Tra metafora e similutudine: l'officina poetica del Cantico dei Cantici

 

   
 
 

 
 
di Luciano Zappella
 
[pubblicato su Parola & parole VIII/16 (2010) pp. 25-42]
 
 
 
«L’amore profano non è necessariamente un amore profanato.
Un’interpretazione naturale non è necessariamente naturalista;
e un’indagine razionale non è necessariamente razionalista.
La somiglianza delle parole non deve provocare lo slittamento da un’idea all’altra»[1]
 
 
Scopo di queste pagine è far percepire, nei limiti del possibile, la qualità poetica del Cantico dei cantici, non tanto a livello metrico e stilistico (cosa che presupporrebbe l’approfondita conoscenza della lingua ebraica, tanto più che ci si deve confrontare con un testo assai denso dal punto di vista linguistico)[2], quanto a livello retorico. Più in particolare, si cercherà di mettere in risalto il valore espressivo delle due figure retoriche più usate nel Cantico: la similitudine e la metafora.
La tesi di fondo è vedere che rapporto esista tra retorica poetica e retorica della sessualità[3], tenendo presente che, con “retorica”, si intende l’arte di rendere più efficace l’espressione linguistica, specialmente in un ambito come l’amore, per il quale, come noto, spesso “mancano le parole”. Come non c’è poesia senza retorica, così non c’è amore senza poesia.
 
 
1. Un approccio letterario al Cantico
 
L’analisi letteraria applicata al testo biblico ha chiarito che la Bibbia è letteratura a tutti gli effetti, o lo è in duplice senso: anzitutto, sul versante estetico[4], a motivo delle sue innumerevoli risorse letterarie, e, in secondo luogo, sul versante etico, a motivo della sua capacità, tipica dei grandi testi di letteratura, di far risuonare le grandi domande dell’essere umano. La Bibbia ha prodotto grande letteratura perché è essa stessa grande letteratura!
Se ciò vale per la Bibbia nel suo complesso, vale a maggior ragione per il Cantico. Già il titolo sottolinea la sua eccellenza (Cantico dei cantici, canticissimo), eccellenza che non può essere limitata al piano contenutistico[5], ma deve abbracciare anche l’ambito formale: il Cantico è superlativo perché il suo contenuto è superlativo (l’amore liberato), ma il suo contenuto è superlativo perché viene espresso con il più superlativo dei linguaggi (la poesia). Considerando poi che il termine «cantico» (šir) è da sempre sinonimo di espressione poetica, potremmo dire che il Cantico è poeticissimo, anzi «canticissimo» in quanto «poeticissimo». E infatti non esiste altro testo della Bibbia ebraica che sia così denso di risorse poetiche, soprattutto similitudini e metafore[6].
Non riconoscere l’alta qualità poetica del Cantico significa esporsi al rischio di una lettura fuorviante. «Le immagini sono trattate troppo spesso come allegorie nel senso negativo del termine, facendo di personaggi e immagini rappresentazioni di persone o qualità alle quali il testo medesimo non accenna. Oppure, le allusioni letterarie sono trasformate in persone ed eventi reali, come accade nelle varie interpretazioni teatrali del Cantico»[7].
 
Dal punto di vista dei generi poetici, il Cantico non appartiene né al genere narrativo (non vi è storia, non vi è intreccio, non vi è filo narrativo[8]) né al genere drammatico (non vi sono elementi convincenti a sostegno di questa tesi[9]), ma al genere lirico. Come capita spesso nella poesia lirica, cercare di far corrispondere l’io lirico ad un personaggio storico risulta, oltre che difficile, anche fuorviante. Resta il fatto che questo io, pur non avendo nome e cognome, è pur sempre un essere sessuato: la giovane donna e il giovane uomo dialogano tra di loro proprio perché si percepiscono come diversi.
Dal punto di vista della struttura, il Cantico si presenta come un insieme disordinato di testi, tanto che le proposte di strutturazione non si contano più[10]. La frammentarietà dei testi[11] non è sinonimo di trascuratezza poetica, anzi, in un certo senso, il frammento contribuisce al non-detto che è una caratteristica tipica della lirica (si pensi, per esempio, ad Ungaretti); al tempo stesso, l’impossibilità di tracciare una storia dei protagonisti sottolinea il carattere universale del discorso amoroso (nonostante tutto, il linguaggio d’amore non è cambiato molto da Saffo ai giorni nostri). Abbiamo qui una poesia (d’amore) senza storia per descrivere una storia (d’amore) piena di poesia.
 
