpretazione alla luce della ricerca moderna, Traduzione di L. Rezzonico, Edizione italiana a cura di L. Redana (= StBi 122), Brescia, Paideia Editrice, 1999.
A. Schenker, « L’Écriture Sainte subiste en plusieurs formes canoniques simultanées (Réaction à l’exposé du prof. Max Seckler) », in L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Roma, settembre 1999 (= AD 11), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2001, 178-86.
M. Hengel, With the assistance of R. Deines, The Septuagint as Christian Scripture. Its prehistory and the problem of its canon, Introduction by R. Hanhart, Translated by M. E. Biddle (= OTS), Edinburgh – New York NY, T. &T. Clark, 2002.
E. Zenger, « La Sacra Scrittura degli ebrei e dei cristiani », in E. Zenger (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia, Brescia, Queriniana 2005, 9-45.

 

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P. Rota Scalabrini, Primo Testamento e bibbia cristiana198.54 KB