 
2. Una metafora tira l’altra
 
Il linguaggio amoroso è un formidabile laboratorio di metafore e a questa legge non sfugge neppure il Cantico. In esso sembra che i due amanti facciano a gara a chi inventa più metafore, non per puro sfoggio retorico, ma per la consapevolezza che l’espressione dell’amore non può darsi senza uno scarto (e uno scatto) linguistico: la retorica non sostituisce l’espressione dell’amore, ma la potenzia.
Prima di analizzare l’uso della metafora del Cantico, diamo una breve definizione di similitudine e di metafora, per poi vedere la differenza fondamentale tra la metafora nella tradizione occidentale e nel Cantico.
La similitudine era usata dalla poesia antica, fin da Ome­ro. In essa, i termini vengono messi a contatto in modo esplicito mediante l’uso di «come», «simile a», ecc. Di solito la similitudine è tratta dal mondo della natura.
 
Come quando una cerva, messi a cuccia nella tana
Di un forte leone i cerbiatti, nati da poco,
Lattanti, cerca le balze e le valli erbose
Pascendo, ed egli entra poi nel suo covo
E dà a quei due una terribile morte;
Così Odisseo darà loro una terribile morte (Odissea IV, 335-340).
 
È cresciuta in silenzio come l’erba,
come la luce avanti il mezzodì
la figlia che non piange (V. Sereni, Crescita).
 
La metafora sostituisce un termine con un altro legato al primo da almeno una qualità in comune. In sostanza, la metafora è una similitudine abbreviata.
 
m’avvampò fuoco nell’animo(Virgilio, Eneide);
 
o dell’arida vita unico fiore(G.Leopardi, Le ricordanze);
 
Troppo straziato è il bosco umano (E.Montale, Personae separatae).
 
In altri casi, un intero componimento è metafora, come la celebre poesia di S. Quasimodo:
 
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
 
Per quanto concerne la poesia amore, la “madre” di tutte le metafore (perlomeno quella che nella tradizione occidentale ha avuto più riprese) è la poesia petrarchesca. Ne fornisco solo due esempi famosi. Il sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi e il finale del I libro del Trionfo della morte.
 
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
Che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
E ’l vago lume oltra misura ardea
Di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi;
 
E ’l viso di pietosi color farsi,
Non so se vero o falso, mi parea:
I’ che l’esca amorosa al petto avea,
Qual meraviglia se di subito arsi?
 
Non era l’andar suo cosa mortale
Ma d’angelica forma, e le parole
Sonavan altro che pur voce umana;
 
Uno spirto celeste, un vivo sole
Fu quel ch’i’ vidi, e se non fosse or tale,
Piaga per allentar d’arco non sana. (Rerum Vulgarium Fragmenta XC)

Pallida no, ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca.
Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso. (Trimphus mortis, I, 66-172)
 
È soprattutto in età barocca che il repertorio metaforico petrarchesco viene ampiamente sfruttato per creare effetti sorpresa sempre più accentuati, come dimostrano, tra gli altri, questi due esempi.
 
A l’aura il crin ch’a l’auro il pregio ha tolto,
sorgendo il mio bel sol del suo oriente,
per doppiar forse luce al dì nascente,
da’ suoi biondi volumi avea disciolto.
 
Parte, scherzando in ricco nembo e folto,
piovea sovra i begli omeri cadente,
parte con globi d’or sen gìa serpente
tra’ fiori, or del bel seno or del bel volto.
 
Amor vid’io, che fra’ lucenti rami
de l’aurea selva sua, pur come sòle,
tendea mille al mio cor lacciuoli ed ami;
 
e, nel sol de le luci uniche e sole,
intento, e preso dagli aurati stami,
volgersi quasi un girasole il sole! (Giovanbattista Marino, Per la sua donna, ch’avea spiegate le sue chiome al sole)
 
Mentre in cristallo rilucente e schietto
il bel volto costei vagheggia e mira,
armando il cor d’orgoglio, il ciglio d’ira,
del suo bel, del mio mal prende diletto.
 
Vaga del vago e lusinghiero aspetto
dice: - Ben con ragion colui sospira! –
Sembrano a lei, che sue bellezze ammira,
oro il crin, rose il labro, e gigli il petto.
 
Ah, quel cristallo è mentitor fallace,
che scopre un raggio sol del bello eterno,
anzi un’ombra d’error vana e fugace!
 
Vedrai, se miri il tuo sembiante interno,
cui ritragge il mio cor, specchio verace,
angue il crin, tosco il labro, il petto inferno. (Girolamo Preti, Per la sua donna specchiantesi)
 
 
In tempi a noi più vicini, l’uso delle metafore, per così dire, si prosciuga, si fa meno pirotecnico, ma anche più allusivo. Cito solo due esempi: Adolescente di Vincenzo Cardarelli (1887-1959) e L’innamorata di Paul Eluard (1895-1952).
 



Su te, vergine adolescente,
sta come un'ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell'attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l'imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l'oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell'occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l'amore
nel cuor dell'uomo!

Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l'animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.



 
 
Elle est debout sur mes paupières
Et ses cheveux sont dans les miens,
Elle a la forme de mes mains,
Elle a la couleur de mes yeux,
Elle s'engloutit dans mon ombre
Comme une pierre sur le ciel.

Elle a toujours les yeux ouverts
Et ne me laisse pas dormir.
Ses rêves en pleine lumière
Font s'évaporer les soleils,
Me font rire, pleurer et rire,
Parler sans avoir rien à dire.[12]
 
 
3. Cantico: il giardino delle metafore
 
Se si confrontano le metafore delle poesie che abbiamo riportato (e di tante altre) con le metafore presenti nel Cantico, la prima impressione è di trovarsi di fronte a figure molto semplici, ai limiti della banalità. Ciò dipende non solo dalla distanza temporale e culturale[13] che ci separa dal Cantico, ma anche e soprattutto dalla diversa funzione che svolge la metafora nel Cantico. Come sottolinea G. Barbiero, mentre nella tradizione poetica occidentale «la metafora ha prevalentemente una dimensione “visiva”, in quella orientale essa ha anzitutto una dimensione funzionale. Così l’espressione: “i tuoi occhi sono colombe” (Ct 1,15b), non si riferisce alla forma degli occhi (gli occhi della colomba non sono particolarmente belli), ma al significato della colomba, messaggera d’amore. Parimenti, nel paragonare il collo dell’amata ad una torre (4,4), il tertium comparationis non è la forma slanciata, ma il carattere difensivo della torre, che corrisponde all’orgogliosa coscienza di sé della donna»[14].
Analogo discorso per la similitudini. Quando l’amato dice: «i tuoi seni sono come due cerbiatti / gemelli di gazzella» (4,5) non vuole dire che i seni dell’amata assomigliano a due caprioli (sarebbe un’immagine un po’ bizzarra), ma, tenendo presente che un estraneo non riesce ad avvicinare due caprioli, vuole sottolineare la modestia di lei (che non si fa avvicinare dal primo venuto). Altro esempio: l’espressione «ad una cavalla tra i carri del Faraone / voglio paragonarti, amica mia!» (lesūsātị̂ berikbê par‘ōh dimmîtîk ra‘yātị̂) (1,9) non vuole intendere che la donna è bella ed elegante come una cavalla, ma qualcosa di più concreto (e quindi, oserei dire, di più poetico): considerando che i carri del Faraone erano tirati da stalloni (noblesse oblige!), è facile immaginare cosa sarebbe successo se una cavalla (magari in calore) si fosse presentata in mezzo a loro… La similitudine, quindi, sottolinea lo sconvolgente potere erotico della donna[15].
 
Il repertorio delle metafore presenti nel Cantico si può ricondurre sostanzialmente a tre ambiti[16]:
a. ambito naturale (flora e fauna)
1,6e: ma la vigna mia non l’ho sorvegliata
1,15b: I tuoi occhi sono colombe!
2,1: Io sono un narciso della pianura, / un giglio delle valli
2,3cd: Alla sua [del melo] ombra mi piace sedermi / e il suo frutto è dolce al mio palato.
4,1c: I tuoi occhi sono colombe
4,12: Sei un giardino chiuso a chiave, sorella mia, fidanzata, / una sorgente chiusa a chiave, / una fontana sigillata!
4,13-15: I tuoi canali sono un giardino di melograni / con frutti prelibati; / hènna con nardo, 14nardo e zafferano, / cannella e cinnamomo, /    con ogni pianta d’incenso, / mirra e aloe, / con tutti gli aromi di prima qualità. / 15Fontana di giardini, / pozzo di acque vive / che scorrono dal Libano!
4,16ef: Entri il mio amore nel suo giardino, / ne gusti i frutti prelibati!
5,1: Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, fidanzata, / ho raccolto la mia mirra con le mie spezie, / ho mangiato il mio favo con il mio miele, / ho bevuto il mio vino col mio latte!
5,11b: i suoi riccioli sono grappoli di datteri
5,13cd: Le sue labbra sono gigli /stillanti mirra fluida
7,3cd: Il tuo ventre è un mucchio di grano / circondato dai gigli.
7,9: Mi sono detto: «Voglio salire sulla palma / e afferrarne i rami!»
 
b. ambito architettonico – artistico – geografico
4,12: Sei un giardino chiuso a chiave, sorella mia, fidanzata, / una sorgente chiusa a chiave, / una fontana sigillata!
5,11a: il suo capo è oro finissimo
5,14: Le sue braccia sono cilindri d’oro / tempestati di gemme. / Il suo ventre è una piastra d’avorio / ricoperta di lapislazzuli
5,15: Le sue gambe sono colonne d’alabastro / poggianti su piedistalli d’oro fino. / Il suo aspetto è come il Libano
7,3a: La tua vulva è una coppa rotonda
7,5bc: I tuoi occhi sono vasche di Heshbon, / presso la porta di Bat-Rabbim.
8,10ab: Io sono un muro / e i miei seni sono come le torri
 
c. ambito cosmetico
1,3b: Il tuo nome è «olio Turaq»
1,13: Il mio amore è per me un sacchetto di mirra
1,14: Il mio amore è per me un grappolo di hénna
3,6cd: odorante [lei] di mirra e d’incenso, / di polvere del mercante
8,14: Fuggi, amore mio […], sui monti degli aromi [= il corpo profumato]
 
 
4. L’imperativo metaforico come imperativo erotico
 
È un caso che il Cantico cominci in medias res con l’esclamazione «Mi baci con i baci della sua bocca» (yiššāqēnî minnešîqôt pîhû) (1,2)? Normale visto che si parla di amore. Sennonché, la bocca, oltre che per baciare, serve anche ad articolare la parola d’amore e la parola poetica[17]: con la bocca si bacia ma anche si parla (si può “baciare” anche con le parole). «La tua parola è più dolce dei baci» è una metafora.
L’esclamazione iniziale (incipit) ha il suo corrispettivo nella chiusa del poema (excipit): «[Lui] Alcuni amici ascoltano la tua voce: / fammi sentire! (hašmî‘înî) / [Lei] Fuggi, amore mio (berah ̣dôdî), / simile ad una gazzella / o ad un cerbiatto, sui monti degli aromi» (8,13-14). In entrambi i casi, siamo di fronte ad una forma imperativa che ha a che fare con la bocca e con la voce. Il rapporto tra l’amato e l’amata non è fatto soltanto di baci e di carezze, ma anche di parole d’amore, anzi è fatto di una continua creazione di metafore sempre nuove, con le quali i due amanti danno un nome all’altro/altra e al desiderio dell’altro/dell’altra[18]. Da questo punto di vista, si può dire che il Cantico sia il santuario della parola scambiata. Come fa notare J.P. Sonnet, «l’uomo, secondo la Genesi, ha imposto “nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici”, ma senza trovare “un aiuto che gli corrispondesse” (Gn 2,20). Nel Cantico dei cantici, la creazione poetica da parte dell’uomo si prolunga a un secondo grado. Cosa fanno l’Adamo e la Eva del Cantico, visto che hanno trovato l’aiuto adatto? Si danno l’uno all’altra nomi di animali. C’è tutto un bestiario che abita il loro linguaggio. Lui dice di lei che è una “cavalla fra i cocchi di faraone” (1,9), una “colomba, che sta[i] nelle fenditure della roccia” (2,14); lei dice di lui che è “un capriolo o un cerbiatto” (2,9). Ma si parla anche di tortora (2,12), di volpi (2,15), di capre e pecore (4,1-2; 6,5-6), di leoni e leopardi (4,8)»[19].
Un’altra rilevante differenza rispetto alla funzione della metafora nella tradizione poetica occidentale riguarda il fatto che nel Cantico la metafora, lungi dall’essere un mero ornamento, ha un valore performativo, cioè fa fare quello che dice. Non si tratta quindi di una mera immagine tesa ad abbellire l’espressione, ma di un’immagine finalizzata a dettare un determinato comportamento, perché in amore più che le parole (che pure sono necessarie) contano i fatti.
In 2,3, la similitudine dell’amato con il melo («Come un melo tra gli alberi della foresta / è il mio amore tra i ragazzi!») è subito seguita da un invito esplicito («Alla sua ombra mi piace sedermi / e il suo frutto è dolce al mio palato»): non si può paragonare l’amato ad un melo senza agire di conseguenza, cioè sedersi alla sua ombra e mangiare i suoi frutti (con evidente metafora erotica).
In 7,8-9 è l’amato, sempre con una similitudine, a esaltare la bellezza dell’amata: «Il tuo portamento assomiglia alla palma[20], / i tuoi seni ai grappoli» (v. 8); anche in questo caso, la similitudine non rimane fine a se stessa, ma si trasforma in un invito dalla chiara connotazione sessuale: «Mi sono detto: “Voglio salire sulla palma / e afferrarne i rami!”» (v. 9).
Analogo discorso per le metafore e le similitudine del giardino che fanno da filo conduttore dei capitoli 4,5 e 6. Se l’amata è come un giardino, bisogna comportasi in modo conseguente.
Si può quindi parlare, sulla scia di Sonnet, di un vero e proprio «imperativo metaforico»[21].
 
 
5. La metafora del corpo dà corpo alla metafora
 
Le sezioni in cui il gioco tra similitudine e metafora è particolarmente sviluppato sono i cosiddetti wasf[22]. È il genere stesso a richiedere l’uso di metafore tratte dal mondo della natura, dell’architettura e dell’arte. Il poeta del Cantico, vedremo, lo sfrutta in modo magistrale.
Come noto, nel Cantico si incontrano quattro wasf: tre dedicati alla donna (4,1-7; 6,4-7; 7,2-6) e uno dedicato all’uomo (5,10-16). I primi due wasf femminili presentano un “percorso” che va dall’alto al basso: occhi (4,1 / 6,5), capelli (4,1 / 6,5), denti (4,2 / 6,6), labbra (4,3), gota (4,3 / 6,7), collo (4,4), seni (4,5). Anche il wasf maschile ha lo stesso andamento: capo (5,11), riccioli (5,11), occhi (5,12), guance (5,13), labbra (5,13), braccia (5,14), ventre (5,14), gambe (5,15). Il terzo wasf femminile invece è strutturato dal basso all’alto: piedi (7,2), cosce (7,2), vulva[23] (7,3), ventre (7,3), seni (7,4), collo (7,5), occhi (7,5), naso (7,5), capo (7,6), capelli (7,6).
Il tutto si può sintetizzare nel seguente schema:
 
4,1-7: corpo di lei
5,10-16: corpo di lui
6,4-7: corpo di lei
7,2-6: corpo di lei
1Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe,
dietro al tuo velo. I tuoi capelli sono come un gregge di capre che scende dal monte Galaad. 2I tuoi denti sono come un gregge di pecore da tosare che risalgono dal lavaggio. Hanno tutte dei gemelli, nessuna ne è rimasta privata. 3Le tue labbra sono come un filo scarlatto; bella è la tua bocca! Come spicchio di melograno è la tua tempia, dietro il tuo velo. 4Il tuo collo è come la «Torre di Davide», costruita a strati. Mille scudi vi sono appesi, mille trofei di valorosi! 5I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di gazzella, che pascolano tra i gigli. 6Prima che soffi la brezza del giorno e le ombre diventino sfuggenti, me ne andrò al monte della mirra, alla collina dell’incenso! 7Se tutta bella, amica mia, non c’è difetto in te!
10Il mio amore è bianco e rosso, spicca tra diecimila. 11Il suo capo è oro finissimo; i suoi riccioli sono grappoli di datteri, eri come il corvo. 12I suoi occhi sono come colombe accanto a ruscelli d’acqua, che si bagnano nel latte, che stanno accanto a vasche traboccanti.13Le sue guance sono come aiuole di spezie che emanano torri di profumo. Le sue labbra sono gigli stillanti mirra fluida. 14Le sue braccia sono cilindri d’oro tempestati di gemme. Il suo ventre è una piastra d’avorio ricoperta di lapislazzuli. 15Le sue gambe sono colonne di alabastro poggianti su piedistalli d’oro fino. Il suo aspetto è come il Libano, stupendo come i cedri. 16Il suo palato è dolcissimo; tutto in lui è desiderabile! Questo è il mio amore, questo il mio amico, o ragazze di Gerusalemme.
 
4Sei bella, amica mia, come Tirza, bella come Gerusalemme,            terribile come cose strabilianti! 5Toglimi gli occhi di dosso perché mi sconvolgono! I tuoi capelli sono come un gregge di capre che scendono dal Galaad. 6I tuoi denti sono come un gregge di pecore che risalgono dal lavaggio. Han tutte dei gemelli, nessuna ne è stata privata. 7Come spicchio di melograno è la tua tempia, dietro il tuo velo.
 
2Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di nobili! La rotondità delle tue cosce è come monili usciti da mani di artista. 3La tua vulva è una coppa rotonda; non vi manchi mail il vino aromatizzato! Il tuo ventre è un mucchio di grano circondato dai gigli. 4I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di gazzella. 5Il tuo collo è come una torre d’avorio. I tuoi occhi sono vasche di Heshbon, presso la porta di Bat-Rabbim. Il tuo naso è come la «Torre del Libano» che guarda verso Damasco. 6Il tuo capo si erge sopra di te come il Carmelo; i capelli sul tuo capo sono come porpora; un re è prigioniero delle sue trecce!
 
Se è vero che «il corpo è il crogiuolo metaforico per eccellenza»[24], concentreremo la nostra analisi sui vv. 7,2-6 per metterne in risalto il gioco delle metafore e delle similitudini. Ciò che balza agli occhi in questa serie di immagini è l’associazione delle varie parti del corpo con elementi riconducibili alla sfera della natura e alla sfera della manifattura (artigianato e architettura):
 
ventre… grano, gigli / seni… cerbiatti / occhi… vasche di Heshbon / capo… Carmelo;
piedi… sandali / cosce… moniliartista / vulva… coppa rotonda / collo… torre d’avorio / naso… Torre del Libano / capelli… porpora.
 
È interessante scoprire come nel Cantico le frequenti metafore naturalistiche siano accompagnate dalle non meno numerose metafore, per così dire, artigianali. Non si dimentichi che la metafora, in quanto tale, è un artificio linguistico[25], cioè una finzione artistica finalizzata a rendere più espressivo un discorso. Usando una metafora, si potrebbe dire che la metafora è un gioiello linguistico e che il poeta è un orefice. Usando invece una similitudine, si potrebbe dire che come l’orefice è un artigiano dell’oro, così il poeta è un artigiano della parola[26].
Esaltando il corpo dell’amata attraverso l’uso di metafore e di similitudini, cioè di artifici retorici, il poeta esalta anche il proprio lavoro di poeta (e quindi il proprio poema). Certo, abituati come siamo ad un altro tipo di estetica, queste metafore ci appaiono superficiali, se non addirittura offensive. Ma, come sottolinea R. Alter, «c’è un vantaggio tattico nell’aprire la descrizione su degli ornamenti dalle curve perfette e su una coppa o un calice arrotondati dal momento che la bellezza della donna è talmente deliziosa che l’analogia che più le si adatta è quella dell’abilità del maestro artigiano»[27]. La bellezza del corpo della donna è come la bellezza del poema (similitudine), anzi il corpo della donna è un poema (metafora).
Un’ultima osservazione. Le similitudini e le metafore dei vv. 7,2-6 hanno a che fare con la natura e con la cultura. Guarda caso, questo binomio sta alla base sia della poesia (e dell’arte in generale) sia dell’amore. Nel caso dell’amore il binomio andrebbe articolato in termini di sentimento vs ragione; nel caso della poesia, in termini di ispirazione vs tecnica. Dal Cantico ci viene un invito a non considerare questo binomio in termini di opposizione, ma di complementarietà. Non a caso, la metafora non è solo frutto della spontaneità del sentimento, ma anche della geometricità della ragione; l’artista-artigiano non è in balia della sola ispirazione, ma deve essere sostenuto anche dal rigore della tecnica[28]. Allo stesso modo, l’amore non è un puro affidarsi alla natura, ma deve anche fare i conti con le necessarie mediazioni storico-culturali (si ama sempre nel proprio contesto)[29].
 
 
Conclusione
 
S’è detto in apertura che il Cantico è canticissimo perché poeticissimo. Ma ad essere bellissimi, in questo poema, sono anche i corpi dei due amanti. Se è bello il corpo dell’amata/o non può che essere bello il poema che lo esalta. Parafrasando il Petrarca di «morte bella parea nel suo bel viso», potremmo dire: «corpo bello pare nel suo bel poema». Il corpo è bello e perciò è degno di poesia, ma, al tempo stesso, la poesia rende bello il corpo dell’amata/o. Di conseguenza, oltre che poema sul corpo (corpoema)[30], il Cantico è anche un poema sul poema (metapoema). La metafora dà corpo a questo poema sul corpo, anzi a questo corpo che diventa poema.
 
 
Nota bibliografica
 
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Exum J.C., The Poetic Genius of Song of the Songs, in Hagedorn A.C. (ed.), Perspectives on the Song of Songs, Walter De Gruyter, Berlin 2005, pp. 78-95;
Fokkelman J.P., Reading biblical poetry. An Introductory Guide, Westminster John Knox Press, Louisville 2001, pp. 189-206;
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[1] A.-M. Dubarle, L’amour humain dans le Cantique des cantiques, in «Revue Biblique» 61(1954), p. 67, n. 2.
[2] Cfr. in proposito gli studi di J.M. Munro, Spikenard e di E. Assis, Flashes of Fire. [bibliografia in calce]
[3] Riprendo qui l’espressione di Ph. Trible, God and Rhetoric of Sexuality, Fortress Press, Philadelphia 1978.
[4] Cfr. L. Amoroso, Per un’estetica della Bibbia, Edizioni ETS, Pisa 2008.
[5] Sia la lettura allegorica sia quella naturalistica si muovono sostanzialmente in questo ambito.
[6] Per la poesia biblica, il testo classico rimane L.A. Schökel, Manuale di poetica ebraica, Queriniana, Brescia 1989.
[7] Ryken L.-Wilhoit J.C.-Longman T. (edd.), Le immagini della Bibbia: simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, s.v. «Cantico dei cantici», San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006.
[8] «A differenza di altri testi biblici, qui non c’è descrizione narrativa, ma solo dialogo. Attraverso l’uso esclusivo del discorso diretto il poeta crea un’illusione di immediatezza: l’impressione che, lungi dall’essere semplicemente riportata, l’azione di sta svolgendo al presente» (J.C. Exum, The Poetic Genius, p. 80).
[9] Cfr. G. Barbiero, p. 31, n. 85 e 86. Leggere il Cantico in chiave drammatica «significa cercare una coerenza drammatica in un testo che sfida ogni formalizzazione narrativa e che non rispetta le regole dell’intreccio» (J.-P. Sonnet, Du chant érotique, p. 82). Lo stesso Sonnet preferisce parlare del Cantico come di un «libretto d’opera» (Du chant érotique, p. 84).
[10] Se ne veda la panoramica in G. Barbiero, pp. 32-38.
[11] J.-P. Sonnet, Du chant érotique, vi vede un’analogia con i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (Einaudi, Torino 1979) e parla del Cantico come di un «caleidoscopio che presenta una serie di variazioni sullo stesso tema» (p. 82).
[12] Mi sta dritta sulle palpebre / E i suoi capelli sono nei miei, / Di queste mie mani ha la forma, / Di questi miei occhi ha il colore, / Dentro l’ombra mia s'affonda / Come un sasso in cielo. / Tiene gli occhi sempre aperti / Né mi lascia mai dormire. / I suoi sogni in piena luce / Fanno evaporare i soli, / E io rido, piango e rido, / Parlo e non so che dire.
[13] È ampiamente dimostrata l’influenza della poesia erotica egizia sul Cantico: cfr. M.V. Fox, The Song of Songs; A. Loprieno, Searching, pp. 105-135; A. Nicacci, Cantico dei Cantici, pp. 61-85.
[14] G. Barbiero, p. 28.
[15] La Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente (TILC) traduce: «Sei come una puledra che fa impazzire i cavalli del faraone!». Secondo Barbiero, invece, «l’accento è posto, al v. 10, sull’aspetto estetico, non su quello erotico» (p. 77). In questa direzione la Traduction Œcuménique de la Bible (TOB) traduce: «À une cavale d’équipage de luxe, je te compare».
[16] Analogo discorso per le similitudini, riconducibili agli stessi ambiti. Il Cantico viene qui citato secondo la traduzione di D. Garrone-H. Gollwitzer, pp. 31-71.
[17] Cfr. Catullo, Carmina V.
[18] Da intendere qui sia come genitivo soggettivo (lei/lui soggetti desideranti) sia come genitivo oggettivo (lei/lui oggetti desiderati).
[19] J.-P. Sonnet, Du cant érotique, p. 86.
[20] Sul significato della palma, cfr. G. Barbiero, pp. 326-327.
[21] J.-P. Sonnet, Le Cantique, p. 171. «Questo imperativo metaforico svolge la funzione del da capo alla fine di una partitura musicale, visto che ci riconduce all’arrivo saltellante dell’amato, come una gazzella o un cerbiatto al capitolo 2 (2,9 e 2,17). Assumere la metafora significa quindi riprendere il cammino del poema» (J.-P. Sonnet, Du cant érotique, p. 101).
[22] Molto diffuso nella lirica amorosa egizia, e poi nella tradizione araba, il wasf è la descrizione del corpo dell’amata (cfr. G. Barbiero, Cantico dei cantici, p. 29).
[23] Per l’alternativa «vulva» / «ombelico», cfr. D. Garrone, Il poema biblico, p. 61, n. 7 e G. Barbiero, p. 312.
[24] Così J.-P. Sonnet, Du cant érotique, p. 88.
[25] In termini tecnici la metafora è un tropo che appartiene alla elocuzione. La elocutio (in greco lèxis) è la terza delle cinque fasi della retorica classica (le altre sono la inventio, la dispositivo, la memoria e l’actio) e indica l’espressione linguistica la più efficace possibile delle idee. Le risorse atte a rendere più incisivo un discorso sono le figure (dal latino fingĕre, “formare”, “creare”) o i tròpoi.
[26] Non mi sembra fuori luogo ricordare un episodio analogo presente nel libro XVIII dell’Iliade, la descrizione dello scudo di Achille costruito da Efesto (vv. 468-616): anche in questo caso, l’abilità del fabbro-artigiano Efesto va di pari passo con l’abilità dell’artigiano-poeta Omero (o chi per lui).
[27] Alter R., The Art of Biblical Poetry, Basic Books, New York 1985 (cito dalla tr. fr. L’Art de la poésie biblique, Lessius, Bruxelles 2003, p. 265).
[28] Come noto, è soprattutto la poesia barocca a sviluppare questo versante. Nel suo Canocchiale aristotelico, Emanuele Tesauro sostiene che la metafora è «ingegnosissima veramente: peroché se l’ingegno consiste nel ligare ­insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti: ­questo appunto è l’officio della metafora, e non di alcun’altra fîgura: percioché trahendo la mente, non men che la paro­la, da un Genere all’altro, esprime un Concetto per mezzo di un altro molto diverso: trovando in cose dissimglianti la somiglianza. Onde conchiude il nostro Autore [Aristotele] che il fabricar Me­tafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. Et per conseguente ell’è fra le Figure la più Acuta: per oche le altre, quali grammaticalmente si formano e si fermano nella superfi­cie del Vocabolo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle: e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di Concetti» (cit. in A.M. Lorusso [a cura], Metafora e conoscenza. Da Aristotele al cognitivismo contemporaneo, Bompiani, Milano 2005, p. 221).
[29] A ragione, J.-P. Sonnet sottolinea che «gli amanti sulla scena, non meno che il poeta, sanno benissimo che il desiderio umano si realizza sempre anche in un’operazione linguistica e culturale» (Du cant érotique, p. 90).
[30] Riprendo l’espressione da J.-P. Sonnet (Du cant érotique, p. 90), che a sua volta la riprende dal poeta algerino Jean Sénac (Œuvre complète, Arles, Actes Sud, 1999, p. 561).

 

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L. Zappella, L'officina poetica del Cantico dei cantici213 KB